L’identità e la fede
Di Gazzetta Filosofica (Valentina Gaspardo)
Ciascuno è l’insieme delle vicende che lo interessano, più o meno attivamente partecipe. Persino quelle che dimentica, e addirittura quelle che eccedono la sua vita individuale. L’Io è la sua vita consapevole e inconsapevole, presente e passata, tanto sotto il rispetto individuale quanto sotto quello collettivo. Chiamiamo inconscio tutto ciò che dell’Io è in ombra, cioè la quasi totalità del suo essere. L’aspetto cosciente è, per contro, il lumicino che muove confusamente per venire a capo del dilemma che, in quanto consapevole, lo affligge: chi sono? Da dove vengo?
Nel suo agitarsi inquieto l’Io ricostruisce i misteri che lo hanno generato, e pazientemente restaura e ricompone sentieri nuovi e già tracciati. La coscienza cerca di rievocare la mappa degli eventi, delle circostanze, dei pensieri. Ambisce a possedere gli infiniti legami di tutte le cose, ma può solo approssimare, con gran margine di errore, l’oscura vita del Tutto. Quando, però, all’uomo riesce di scorgere una nuova via, allora l’entusiasmo e la gioia seguono la creazione di un nuovo mondo.
Nel suo tentativo, per un verso sempre fallimentare e per l’altro irrimediabilmente vincente, l’umanità non può fare a meno della sua qualità par excellence: la memoria. L’identità del singolo (e del gruppo umano) dipende dalla sua memoria: chi subisse un grave trauma e non ricordasse nulla del suo passato sarebbe smarrito, privo di certezze, senza “patria”. La storia individuale è l’approdo sicuro su cui si fondano gli ulteriori passi dell’individuo che affronta la confusione del mondo, proprio come la storia collettiva funge da bussola alla produzione di nuove idee, alla costituzione di nuovi istituti. La memoria garantisce un riferimento saldo e inattaccabile, anche qualora la considerazione di una parte del passato venisse modificata (perché, in quel caso, qualcos’altro sostituirebbe il riferimento insufficiente). Se il passato è garante del presente, d’altro canto non tutte le analisi del passato sono efficaci.
Dal punto di vista della psicologia individuale, il passato può essere freno o occasione di sviluppo. Il dolore di un rifiuto può spingere alla rimozione del desiderio che, lungi dallo scomparire, viene inconsciamente messo da parte, andando a turbare e minare l’esperienza di chi ne vive la rimozione. Non solo per le vesti che assume il suo riaffiorare, ma anche a causa dell’insicurezza e insoddisfazione di fondo che lascia in cuore una violenza irrisolta e incompresa. Accade però che non tutti cedano alla forza della circostanza nefasta e alla ferocia del gruppo umano che castrano l’espressione; perché? Cosa può fare la differenza? Quale identità bisogna costruire per non annientarsi?
Un tempo, forse, si poteva rintracciare la sicurezza di alcuni individui nel retaggio di sangue che ne garantiva la potenzialità. Discendere da nobili personalità, autrici di grandi imprese, diviene motivo di grande ispirazione e coraggio. Un’altra ancora al passato è il ritrovamento della propria origine, la ragione del proprio ruolo sociale, in una volontà divina (l’Atride protetto da Zeus; l’imperatore sorretto dalla benedizione della Chiesa, dal suo destino, ecc.). Il fallimento, in questi casi, non determina la distruzione della personalità, ma, dopo il lutto, il dolore, l’occasione della ricostruzione. Quanta fiducia e forza di volontà poteva avere un personaggio come Napoleone, risorto dopo essere stato cacciato? Quanta ammirazione generava per essere persino celebrato alla sua morte dai compagni d’arme ormai vecchi e stanchi, così innamorati da lasciarsi morire di freddo pur di presenziare al suo funerale, all’ultimo saluto?
E oggi? Non abbiamo dèi, né retaggi importanti, né scopi. La nostra filosofia non è capace di destreggiarsi vittoriosa fra urgenze simili. Non permette la fiducia in se stessi, ma lascia in balìa dell’umore variabile e incostante della folla, dell’opinione, del demagogo. Vogliamo allora aggiungere un tassello alle considerazioni sin qui compiute. La fiducia è una questione di fede.
Abbiamo già provato ad annotare che il pensiero odierno, ateo, sia in realtà una delle religioni più meschine. Non sappiamo, oggi, di abitare una fede; crediamo di possedere la certezza e la chiave – la scienza – capace di aprire ogni fenomeno, e metterlo a nudo dinanzi l’occhio attento dello specialista. Lo scienziato sa tutto quel che si può sapere dell’oggetto, della vita. Certo, possono emergere nuove incognite (virus, geni, micro-processi fisiologici), però sempre all’interno del paradigma che asserisce: è tutto qui. L’emozione corrisponde alle reti neurali che si attivano e “iniettano” dosi di sostanze eccitanti o deprimenti. La vita è biologia, e ciò che conta è la sua durata: perciò il cibo e la medicina diventano le preoccupazioni preponderanti. I legami familiari, d’amore e amicizia non sono codificati che per la loro componente fisiologica, e l’aspetto che fa del legame quel legame viene lasciato nelle mani dell’astrologia e della psicologia spicciola che ripete il luogo comune. D’altronde sarebbero cose private e per certi aspetti anche secondarie. Non si respira l’ambizione di Aristotele, che nell’Etica a Nicomaco si spinge a pensarne il valore e il significato. Per tutte queste ragioni solo abbozzate possiamo ribadire di abitare la religione più triste. Il suo credo afferma: è tutto qui.
Il mondo odierno abita la fede che non vi sia altro che ciò che indaga, e il resto sia puro caso. Ha perso la fede. O meglio, possiede una fede che non è consapevole di essere tale, e per questo è massimamente contraddittoria e presuntuosa: presume di aver colto tutto quello che vi sia da cogliere, almeno sotto il profilo essenziale.
« La fede che non si fonda sullo scetticismo finisce per credere nell’esistenza di una ragione libera da postulati davanti ai quali si umilia. » (Nicolás Gómez Dávila)
Soltanto chi prenda atto dell’irriducibilità del sacro, dell’ignoto, del dio – dell’inconscio –, cioè chi non ha l’arroganza di aver colto il senso ultimo delle cose, può possedere la forza che ridona fiducia nell’azione individuale. La fede consapevole spiega qualcosa di opposto alla fede non consapevole, e dice precisamente: non è tutto qui. Il cinismo svanisce. Se c’è dell’altro, quest’altro è indagabile e può venire a illuminare le nostre esperienze. La volontà del gruppo umano può sbagliare; la violenza non è l’unica reazione che dobbiamo aspettarci dall’altro; l’amore non è mero scambio di sostanze chimiche e l’amore a cui si può ambire non è solo quello descritto dalla neurobiologia.
L’identità odierna appartiene alla “moda”. Non essendoci più nulla che trascende l’interesse immediato e la configurazione scientista delle cose, non c’è più occasione di identificarsi in null’altro che nella traballante opinione, nell’idiosincrasia delle folle, nelle dicerie del demagogo. L’acquisto del prodotto, l’immagine creata ad hoc del personaggio televisivo, la marca dei vestiti sono gli unici, imbarazzanti rituali a cui prendiamo parte. Se non vestiamo di marca siamo poveri, se non ci ispiriamo al personaggio vuoto e costruito della tivù siamo nullità, se non compriamo l’oggetto appena uscito non siamo all’altezza dei tempi. La religione postmoderna ci indirizza verso feticci che lasciano insoddisfatti, insicuri, vuoti; e spinge a inseguirli sempre più velocemente per provare a sentirsi finalmente soddisfatti, sicuri e realizzati. Ma i suoi dettami rendono impossibili i suoi scopi. Le sue indicazioni contraddicono i suoi desideri. Non ci sentiamo appagati del vestito, dell’auto, della ricchezza o delle relazioni d’affetto. Né ci passa per la mente che la filosofia di cui siamo imbevuti sia la responsabile dell’insieme dei fallimenti. Essa predica l’indefinita ripetizione della vita – la sua prosecuzione biologica come scopo ultimo – poiché non scorge sensi ulteriori. Perciò, fedeli al dogma, a ogni sconfitta la reazione reitera la colpa: ci vorranno più auto, più oggetti, più denaro, più amici, più donne e uomini con cui entrare in intimità. Ad ogni “più” conquistato seguirà una caduta (psicologica) “più” forte, dal momento che, per esempio, nessuna relazione amorosa riuscirà mai a realizzarsi. Il mantra odierno predica l’estetica del corpo, e su questa base nessun uomo al mondo sarà mai sufficiente, dal momento che, prima o dopo, apparirà una figura più bella del partner. Oppure accade che la colpa delle relazioni fallite sia attribuita a qualcun altro, al destino, al caso, al tradimento altrui, …; mai a una mancanza intrinseca, perché la relazione instaurata non fosse abbastanza buona. Chi si accorge del meccanismo offensivo, costrittivo, sciocco che quotidianamente vediamo in atto nella maggioranza dei rapporti? È tutto qui, ci si ripete ancora.
Le prospettive future si riducono al progresso tecnologico (o, nel migliore dei casi, economico): ossia uno stato di cose che permetta la ripetizione più veloce e più ampia dell’identico insieme di gesti e credenze che compiamo già qui e ora.
Il nostro riferimento attuale coincide con la variabilità e la gratuità dell’opinione; della reiterazione indefinita del presente. Esso ferisce, mortifica, annichilisce e non vi sono affatto idee differenti. L’identità dell’uomo di oggi si genera sul prototipo di un uomo ricco, dai bei lineamenti, efficiente. All’incirca gli aggettivi di cui si serve una pubblicità di automobili. Ogni movimento verso la realizzazione di questa identità è un movimento apparente, che genera insicurezza ulteriore. L’insicurezza è poi mascherata dalla tecnica: se abbiamo timore di esporci, perché le relazioni che intessiamo non sono buone, allora ci sarà un’applicazione che permette di non farlo; una di quelle che da casa ci connette senza interfacciarci alle persone che lavorano nel servizio. Se siamo intimoriti dal giudizio, invece di risolverci e risolvere le manipolazioni tossiche, cerchiamo le angolazioni giuste del nostro volto o del corpo, che con un buon filtro ci rendono appetibili – a distanza – dai social. Se siamo angosciati dal rapporto familiare o dalla scuola, in cui non riusciamo a realizzarci per motivi vari, scappiamo nei videogiochi: lì saremo invincibili. L’innovazione tecnologica si afferma così velocemente perché aggancia le debolezze comuni, che a loro volta sono generate dalla fede odierna. Pensiamo poi che attingendo all’identità ricca, bella, efficiente tutto verrà risolto. Ma l’esperienza non conferma questa credenza, e nasce quel cinismo amaro che molti adulti ostentano.
È una fede ritrovata – nel senso che si è detto – a iniziare il movimento che segni il passaggio dall’identità malata a quella nuova. Ciò che è inconscio procede ben oltre quello che sappiamo, o presumiamo di sapere, del mondo. Per questo, l’idea è di cominciare a scavare nell’inconscio individuale e collettivo, ché solamente da lì verranno le indicazioni di un mondo nuovo. Apriamo questa porta che conduce a un’identità più profonda, che ambisce a lidi più nobili.
Fonte: https://www.gazzettafilosofica.net/2021-1/aprile-1/l-identit%C3%A0-e-la-fede/
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