da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Giorgio Cuscito)
Il progetto per un’improbabile città made in China sull’isola di Daru evidenzia la rilevanza del paese arcipelago nella competizione tra Pechino e Canberra.
Con in mente l’Australia, la Cina tenta di consolidare la sua presenza in Papua Nuova Guinea.
L’emittente radiotelevisiva Australian broadcast corporation (Abc) afferma che l’impresa hongkonghese Wyw Holding Limited ha proposto a Port Moresby la costruzione di una città sull’isola meridionale di Daru, a ridosso delle acque sotto la sovranità di Canberra.
Il progetto, avanzato nell’aprile 2020, pare ambizioso. Stando ai documenti raccolti dalla Abc, prevede un parco industriale, un porto e una zona commerciale su un’area di 100 chilometri quadrati. Valore complessivo: 30 miliardi di dollari. Cifra quasi irrealistica, se si considera che supera di 7 miliardi il pil della Papua Nuova Guinea. Il portavoce del primo ministro papuano James Marape afferma che questi non era a conoscenza della proposta, ma ha aggiunto anche che se un investitore straniero vuole proporre un progetto da milioni di kina (la valuta locale), Port Moresby “non lo fermerà a patto che ciò avvenga in linea con le leggi nazionali e a beneficio del paese”.
L’interesse cinese per Daru non è una novità. Lo scorso novembre, Port Moresby e la cinese Fujian Zhonghong Fishery Company hanno siglato un memorandum d’intesa per lo sviluppo sull’isola di un parco industriale ittico del valore di 200 milioni di dollari.
Da tempo Pechino investe in Oceania. Tra il 2018 e il 2019 Papua Nuova Guinea, Nuova Zelanda, Isole Salomone, Vanuatu, Tonga, Fiji, Isole Cook e Samoa hanno aderito alla Belt and Road Initiative (Bri, nuove vie della seta). La loro partecipazione traccia la rotta di penetrazione cinese nella sfera d’influenza dell’Australia, orientata verso la costa occidentale degli Stati Uniti. In particolare l’ok di Wellington al progetto di Pechino e alla collaborazione con Huawei nel campo del 5G è contrario alla postura degli altri membri della comunità d’intelligence anglofona dei Five Eyes.
Australia e Cina sono ormai in aperto contrasto sul piano politico, militare ed economico malgrado la loro rilevante collaborazione commerciale. Da tempo Canberra accusa la potenza asiatica di condurre operazioni di influenza sul suolo australiano ed è schierata con gli Usa nel contenimento anti-cinese. Perciò ha bandito Huawei dallo sviluppo della rete 5G aussie, intensificato le operazioni militari con Usa, India e Giappone nell’ambito del dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad), criticato Pechino sulla gestione dei dossier Tibet, Xinjiang, Hong Kong e sospeso gli investimenti cinesi nel proprio paese. La Repubblica Popolare ha replicato inasprendo i toni diplomatici e riducendo le importazioni di merci australiane, in primis carne, orzo, carbone e vino.
Australia e Giappone hanno anche aderito alla Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), fortemente voluta da Pechino per impedire a quest’ultima di guidare in solitaria i progetti di libero scambio nell’Indo-Pacifico. Presto Canberra potrebbe anche sostenere gli Usa nel tentativo di ridurre la dipendenza tecnologica dalle terre rare lavorate in Cina.
Tali fattori attribuiscono rilevanza al piano della città made in China a Daru e al tempo stesso ostacolano la sua edificazione.
La Papua Nuova Guinea tra Australia e Cina
La Papua Nuova Guinea conta 8,5 milioni di abitanti ed è il paese insulare più popoloso del Pacifico. La produzione mineraria, principalmente gestita da imprese australiane, è il settore più produttivo. Del suo territorio fanno parte la porzione orientale dell’isola di Nuova Guinea, l’arcipelago di Bismarck, le Salomone settentrionali (regione autonoma di Bougainville), le Isole di D’Entrecasteaux, le Louisiade e altri atolli minori. Tra questi rientra Daru, che si trova a circa 200 chilometri dal mainland australiano e a soli 50 chilometri dall’isola di Saibai, anch’essa sotto la sovranità di Canberra. Gli abitanti di Daru sono circa 20 mila e vivono principalmente di pesca. Dal 2015 l’isola è impegnata nel complicato contenimento di una forma di tubercolosi resistente agli antibiotici, il quale non agevola investimenti di larga scala.
Da tempo la Repubblica Popolare investe in Papua Nuova Guinea, con conseguente accumulo di debito da parte di Port Moresby. I progetti più rilevanti riguardano la costruzione di infrastrutture nel campo delle telecomunicazioni: la rete 3 e 4G; il cavo sottomarino in fibra ottica Kumul lungo 5 mila chilometri che dovrebbe connettere il paese all’Indonesia entro l’anno; il centro dati nazionale costruito da Huawei a Port Moresby. Le prime due infrastrutture non sono ancora complete, la terza invece è considerata dagli apparati di sicurezza australiani inaffidabile e penetrabile dalla Repubblica Popolare.
Il controllo di questo tipo di infrastrutture consente il monitoraggio del flusso di dati altrui e, se necessario, la loro interruzione. Non a caso l’Australia ha cofinanziato il sistema di cavi sottomarini Coral Sea, che connette Port Moresby, Sidney e Honiara (Isole Salomone).
Il progetto urbano di Daru, ammesso che sia mai realizzato, sarebbe simile a quello che la Cina sta sviluppando nel distretto di Botum Sakor in Cambogia, uno dei partner più solidi di Pechino nel Sud-Est asiatico. Qui l’obiettivo è creare un complesso turistico, un porto, un parco industriale e centrali idroelettriche e idriche. Il tutto a pochi chilometri dalla base di Ream, un tempo presidiata dagli Usa e ora possibile sito di un avamposto militare cinese.
La Papua Nuova Guinea rappresenta un contesto diverso, visto il legame securitario con Australia e Usa. Canberra sostiene materialmente lo sviluppo navale del paese insulare. Washington ne addestra i soldati e dal 2020 ha iniziato a schierarvi contingenti per periodi di cinque mesi nell’ambito di una rotazione che riguarda anche Thailandia e Filippine. Nel 2018, gli Usa hanno annunciato di voler sostenere Canberra nell’espansione della base navale papuana di Lombrum (isola settentrionale di Manus) in chiave anti-cinese. La posizione dell’installazione è strategica: tra le postazioni militari a Guam, quelle nelle Filippine e l’Australia. Nel 2016 il governo papuano ha affidato la costruzione dell’aeroporto di Momote (vicino a Lombrum) a China Harbour Engineering. Si tratta di una sussidiaria di China Communications Construction Company (Cccc), gigante della logistica che poco tempo fa voleva investire nel porto di Trieste e che è stato sanzionato nel 2020 da Washington perché coinvolto nella costruzione delle isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale.
Inoltre nel 2019 Australia, Usa, Giappone e Nuova Zelanda hanno finanziato l’organizzazione del referendum non vincolante per l’indipendenza della regione autonoma di Bougainville (conclusosi con il 98% di voti a favore) per impedire che lo facesse Pechino e che così vi guadagnasse influenza. Si tratta di una delle aree più ricche del paese e del teatro della sanguinosa guerra civile tra il movimento secessionista locale e il governo di Port Moresby all’inizio degli anni Novanta. Ora la regione negozia il processo di indipendenza con il governo papuano.
Anche se a Daru non sorgesse mai una città made in China, questi fattori bastano per considerare la Papua Nuova Guinea nodale posta in gioco nella partita tra Pechino e Canberra.
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