Liberalismo negativo. Il Novecento di Hayek, compreso da Leopardi
di Gazzetta Filosofica (Gabriele Zuppa)
Prima che Friedrich A. von Hayek e Milton Friedman – i due più influenti economisti neoliberali del secolo scorso – diventassero presenze abituali nell’ufficio della premier al numero 10 di Downing Street, Margaret Thatcher aveva già introdotto con un gesto teatrale la filosofia che avrebbe ispirato la Gran Bretagna e gli Stati Uniti (sotto la presidenza di Ronald Reagan) nel dare una “svolta” all’Occidente. Poco dopo aver assunto la guida dei conservatori, durante una riunione dell’ufficio ricerche del partito, frugò nella borsetta ed estrasse un volume che sbatté sul tavolo esclamando: «È in questo che crediamo!» Si trattava di La società libera (The Constitution of Liberty, 1960) di Hayek, l’opera filosofica principale del «maggiore pensatore liberale del Novecento» (Lorenzo Infantino, Prefazione a F.A. Von Hayek, La società libera, tr. it. Rubbettino, 2011).
Come altrove abbiamo cercato di delineare, la libertà consiste nella comprensione del vincolo (regola, norma, legge, ecc.) che ci consente di fare ciò che vogliamo; nella comprensione che c’è un divieto di fare qualcosa per qualcos’altro di meglio, in modo tale che, una volta acquisitane la comprensione, anche noi vorremo vincolarci – perché, appunto, il presunto limite si mostra come condizione, che non indebolisce, ma potenzia: ci limitiamo nel consumo di dolci perché al loro gusto preferiamo la salute; non prendiamo l’automobile perché alla sua comodità ci è più caro l’ambiente; deliberiamo per il lockdown per non diffondere il virus; ecc.
Ma la libertà consiste anche nel poter individuare un nuovo vincolo, quando l’acquisizione della comprensione e della spiegazione diventi problematica; e, conseguentemente, si trasformi in verifica della verità, del senso, della bontà del vincolo esistente e, quindi, eventualmente, nella condivisione di una nuova comprensione, di un nuovo vincolo.
Dunque, è contro la libertà non chi ponga regole e norme e leggi, ma chi non ne renda conto o non consenta che possano essere modificate. Perché, se il vincolo è compreso come possibilità di realizzazione, esso sarà voluto.
Ecco, perciò, cos’è il sentimento della libertà e la sua fonte: ci sentiamo liberi quando sentiamo di non agire contro la nostra volontà; quando, comprendendo il vincolo, lo vogliamo. Qualunque esso sia.
Questo discrimine non è chiaro al liberalismo che concepisce la libertà come la minor quantità possibile di vincoli. Secondo Hayek per non essere soggetti alla volontà altrui dovremmo obbedire alle leggi «intese come norme generali e astratte stabilite senza tener conto della loro applicazione a noi» (ivi, p. 281). Questo è il cuore della posizione hayekiana.
Questa «concezione della libertà», vergata da Hayek nella Bibbia della Thatcher, concepisce la legge, il diritto come «la regola che fissa la linea del confine individuale entro cui è data alla vita e all’attività di ciascun individuo una sfera libera e sicura», secondo le parole di Savigny che Hayek cita (ivi, p. 273).
Ma le regole generali l’individuo o se le dà da sé e allora è libero; o sono date da altri e allora non è più libero, bensì sottomesso alla volontà altrui. Quindi, secondo questo liberalismo, un individuo è tanto più libero quanto più si dà da se la legge, nel senso che non deve tener conto dei vincoli che gli provengono dagli altri. Per questo lo potremmo chiamare negativo: poiché la libertà consiste nel negare quanto più possibile la presenza di vincoli.
Così, quando Hayek ribadisce il «principio fondamentale» secondo cui «l’intervento coercitivo dell’autorità statale deve limitarsi a imporre il rispetto delle norme generali di condotta» (Hayek, Liberalismo, 1973, tr. it. Rubbettino, p. 41), non sa indicare la fonte della libertà, perché accetta in modo ingiustificato che dei vincoli siano imposti. La contraddizione emerge esplicitamente anche quando auspica «una legge capace di limitare la libertà di ciascuno, al fine di garantire la medesima libertà a tutti» (ivi, p. 42). Qui non è spiegata la ragione per la quale si dovrebbe garantire la medesima libertà a tutti, cioè perché dovremmo volere la libertà degli altri. Tanto meno se intendiamo la libertà come assenza di vincoli. Perché dovremmo volere vincolarci alla libertà altrui?
Poco oltre ribadisce che un atto coercitivo non è arbitrario solo se è determinato «da una norma universale necessaria a mantenere l’ordine globale» (p. 45). Perché dunque dovremmo volere una norma che mantenga l’ordine globale? Infatti, perché dovremmo volere l’ordine globale indicato dalla norma e non un altro? Si potrebbe pensare che il discrimine stia nell’universalità della norma, ma di essa non si rende mai conto e nella trattazione il termine si rivela superfluo. Sentiamolo per esteso (ivi, p. 46):
« La funzione delle norme di condotta non consiste quindi nell’organizzare gli sforzi individuali per il conseguimento di obiettivi specifici e concordati, ma nell’assicurare soltanto un ordine globale delle azioni, nel cui ambito ciascuno possa, nel perseguimento dei propri fini personali, trarre il maggior vantaggio dagli sforzi degli altri. »
Così messo il liberalismo non sa giustificarsi e manca di fondamento.
Hayek fa inoltre sorgere un’altra grave aporia quando distingue tra norme astratte generali e comandi specifici e particolari, che, si rileva, «appartengono alla stessa categoria logica» (La società aperta, p. 276): infatti «le leggi si trasformano in comando, a misura che il loro contenuto diventa più specifico» (ivi, p. 277). «La differenza di rilievo tra i due concetti», continua Hayek (p. 277),
« sta nel fatto che, quando ci portiamo dai comandi alle leggi, la fonte della decisione della particolare azione si sposta progressivamente da chi emette la disposizione a chi agisce. L’idealtipo del comando determina l’atto da compiere e non lascia al destinatario la possibilità di giovarsi della propria conoscenza o di seguire le proprie preferenze. L’atto compiuto secondo tale comando serve esclusivamente agli scopi di chi l’ha emesso. »
Qui si ribadisce che in un comando si esprimono comunque le preferenze di che lo emette, quindi anche quel comando a cui appartiene la legge. Il discrimine sta in questo: nel comando si servono solo gli scopi di chi lo ha emesso, mentre nella legge c’è spazio anche per seguire le proprie preferenze. La contrapposizione di questi elementi genera l’aporia: vediamola.
La contrapposizione è aporetica perché le leggi generali, come possono essere quelle di una Costituzione, non consistono in limitazioni generiche, sì che al di fuori del loro rispetto si possa fare dell’altro da esse.
La giustizia costituzionale è la giustizia che esprime ciò che è più generale e che, perciò, è implicato nei casi più particolari nei quali si declina. Ciò significa che nelle azioni, nelle decisioni della vita statale affermiamo sempre la giustizia costituzionale, realizzandola di volta in volta a seconda delle circostanze che si producono. Il problema nella vita quotidiana, di chi abbia accettato la Costituzione, è quello di come realizzare le sue norme al meglio.
La Costituzione contiene dunque ciò che vogliamo per la comunità: esplicita gli elementi senza dei quali la comunità si depotenzia. Ed esprime, sempre, beninteso, un ordine determinato di comunità.
Così, al contrario di quanto asserito da Hayek, le norme generali organizzano gli sforzi di ciascuno, e ciascuno è chiamato a concretizzare nello specifico dei casi quotidiani il contenuto di tale norme. Non delle sue preferenze irrelate: ma ciò che realizza al meglio le norme generali.
Se per esempio una norma afferma la parità di genere, contrariamente da quanto asserito da Hayek, si devono «organizzare gli sforzi individuali per il conseguimento di obiettivi specifici e concordati», segnatamente la equa presenza di uomini e donne nelle cariche pubbliche o la parità di salario a parità di mansione svolta.
Leggiamo ancora (Liberalismo, p. 43):
« La libertà rivendicata dal liberalismo esige perciò la rimozione di tutti gli ostacoli che intralcino gli sforzi individuali, ma non la fornitura di particolari beni da parte della comunità o dello Stato. »
Come abbiamo visto, però, se affermassimo la parità di genere nelle attività lavorative e se, ciononostante, delle donne venissero discriminate, la comunità dovrebbe allora intervenire, chiedendo conto di quel che sta succedendo, disciplinando più nello specifico quella norma, ecc.
Quindi, di nuovo, quest’altra enunciazione di Hayek del «principio fondamentale» del liberalismo non coglie nel segno (ivi, p. 41):
« il principio fondamentale per cui l’intervento dell’autorità statale deve limitarsi a imporre il rispetto delle norme generali di mera condotta priva il governo del potere di dirigere e controllare le attività economiche degli individui. »
Questo modo di concepire la libertà era stato reso coerente e portato lucidamente alle sue implicazioni di fondo da Leopardi un secolo e mezzo prima. Egli evidenzia come la libertà sia innanzitutto assenza di assoggettamento da parte di altri, ove si riesca a sottrarsi al tentativo di assoggettamento altrui e cercando di assoggettare quanto più possibile gli altri ai propri scopi, alla propria volontà. Così nella storia vediamo che:
« un popolo libero al di dentro era sempre tiranno al di fuori, se aveva forze per esserlo, e questa forza nasceva sovente dalla sua libertà. [888] »
Non solo, la libertà – realizzandosi necessariamente come sottrazione alla volontà altrui e, specularmente, come sottomissione alla propria volontà – si ripresenta anche all’interno di una medesima comunità con questa dinamica. Così infatti prosegue il passo appena citato, svelando la dinamica intrinseca agli accadimenti storici:
« Nel modo stesso che un principe, per esser egli indipendente e libero e non aver legami nè ostacoli alla sua volontà, non perciò lascia di tiranneggiare il suo popolo. Anzi quanto più è geloso della sua libertà, tanto più ne toglie a’ sudditi o a’ più deboli di lui. [888] »
Ciò vale per ogni fazione, per qualsiasi entità.
« Come appunto accade nei partiti, nelle congregazioni, negli ordini ec. massime quando sono nel primitivo [879] vigore, e conservano la prima loro forma. […] gl’individui che compongono quel tal corpo, fanno causa comune con lui, e considerando i suo vantaggi, gloria, progressi interessi ec. come propri: e quindi amandolo, amano se stessi, e lo favoriscono come se stessi. Che questo è in ultima analisi è l’unico principio dell’amor di corpo, di patria, di Religione, universale o dell’umanità, e di qualunque possibile amore in qualunque animale. »
E nella mirabile Storia del genere umano che apre le Operette morali, aveva indicato nell’individualismo il risultato inevitabile di questa dinamica:
« ciascheduno odierà tutti gli altri, amando solo, di tutto il suo genere, se medesimo. »
L’aporia che si produce nella distinzione posta tra leggi e comandi posta da Hayek si risolverebbe se il discrimine fosse compreso all’interno del modo in cui la conoscenza – anche dei propri fini – si genera. Ma Hayek, così come tutto il Novecento, non sono in grado di farlo, perché i fini sono concepiti come arbitraria e personale posizione di valori, contrapposti ai fatti, secondo le considerazioni di Max Weber nella sua celebra conferenza La scienza come professione (1919).
Ecco che, allora, quando il primo ministro inglese Margaret Thatcher asserì: «La società non esiste; esistono solo gli individui», ella non esprimeva una sua esclusiva idiosincrasia, ma esprimeva l’inconscio di un’epoca. Quell’epoca nella quale ancora viviamo.
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