Xi e Zelensky si parlano: rinasce la mediazione cinese (e che ne pensano a Washington?)
di STRISCIA ROSSA (Paolo Soldini)
La telefonata tra Volodymyr Zelensky e Xi Jinping alla fine c’è stata. Era stato lo stesso presidente cinese a preannunciarla nei giorni della sua “storica” visita a Mosca, cinque settimane fa, ma allora non se ne fece nulla perché – si disse – i tempi non erano ancora maturi. Non erano maturati neppure quando Emmanuel Macron da Pechino dov’era in visita insieme con Ursula von der Leyen tenne a far sapere che lui (lei non si sa) quella telefonata l’aveva perorata. Dopo le caute manifestazioni di interesse venute da Kiev al piano – pardon: al “documento di posizione” – cinese che recava al primo di dodici punti l’obbligo al rispetto da parte di tutti della sovranità degli stati, erano piovuti i non possumus per conto terzi: da Washington innanzitutto ma poi anche dalla NATO per bocca del suo segretario generale Jens Stoltenberg e soprattutto dal fronte dei duri nell’alleanza guidato da Varsavia. Non bastava che Pechino affermasse il principio che nessuno deve invadere nessuno: se non condanna esplicitamente la Russia che lo ha fatto si tratta solo di parole al vento. E se la Cina non faceva sul serio era inutile che Zelensky e Xi si parlassero: per dirsi che?
Cortesie diplomatiche sorprendenti
Ieri i due non solo si sono parlati, per quasi un’ora s’è detto, ma alla fine per gli occhi degli osservatori è stato allestito uno spettacolo di cortesie diplomatiche per certi versi sorprendente. Secondo il resoconto del portavoce del ministero degli Esteri cinese Xi avrebbe apprezzato l’impegno del presidente ucraino a rafforzare la base politica delle relazioni” tra i due paesi che “attraverso 31 anni di sviluppo” avrebbero raggiunto un “livello di partenariato strategico”. Addirittura. E poi sarebbe molto piaciuta al cinese “la ripetuta enfasi” di Zelensky “sullo sviluppo della cooperazione con la Cina”.
I cinesi – si sa – sono cerimoniosi, ma l’idillio verbale si è accompagnato a due gesti molto concreti: l’annuncio da parte della portavoce del ministero degli esteri di Pechino del prossimo arrivo a Kiev di un “rappresentante ufficiale del governo per gli affari euroasiatici” espressamente incaricato di verificare con le autorità ucraine e ”altri governi europei” le prospettive di una “soluzione politica della crisi” e l’annuncio da parte del portavoce di Zelensky della nomina di un ambasciatore a Pechino che era da mesi sede vacante. Questi sviluppi concreti sembrerebbero dare qualche sostanza alle generiche dichiarazioni di buona volontà di Xi, il quale – secondo il resoconto della telefonata di parte ucraina – dopo aver affermato che “il dialogo e i negoziati sono la sola via d’uscita dal conflitto” e che la Cina “è sempre stata dalla parte della pace”, avrebbe sillogisticamente aggiunto che “l’obiettivo principale di Pechino è quello di promuovere la pace”.
Insomma: riprende corpo lo scenario della “mediazione cinese” che sembrava affondata dai veti occidentali e – forse va aggiunto- anche dallo scarso entusiasmo dimostrato da Vladimir Putin? Parrebbe di sì, ma c’è da chiedersi, a questo punto, i motivi di questa resurrezione. Appare un po’ strano, in effetti, che in un momento di forte ostilità tra Pechino e Washington, l’alleato che più dipende dagli Stati Uniti per le ovvie ragioni che sono sotto gli occhi di tutti, si metta a civettare apertamente con i cinesi. Ai quali, peraltro, tutti gli occidentali e massimamente i vertici della NATO rimproverano compromissioni e traffici con i russi e paventano pubblicamente intenzioni di fornire a Putin addirittura armi da utilizzare nella sua “operazione speciale”.
Una situazione con molte domande e poche certezze
Come spiegare questa apparente contraddizione? Con il suo interesse per l’iniziativa cinese Zelensky sta cercando di ritagliarsi un qualche spazio di manovra autonomo dalle direttive americane e della NATO? Si sa che qualche “disobbedienza” di Kiev alle raccomandazioni di Washington c’è stata in passato, ma si è sempre trattato di manifestazioni di autonomia strategica che andavano, semmai, in direzione dell’inasprimento dell’atteggiamento verso i russi, non certo il contrario. Se si trattasse di una manifestazione di autonomia in senso diciamo così “pacifista” parrebbe un po’ strano che un atteggiamento simile prendesse corpo proprio nel momento in cui, con le recenti dichiarazioni pubbliche di Stoltenberg e altri nella “conferenza dei 50” di Ramstein (quella mensile in cui si ritrovano tutti gli stati fornitori di armi a Kiev) e con l’invito formale per Zelensky al prossimo vertice dell’alleanza a Riga, sembrerebbe evidente una certa volontà di affrettare i tempi di una futura pura e semplice entrata dell’Ucraina nella NATO.
Ma si può fare anche un’altra ipotesi: che l’interesse per il non-piano di pace cinese non sia soltanto un affare ucraino ma anche americano e che l’amministrazione Biden, non potendo mostrare aperture in proprio in questa fase di tensione acuta con il gigante asiatico, abbia dato via libera alle aperture ucraine perché fra i dodici punti ce n’è qualcuno che non gli dispiace. Per esempio quello che condanna fermamente il ricorso alle armi nucleari, anche quelle tattiche, e la necessità di garantire la sicurezza delle centrali atomiche. È possibile che gli americani vedano con favore gli ammonimenti cinesi a Putin a non lanciarsi in quell’avventura, che viene sempre più spesso evocata, invece, da Dmitrji Medvedev e da altri duri più duri del regime. Si tratta di illazioni, che troverebbero a dire il vero qualche riscontro nella forte insistenza dei cinesi e anche degli ucraini proprio sul punto del no al nucleare del piano, ma per ora abbastanza campate in aria. Certo è che sulla prospettiva della “mediazione cinese”, se esiste davvero, e sulle risposte degli ucraini ci sarà nei prossimi giorni da ragionare parecchio.
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