Psicopatologia del liberale
di FRANCESCO CARPAGNANO (RI Siracusa)
A sentire certa gente, i dipendenti pubblici sarebbero dei privilegiati, gente che gode di trattamento e diritti che i lavoratori privati si sognano. E in fondo, a paragone del privato dove regnano dinamiche di sfruttamento ottocentesco che al confronto la Londra della rivoluzione industriale sembra la Svezia di oggi, è davvero così. I dipendenti pubblici se la passano in media meglio dei privati, è un fatto (1).
Quello che mi lascia perplesso è, però, questo: gli stessi che si lamentano dei “privilegi” dei dipendenti pubblici – se fossero razionali – dovrebbero quindi appoggiare e sostenere attivamente politiche di espansione della sfera pubblica, di nazionalizzazione dei settori strategici e via dicendo, in modo da poter sperare, un giorno, di entrare a fare parte di quella schiera di persone che essi ritengono privilegiata. O quantomeno di lasciare questa possibilità ai loro figli e ai loro cari. Invece no, questi stessi sono in gran parte i primi che vorrebbero privatizzazioni, stato minimo, liberalizzazioni.
Ora, dal punto di vista psicologico, perché questo accade? In un libro che ho appena letto (2) c’è questa immagine fortissima del servo che strappa via la frusta dalle mani del padrone per frustarsi da solo. Ovvero, gente che ha così interiorizzato la legittimità dello sfruttamento liberista che è pronta a sacrificare sé stessa, la propria vita e la propria libertà sull’altare della massima produttività, della massima efficienza e dalla massima prestazione personale. Tutto ciò è indubbiamente patologico.
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