DRAGHI, ERDOĞAN E IL MEDITERRANEO
da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Daniele Santoro)
La crisi diplomatica tra Italia e Turchia innescata dall’accusa rivolta da Mario Draghi a Recep Tayyip Erdoğan (“dittatore”) è manifestazione dell’irrilevanza in cui è precipitata Roma nel Grande Mediterraneo. L’attacco verbale del primo ministro italiano al rappresentante della nazione turca – nemmeno il più acerrimo avversario continentale del Reis, il presidente francese Emmanuel Macron, era mai arrivato a tanto – è parte di un approccio studiato, non uscita estemporanea.
Prima di rispondere a “quel tizio di nome Draghi” Erdoğan ha atteso una settimana. Ha attivato i canali diplomatici, atteso una rettifica. Anche non pubblica. Da Roma non è arrivato alcun segnale. Malgrado il suo consigliere diplomatico Luigi Mattiolo (ex ambasciatore ad Ankara) pare abbia tentato di spiegare al premier che la minaccia esterna compatta la nazione turca. Come hanno già dimostrato il fallito golpe del 15 luglio 2016, l’offensiva monetaria di Trump dell’estate 2018 e le reazioni internazionali all’operazione a est dell’Eufrate dell’ottobre 2019. Al di fuori della Turchia, per i turchi Erdoğan non è Erdoğan ma il capo dello Stato. Il vertice della nazione per cui sacrificano le proprie vite. Quando parla di sé il presidente turco usa la terza persona, perché scinde l’individuo dalla carica. Quanto gli italiani sono antropologicamente avversi a fare.
Lo rivela il cambio di approccio alla Libia a ogni avvicendamento a Palazzo Chigi. Roma ha prima installato a Tripoli il Governo di accordo nazionale (Gna) dei Fratelli musulmani. Poi lo ha rinnegato sostenendo informalmente l’offensiva di Haftar in Tripolitania e cacciando di fatto i turchi dalla conferenza di Palermo. Salvo alzare bandiera bianca quando Erdoğan è entrato a Tripoli da vincitore. Per infine picconare l’asse tripolitano con la Turchia.
In termini teorici, con l’attacco verbale a Erdoğan Draghi punta(va) a raggiungere due obiettivi. Il primo è segnalarsi agli americani. La sferzata al presidente turco è un messaggio a Joe Biden, che in campagna elettorale aveva esplicitamente suggerito di sostenere l’opposizione contro “l’autocrate” – termine comunque diverso da “dittatore”. Il secondo obiettivo è smuovere le geometrie del triangolo con Francia e Germania. La vittoria turca in Tripolitania ha infatti costretto Roma ad appiattirsi sulla posizione di Ankara, quindi di Berlino. Permettendo a Parigi di intestarsi la resistenza alla progressione turca nel Mediterraneo, dunque di delineare un’intesa informale con la Turchia volta a estromettere gli italiani dalla Quarta Sponda. La svolta verbale dell’8 aprile era in tal senso mirata ad aumentare il costo della compiacenza tedesca nei confronti di Ankara e a sventare l’asse di fatto tra quest’ultima e Parigi nell’ex colonia italiana.
Nessuno dei due obiettivi è raggiungibile. I droni Bayraktar Tb2 che sorvolano il fronte del Donbas, in Ucraina, sintetizzano l’importanza strategica raggiunta da Ankara per Washington. Dal Donbas alla Tripolitania, dal Levante al Caucaso, la Turchia è l’unico paese Nato con la volontà e le risorse per confrontare la Russia nel Grande Mediterraneo. Per gli Stati Uniti la questione libica si riduce alla presenza militare russa in Cirenaica. Le profonde connessioni di Draghi con la nuova amministrazione americana non possono dunque surrogare la strutturale indisponibilità degli italiani ad avvalersi dello strumento militare per difendere i propri interessi. Men che meno per avanzarli.
D’altra parte, l’unico aspetto del disastro libico sui cui francesi, tedeschi e turchi sono d’accordo è l’interesse a estromettere l’Italia dalle Libie. Per Parigi è un’inclinazione naturale. Per Berlino meno, ma la decisione di Angela Merkel di relegare in ultima fila il premier italiano – che fosse Giuseppe Conte e non Draghi è un dettaglio – in occasione della conferenza sulle Libie del gennaio 2020 è in tal senso rivelatrice. Paradossalmente la Turchia è l’unico attore direttamente coinvolto in Nord Africa ad avere interesse a tutelare parte degli interessi italiani sulla Quarta Sponda.
Circostanza che suggerisce una lettura alternativa della crisi italo-turca. Consolidata dalla relativa morigeratezza della reazione di Erdoğan, che in passato ha dato in escandescenze per molto meno. Così come dall’accenno di Draghi alla necessità di “cooperare con il dittatore”. L’attacco al Reis ha permesso al premier italiano di aumentare il consenso in patria e il suo profilo in Europa. Specularmente, Erdoğan ha potuto compattare il fronte interno, rimarcare l’importanza dell’impopolare spedizione tripolitana, mettere con le spalle al muro i suoi clienti libici. Pesare la sua influenza nella colonia africana. Operazione coronata da successo, come rivela la gita di classe compiuta in Anatolia dall’intero governo libico (accompagnato dal governatore della Banca centrale e dal capo di Stato maggiore delle Forze armate) all’indomani dell’attacco verbale di Draghi. Che ha offerto al Reis su un piatto d’argento l’ennesima occasione per esibire pubblicamente la crescente potenza della Turchia.
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