A ama B, anche B ama A (le solite lettere che si amano), ma il punto non è l’amore, il punto è…
Non è il punto, l’amore? E se lo fosse? Se l’amore fosse un punto? Non è quindi così vasto, l’amore? Non possiede estensione? È solo pungente, è zanzarino, è pungiglione d’insetto, insetto esso stesso? Punta di freccia lirica? Metafora scoccata? Non è cosa, l’amore? Mi piace l’idea. L’amore, come punto, è un’idea? Un’idea possiede estensione? Non è cosa concreta, l’amore.
A questo punto (un altro punto) mi ricordo, ricordo me quand’ero sbrigativo e sempre un po’, anzi abbastanza, distratto. E lei mi disse «credo di amarti», e io risposi «non è cosa, non crederlo, non è nella credenza, l’amore». Adesso capisco, fui filosofico senza saperlo (nemmeno sapevo di non sapere di non sapere: un filosofo estremo). E se ben ricordo, ossia se mi ricordo di lei e non di me, lei aveva capito tutto ma io continuavo a essere distratto, infatti lei mi disse «la prendo con filosofia», intendeva la cosa.
La cosa, che non era, poteva anche essere presa. Poteva essere presa con la filosofia, che alle volte è una pinza, anche telescopica, anche fustellatrice, anche rivettatrice, anche a pappagallo, anche spellacavi e intrecciafili… Con filosofia ossia con amor di sapienza, e sapienza è anche facoltà di sapore. La sapienza: di che sa. È anche un mestolo, una cucchiara, la filosofia? La sapienza non solo come profonda conoscenza intellettuale ma anche come superficiale e immediata capacità di esercitare il gusto per semplice contatto con i corpi che stimolano i nostri chemiorecettori linguali. Infatti prendemmo la cosa con profonda conoscenza gustativa.
Ma stavo dicendo (non mi distrarre, dico a me): … A ama B, anche B ama A (i soliti amori tra lettere, tra lettere e filosofia, i soliti amori universitari) ma non è questo il punto, il punto è l’ostacolo, sennò qui non fa mai giorno sul romanzo.
Datemi un ostacolo e vi solleverò le pagine una dopo l’altra. È forse una leva, il romanzo? Sì, il romanzo è costituito da un corpo girevole, la pagina, intorno un asse fisso, la costa del libro. Ma lasciamo perdere la leva, qui non è cosa. Non è cosa la leva? Sì, è cosa, ma non abbiamo tutto questo tempo.
Dicevo: il punto è l’ostacolo, questo è il punto… che però non è un punto, l’ostacolo, è piuttosto un elemento materiale, una sporgenza, una barriera, un carico disperso, una siepe, una siepe con acqua, una riviera, una croce di sant’andrea, anche un fosso e un ferro da stiro, anche un tunnel e un labirinto per criceti.
Conosciamo i tanti ostacoli all’amore, li conosciamo perché li cerchiamo. Il criceto non cerca l’uscita, cerca il tunnel.
Se l’amore fosse solo questione d’amore, trovato l’amore, avremmo trovato l’amore. Punto (ancora?). Ma noi cerchiamo l’amore impossibile, e ciò che è impossibile non può essere possibile… Non è possibile l’impossibile? Allora tutto è possibile? Fa’ il favore, fermami, mi dico…
Cerchiamo quindi l’amore, che non è. Anche perché, se fosse, non lo cercheremmo.
Insomma, vediamo di chiudere: A e B si amano (alla lettera, letteralmente) e il loro amore diventa un romanzo (letterariamente parlando o scrivendo o leggendo): il miscuglio di un certo numero di parole, di frasi che non sanno tacere, e di pagine combustibili che l’amore non riesce a bruciare, perché ama la vanità letteraria più di sé stesso.
Il romanzo è una specie di fatica, una specie di sollevamento pesi, una specie di sospensione di ciò che racconta: la vita in bilico su ogni rigo. Lo sanno tutti: la vita ondeggia, ondeggia e mangia, e con essa l’amore, che è un servizio da due, doppio, ossia dubbioso. Non è che l’amore sia, è che l’amore potrebbe essere: è un dubbio che va risolto. Va quindi scritto, iscritto a questa gara a ostacoli: frasi orizzontali e sovrapposte, spalliere e muretti di paragrafi, pareti a picco di capitoli.
Facciamola breve, sinottica, la cosa: appare C (anche le altre lettere si innamorano) e, nel giro di qualche pagina, ama A. Si racconta che anche A amerà C, semplicemente per soddisfare il principio della corsa a ostacoli, saltando B. Si racconta che che C e A si ameranno fino a D, che eccetera eccetera… e poi tutte le lettere si ameranno figliando parole e parole. Ne sanno qualcosa le dita sui tasti che accoppiano lettere e poi le scompigliano in nuovi accoppiamenti finché il racconto, il romanzo, il poema d’amore sbattono il muso sulla strabenedetta parola fine. Si stampi.
La fine è veramente la fine? Dico di no, e aggiungo due righe dopo la fine, un ultimo paragrafo, quello che chi legge spera sempre di trovare dopo che tutto è stato detto. Si cerca sempre il non detto oltre il detto, il non scritto oltre lo scritto, un’altra fine dopo la fine. Dico questo, scrivo: e se fosse, quello tra A e B, l’amore? Se fosse questo rinvio, l’amore, questo addio, questa rinuncia a utilizzarlo per completare i giorni, le pagine? Lo chiedo retoricamente (non aspetto risposte): se fosse questo l’amore, quello tra A e B, se l’amore fosse quella abolizione, quella sottrazione di sé alla storia d’amore? Quell’amore senza storia ovvero senza compromesso col mondo. Anche quel desiderio senza soddisfazione. Non è che il primo amore non si scorda mai, è che il primo amore non si accorda mai con gli amori ulteriori, essi sì, quindi, scordati. O no? Chiedo e dico e scrivo tra le righe: e se l’amore fosse tra le righe e non tra le lettere? Così, tanto per chiudere.
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