Chiamatemi “direttore”
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Annina Vallarino)
Beatrice Venezi crocefissa dall’intolleranza femminista per una frase sul palco dell’Ariston. Evidentemente, è impossibile essere davvero libere
Scrittore. La divina Isabella Santacroce pone la sua chiosa nel giorno della polemica su quel “chiamatemi direttore” detto da Beatrice Venezi sul palco del Festival di Sanremo 2021. Affermazione che ha richiamato il furore social femminista, che la taccia di non fare il bene delle donne, riaffermando le leggi del patriarcato, ormai interiorizzato. Isabella Santacroce di rimando ripropone una vecchio post, una donna con maschera e cerbiatto, e la didascalia “scrittore”. Siamo nelle Stories di Instagram, si sa, lei è ormai una vera diva, ha fatto dell’assenza la sua luce. Lei, proprio come Venezi, ha sempre rifiutato la desinenza femminile. Lei, che ha scritto romanzi, provocato, liberato. Lei, che ha aperto da sé una casa editrice.
“Per me quello che conta è il talento e la preparazione, la posizione ha un nome preciso”, sono le parole, dette in maniera non troppo spontanea sul palco di Sanremo, che hanno seguito quel “chiamatemi direttore”. In questa affermazione sta la spiegazione del suo “direttore”, che da queste parti pare non essere maschilismo, assoggettamento, ma rimarcare d’essere prima di tutto individuo, capace, e poi, solo dopo, donna. In tempi di quote rosa, di rappresentanza femminile in percentuali, di continui slogan “donne al potere” (dimenticandosi di fare, prima di tutto, nomi e cognomi, insomma: identificare gli individui), pare ovvio che una professionista, che si è impegnata, ha faticato, voglia sottolineare la propria abilità, scrollandosi di dosso il cromosoma XX, cassa di risonanza mediatica, oramai, da “protezione essere speciale”. Ma ora, si sa, va di moda un’altra retorica, quella della donna di successo che deve comunque scontare la pena. Quale? Quella dell’esser donna, perennemente in lotta con il sistema patriarcale, mai vivo come ai nostri tempi (ma davvero?), voce di tutte le altre, come se le donne, tutte, fossero un comparto monolitico, un gruppo conforme, con una sola voce, stesse abilità, stesse possibilità, e non un insieme di individui unici e particolari. E se quella donna non lo fa? Allora è fuori dai giochi, è sbagliata, ha tradito, non importa abbia fatto più lei a livello d’emancipazione, nella sua vita, che tutto quel vociare social di penne impettite.
Eppure Venezi rappresenta proprio quello che le donne che vogliono emancipare professano. Giovane, capace, arrivata in alto con dedizione e caparbietà. Non è la valletta, il solito e solo abbellimento. Tuttavia, decide di non prendere le rappresentanze del genere femminile, mandando, comunque, un messaggio di forza, che pone la lente non sul suo esser femmina, ma sulle capacità, sull’importanza della preparazione. È un affare così malvagio? Ma non eravamo tutti per le donne finalmente libere di autodefinirsi e di essere quello che vogliono? Ah no, si vede che devono definirsi come le altre vogliono, quelle giuste, corrette, con il maschilometro sempre pronto in mano.
Nei social, a suon di like, si leggono le critiche più aspre, fino ad arrivare a parole in cui si afferma di “provare tenerezza” per Venezi (non siamo proprio sicuri che Venezi abbia bisogno della commiserazione, d’esser cullata, ci pare capace di asfaltare tutti quanti noi, che stiamo qua a commentare), condannandola per una frase, dimenticandosi invece chi è e cosa fa. Attacchi paternalistici al contrario, che paiono volerla considerare vittima, incapace, finendo per infantilizzarla. Ma si sa, nella narrazione odierna, estemporanea, che corre sugli algoritmi, le persone valgono più per quello che dicono in un frammento, che sia un tweet, per un’immagine, che per quello che fanno lungo l’arco di una vita, giorno per giorno. Il commento vale più dell’azione, in un gioco di specchi in cui si perde, e si finisce per rallegrarsi per un’ascella non depilata in mondovisione, quando solo ottant’anni fa le stesse donne usavano i rasoi per ribellarsi al diktat cattolico che le voleva aspre e naturali. Diciamolo: ognuno sceglie le proprie battaglie.
Si legge, addirittura, che quello che ha detto Venezi non ha scusanti, è un tradimento per tutte le donne (di nuovo, siamo veramente al circolo del cucito, al “club delle donne”, eppure non volevamo essere considerate alla pari?), è una “affermazione sessista e sbagliata”. E su quel sbagliata arriva un grido, affranto.
Donne che giudicano le parole delle altre, “sbagliate”. Perché? Perché sono altro. Sarà un caso che alcune fra le più celebri, personaggi che hanno smosso le pareti, infranto confini di genere, ignorato il patriarcato, annullato l’immagine della donna bambina bisognosa di protezione e di quote, promulgando, invece, quella dell’artefice del proprio destino, abbiano rifiutato, a piè pari, d’esser megafono identitario femminista? Oriana Fallaci, Isabella Santacroce, e, per andare più in là, Colette, Janis Joplin, Joan Didion. Figure estreme, capaci, uniche, contraddittorie, umanissime. Ma si vede che non ce le meritiamo, preferiamo le voci che ci ricordano che siamo delle poverine, che per vincere dobbiamo fare gruppo, diventando anonime, e mai particolari.
Venezi non ha detto molto, ma ha interrotto, posto un iato, a quel refrain festivaliero, inziato l’anno scorso, il refrain da monologhi della vagina. Un monologo a ogni donna, per ogni sfiga che ha incontrato. Le donne vanno bene e fanno felice il pubblico solo quando rispondono a un ruolo deciso e preciso, un tempo era quello delle bombe sexy, ancor meglio se silenti, ora siamo a quello delle vittime, eroine in quanto oppresse, con un tocco un po’ neorealista, un po’ retorico. E va bene, deve esserci spazio per tutti e per tutte. E allora perché non rispettare anche voci altre, diverse, che ci portino da un’altra parte?
Venezi e Santacroce, “direttore” e “scrittore”, da qui, dovremmo considerarle delle vittime? No. Anzi, paiono, più di altre, rappresentare la forza d’essere, sono donne di successo che non rendono il loro femminile un cahier de doléances, come par di moda. Quindi, da qua si vede la scelta di Venezi come un richiamo a quell’abilità, a quel mondo meritocratico, che bisogna chiedere e richiedere. Lei, come Santacroce, rappresenta tutto quello che le giustiziere vogliono. Eppure non è abbastanza. Lei nel suo “direttore”, e in quel richiamo alla meritocrazia, ci appare più femminista di tutte le femministe. Santacroce con il suo “scrittore” ci libera.
Ma no, non va bene. Sono troppo avanti.
Fonte: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/societa/beatrice-venezi-sanremo/
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