da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Andrea Muratore ed Emanuel Pietrobon)
La “sfida francese” sta condizionando profondamente, da tempo, l’Italia e la sua azione in campo europeo ed internazionale. Il dualismo con Parigi è la storia di un’alleanza asimmetrica, di un rapporto in cui la potenza transalpina è al contempo amica e avversaria latente (o palese) del nostro sistema-Paese, tende ad ergersi in maniera esplicita per proiettare oltre le Alpi la sua influenza politica ed economica, mira a fare dell’Italia al tempo stesso un alleato ed un satellite. Troppo spesso l’italia, oggi come in passato, ha giocato con timore reverenziale e pavidità questa partita, che offre, però, la possibilità di costruire le basi di un triangolo portante dell’Europa che, assieme alla Germania, ne indirizzi geopolitica ed economia. Questo triangolo permetterebbe all’Italia di giocare da soggetto delle dinamiche continentali, anziché che da oggetto, e all’interno di un rapporto franco, e non subordinato, con la Francia, a patto, però, di smussare i numerosi fattori di contrapposizione con essa. Per comprendere i motivi conduttori dell’antica rivalità italo-francese, nonché per avere una panoramica estesa ed approfondita delle similitudini e delle differenze che accomunano e distinguono i cugini delle Alpi, abbiamo raggiunto lo scrittore, professore universitario ed economista Giuseppe Sacco.
Professor Sacco, l’Italia è presa dal continuo dualismo della “sfida francese”: cooperazione e competizione si confondono in un tutt’uno nella relazione tra noi e la Francia. Parigi sembra avere un’idea chiara di quel che vuole da Roma, che vede come un importante junior partner da attrarre a sé come satellite con cui controbilanciare Berlino, ma Roma sa cosa vuole da Parigi?
I problemi tra l’Italia e la Francia, come testimoniato dalle continue e numerosissime invasioni francesi della Penisola, sono molto antichi. Una storica aggressività di Parigi contro il nostro Paese è evidente e, in passato, non dissimile da quella di altre popolazioni europee, soprattutto germaniche. Ed è anche facile da spiegare: l’Italia non solo è stata per molti secoli il Paese più ricco del mondo, e quindi una preda allettante, ma anche un Paese che un esercito invasore poteva attraversare senza dover superare zone desertiche, dove sarebbe difficile trovare nutrimento. Più di recente, tuttavia, l’ostilità ha avuto motivazioni differenti e, se ci si pone in una prospettiva tipicamente francese, comprensibili. La Francia è, storicamente, un Paese molto particolare nel contesto europeo. È stata per molti secoli, sin dai suoi inizi, un pays de royauté, cioè, politicamente, un Regno; e questo significava una posizione di rottura nei secoli in cui era prevalente la concezione medioevale dell’Impero unico, comprendente tutto il corpus christianum. Anche come regime interno, la storia della Francia è quella di un lungo processo di omogeneizzazione culturale più o meno forzata dei vari gruppi etnico-linguistici presenti sul suo territorio e di centralizzazione politica, mentre la tradizione imperiale era vista come una tradizione di diversità e di libertà; intesa, ovviamente, come libertà locali, non come libertà personali.
Quindi la Francia dell’Ancien Régime è stata anch’essa un Paese rivoluzionario, molto prima della Rivoluzione francese?
I francesi hanno a lungo percepito se stessi come un popolo ideologicamente “diverso” e militarmente assediato. I Re francesi hanno così sviluppato una sindrome che ha raggiunto il suo punto massimo all’epoca di Carlo V, quando – in aggiunta al mai risolto conflitto con l’Inghilterra, che di fatto le ha impedito di trarre dal suo lunghissimo litorale ogni possibile beneficio marittimo, militare, commerciale o coloniale – il nemico germanico premeva da Est, i Paesi Bassi del Nord erano parte dell’Impero, e gli spagnoli, di cui Carlo V era re, stringevano la Francia sui Pirenei. E il fatto che il Gran Cancelliere di Carlo V, in pratica il Ministro degli Esteri, fosse un piemontese, Mercurino Gattinara, li inquietava non poco. L’idea della formazione di uno Stato nazionale unitario, al di là delle Alpi, molto più popoloso, molto più ricco e molto più sofisticato dei regni iberici, terrorizzava le classi dominanti transalpine. Questa sindrome non è mai morta; anzi, a guardar bene, è visibile persino oggi. Soprattutto, anche senza andare così indietro, limitandosi agli ultimi 150 anni, cioè dall’unificazione nazionale dell’Italia ad oggi, questa ossessione della politica estera francese viene resa evidente dal fatto che mai è stato perdonato a Napoleone III di essere entrato in guerra contro l’Austria insieme al Piemonte (anche se poi lo ha tradito immediatamente) con il disegno di creare una specie di Belgio padano, un buffer state, uno stato cuscinetto, e di avere così grossolanamente sbagliato la valutazione del sentimento nazionale italiano da finire per favorire quello che sarà il nostro Risorgimento nazionale. Ancora oggi, l’idea dell’Italia frammentata in più staterelli fa sognare i Francesi, basta vedere l’attenzione dedicata dalle scuole di scienze politiche ai vaneggiamenti separatisti della Lega della prima ora, e persino alle risibili ambizioni dell’attuale erede dei Borboni delle Due Sicilie di un possibile ritorno a Napoli, come sovrano. Non a caso, la televisione francese lo ha mostrato mentre rispondeva allo scetticismo di un intervistatore: “Cosa ci sarebbe di strano? Anche mio cugino è tornato sul trono di Spagna!”. Del resto, subito dopo la guerra, persino un grande statista come De Gaulle si fece attrarre dal sogno di prendersi una provincia italiana. Ma l’accoglienza che la popolazione della Valle d’Aosta riservò ad una sua visita, lo convinse rapidamente a lasciar perdere.
Gli interessi di Roma e Parigi nell’arena internazionale sono destinati a collidere o, in qualche modo, a coincidere anche solo parzialmente?
Gli obiettivi internazionali di Francia e Italia sono del tutto incomparabili. In comune hanno soltanto un fatto difficilmente discutibile: quello di essere entrambe, come tutta l’Europa, dominate in maniera soverchiante dalla Germania. L’asse franco-tedesco è poco più di una foglia di fico che dovrebbe nascondere all’opinione pubblica internazionale da un lato la debolezza di Parigi e dall’altro il ruolo imperiale di Berlino. A differenza dell’Italia, però, la Francia cerca di rivalersi come può dell’evidente asimmetria franco-tedesca. E cerca di farlo soprattutto fuori dall’Europa, mirando al recupero della parte africana del suo ex impero coloniale. Parigi presenta questo disegno restauratore, questa rinnovata tendenza imperialistica, sotto la fictio di voler ricreare un’area internazionale francofona. Ma in realtà, dietro a questo, si cela un disegno neocoloniale. E, per di più, facendo riferimento all’elemento linguistico, la Francia può anche sperare di impadronirsi, tra l’altro, dei territori che furono del Belgio, come il Congo, enorme e ricchissimo di risorse da mettere in valore. In Europa, le sue possibili ambizioni potrebbero rivolgersi principalmente alla parte meridionale dello stesso Belgio, la Vallonia, che verrebbe a formare tre nuovi dipartimenti. La Francia neo-imperiale, insomma, può trovare spazio soprattutto fuori dall’Europa: oltre che nei Paesi francofoni, puntando alle potenzialità dei fondali oceanici. E questa non è poca cosa: anzi, soprattutto a partire dagli anni ’70, man mano che le risorse terrestri diminuivano, i fondali oceanici hanno suscitato crescente interesse in quanto serbatoi di risorse sia energetiche che alimentari. Infatti, pur costretta dalle circostanze della Guerra Fredda a rinunciare alle proprie colonie in Indocina e Nord Africa, la Francia – a differenza dell’Inghilterra, altra grande potenza coloniale – ha mantenuto la sovranità su un gran numero di territori d’oltremare, in genere piccole e piccolissime isole, i cosiddetti “coriandoli dell’Impero”, sparpagliati e diffusi ai quattro angoli del pianeta. E questo l’ha enormemente favorita quando i fondali oceanici sono stati spartiti tra i Paesi rivieraschi, cosicché, con undici milioni di chilometri quadrati, la Zona Marittima Economica Esclusiva di Parigi è la seconda al mondo per dimensioni dopo quella di Washington. Per di più, dato che Washington non ha ratificato la convenzione di Montego Bay, che regola questa materia, Parigi finisce per essere il principale Paese marittimo all’interno degli organismi delle Nazioni Unite.
Quindi la Francia ha orizzonti assai più ampi di quelli europei, e molto diversi da quelli dell’Italia.
Assolutamente. L’Italia non ha, e non può avere, nessuna ambizione e possibilità di questa scala, né di questo tipo, e non può in alcun modo essere confrontata alla Francia. Questo, però, non significa che l’Italia non abbia interessi in conflitto con le ambizioni della Francia. Per esempio, l’Italia è stata duramente danneggiata dall’assassinio e del cambio di regime in Libia, voluti e organizzati dal presidente francese Nicolas Sarkozy. Gheddafi, infatti, aveva capito che con l’Italia si poteva andare d’accordo, anche perché, come dichiarò esplicitamente in un’intervista ad un quotidiano tedesco, “gli italiani sono l’unico popolo europeo che non ha nostalgia del colonialismo”. Non si sbagliava: per questo era diventato un grande sostenitore dell’amicizia tra i due Paesi. Ed è per questo che ha perso la vita. Per quel che riguarda i rapporti con la Francia, troppo spesso l’Italia, oggi come in passato (con la sola eccezione dell’anno in cui il nostro ambasciatore a Parigi fu Giuseppe Saragat, il futuro presidente della Repubblica) ha giocato con timore reverenziale e pavidità nei rapporti bilaterali. Basti pensare alla pluridecennale, ma anche recentissima, vicenda dei criminali e terroristi italiani ospitati in Francia, arrestati solo per dare un contentino all’opinione pubblica francese di estrema destra, che proprio nei giorni immediatamente precedenti aveva dato dei pericolosi segni di vita. Questi arresti sono stati presentati da qualche “esperto di geopoliica” da due soldi come una manovra per favorire una sorta di Patto a tre assieme all’Italia e alla Germania, di cui peraltro sembra difficile che si concretizzino veramente le condizioni.
Può spiegarci quali sono le principali differenze tra i due cugini delle Alpi?
Per semplificare, si tenga presente che quando uno parla della Francia sta parlando di uno Stato, mentre se parla dell’Italia sta parlando tutt’al più di una Società. Si tratta di due cose diverse: il primo è un concetto storico-giuridico, il secondo un concetto sociologico-culturale. E – come tutti sanno – la tradizione statale italiana è assai breve, mentre quella francese è lunghissima, di fatto la si può far risalire a circa mille anni or sono – forse persino di più, a seconda di come si legge la storia. Ma c’è di più. In Francia lo Stato condiziona fortemente la Società, mentre ciò non si può dire dell’Italia. In quanto Stato, la Francia pone grande attenzione alla tutela non sono degli interessi economici e politici della Società, ma anche alla preservazione della sua struttura sociale e dei suoi distintivi tratti culturali. Pensiamo soltanto alla questione linguistica: la Francia non solo difende come meglio può l’uso del Francese come lingua internazionale, ma si è data anche una struttura che controlla l’introduzione e l’impiego delle parole straniere nei propri vocabolari, così da limitare l’imbarbarimento del francese. Ad esempio, è noto che in Francia, formalmente, si dovrebbe dire ordinateur in luogo di computer e cadre anziché container. E la questione viene presa molto sul serio. Anzi, anni or sono, ai tempi dell’ascesa dell’inglese, ebbe grande successo un famoso libro che denunciava l’emergere del franglais, cioè del francese inquinato dagli anglicismi.
Lo Stato francese si occupa anche di queste cose?
La questione linguistica in Francia è legata in una certa misura al fenomeno dell’immigrazione. Non solo la Francia ha una quota di immigrati superiore a quella dell’Italia, ma soprattutto ospita nei quartieri periferici di Parigi e di tutte le altre città degli immigrati che provengono, in grande maggioranza, dai Paesi arabo-berberi dell’Africa settentrionale e occidentale, che parlano più o meno la stessa lingua e professano la stessa religione. In altri termini: hanno in comune le principali caratteristiche che hanno storicamente contraddistinto le Nazioni. In Italia, al contrario, l’immigrazione proviene da tutti i Paesi del mondo, anche da quelli anglosassoni, e la loro lingua franca è necessariamente l’italiano. E ciò rafforza la già straordinaria capacità di assimilazione della nostra società. È per questo motivo che il fatto di avere un organismo che decide quali parole utilizzare al posto di quelle importate da lingue straniere, a noi italiani un po’ fa ridere e un po’ ci allarma. Ci fa sospettare della natura profonda del regime politico della cugina latina. Perché una politica di questo tipo l’Italia l’ha avuta durante il fascismo. Il regime fece una vera e propria guerra contro le parole straniere, ad esempio abolendo goal, sostituito con rete, e trasformando football in calcio. Ancora maggior successo ebbe tramezzino, che ha completamente sostituito l’inglese sandwich, mentre dire garçonnière era abbastanza snob da riuscire a sconfiggere giovanottiera. E poi, nel caso italiano, la minaccia non viene dall’arabo, ma dalla moda di usare – il più delle volte a sproposito – quanti più anglicismi possibili: moda peraltro praticata specialmente da quelle persone che l’inglese non lo sanno. Pensiamo al verbi implementare, italianizzato dall’inglese to implement, che viene talora usato nel senso proprio di applicare, attuare, ma che molti – che non sanno l’inglese – usano spesso nel senso di aumentare, accrescere.
Nessuno sembra considerare come un problema l’anglicizzazione della lingua italiana.
Qualcuno sì. Non so se lo abbiate notato, ma è stato Mario Draghi – una persona per la quale l’inglese è stato quasi sempre una lingua di lavoro, oltre che di studio – la prima autorità italiana a schernire pubblicamente l’uso di “tutte queste parole inglesi”, persino da parte dei suoi speech writers. E perdonatemi se uso anch’io un anglicismo, ma l’equivalente italiano di speech writer, che immagino conosciate, è stato dichiarato “politicamente scorretto”. Draghi sembra convinto del fatto che anche la lingua italiana andrebbe difesa. E non avrebbe tutti i torti. Un po’ perché altrimenti, tra breve, non saremo più in grado di leggere Manzoni, ammesso che ne avessimo voglia. E un po’ perché altrimenti, ancora prima, finiremo per leggere anche noi dei manifesti di propaganda elettorale – magari dei Cinque Stelle – simili a quelli con cui un celebre Sindaco italoamericano di New York chiedeva il consenso dei suoi concittadini: “Fiorello La Guardia è il vostro sindaco. Sopportatelo!“. Si noti poi la differenza tra Italia e Francia nella denominazione dei ministeri dell’educazione: in Francia si chiama Ministero dell’Educazione Nazionale, in Italia, dopo la Seconda guerra mondiale, è stato chiamato Ministero della Pubblica Istruzione. È una differenza non priva di significato e che mi preme sottolineare, sebbene io, personalmente, preferisca la seconda formula, e non rinuncerei mai a quell’aggettivo – “pubblica” – che enfatizza la dimensione tanto universale quanto sociale dell’istruzione. Ed enfatizza, altresì, una visione dell’istruzione in antagonismo con quella privata, che, invece, negli ultimi anni si è diffusa nel nostro Paese, anche a livelli universitari, con risultati, spesso, culturalmente catastrofici. Questo è, insomma, un altro elemento che mostra come in Francia, a differenza dell’Italia, la scuola sia nazionale, se non addirittura nazionalista, e che debba riflettere la tendenza a formare la Nazione attraverso decisioni di natura statale. Può sembrare irrilevante, ma questo fatto mostra una forte discrasia tra Italia e Francia. Politiche come la promozione di certi aspetti identitari, in Francia sono considerate del tutto normali, e mostrano uno Stato che cerca ininterrottamente di forgiare la Nazione, la sua identità collettiva. E questo in Italia non c’è. Ogni tentativo di “fare gli Italiani” è ovviamente diventato pressoché impresentabile dopo l’orgia di retorica patriottarda con cui il fascismo ha trascinato l’Italia nella catastrofe del razzismo e della sconfitta.
Ma la Francia è un Paese illiberale?
No, questo no. Al contrario, quella francese è una società in cui si gode, e si è goduto, prima che ciò fosse possibile in qualsiasi altra società, di libertà personali e politiche, ed anche di libertà identitarie, che sono ancora oggi impensabili in molti Paesi. Specialmente le donne, ma non solo loro, hanno sempre goduto di diritti personali che in Italia stentavano ad essere riconosciuti. Voglio solo far notare come in Francia, la Nazione e la società accettino coraggiosamente le decisioni dello Stato in campi in cui noi non siamo disposti a rinunciare alla decisione individuale: basti pensare alla legge che proibisce l’ostentazione troppo marcata dei simboli religiosi. In Francia abbiamo uno Stato che, per certi aspetti, assume la guida della nazione e si fa carico di garantire la continuità dei suoi tratti principali. È in campo economico che la Francia potrebbe essere definita un Paese poco liberista. Se si guarda comparativamente all’”estroversione” di Italia e Francia, si vedrà subito una netta differenza. In primo luogo, si vedrà che l’Italia è un Paese che esporta proporzionalmente molto di più della cugina d’Oltralpe. Poi, si noterà che le esportazioni dell’Italia sono principalmente prodotti del settore privato, mentre le esportazioni provenienti dal settore pubblico sono molto ridotte. La Francia, invece, esporta soprattutto dei beni nella cui produzione è fortemente coinvolto il capitale pubblico – come, ad esempio, gli aerei Airbus e i Mirage. L’Italia esporta di meno in campo aeronautico, anche se esporta molti prodotti militari, come le mine, comunque appartenenti al settore privato. Parigi, poi, è molto presente sui mercati mondiali nel settore atomico. E, a questo proposito, è importante far notare come sia quasi impercettibile la differenza tra civile e militare nella ricerca francese in questo campo. La Francia ha 58 centrali atomiche sul proprio territorio, quasi una per ogni milione di abitanti, oltre a due altri grandi progetti, tra cui uno ambiziosissimo nel campo della fusione termonucleare controllata per la produzione di energia elettrica. La Francia vende prodotti e tecnologie in questo campo, così come fa anche la Russia. In Italia non esiste nulla di tutto questo: anzi, è totalmente impensabile. Anche perché l’opinione pubblica si pronunciò contro il nucleare con un referendum. Il commercio estero francese, soprattutto le esportazioni, è spesso finalizzato ad obiettivi politici e segue delle logiche politiche. In Italia questo non soltanto non c’è, ma non è neppure pensabile. Al capitalismo italiano, che, non a caso, Karl Max definì il “capitalismo straccione”, interessano solo gli “sghei” o i “diné”. Vero è che Italia e Francia, così come la Germania, sono uscite sconfitte dalla Seconda guerra mondiale, ma la Francia lo ha fatto con volontà di revanche, cioè di riconquistare il posto che occupava nel mondo prima del conflitto. Tanto è vero che in Italia la guerra è finita nel 1945, in Francia, invece, nel 1962, con l’indipendenza dell’Algeria. In breve, Italia e Francia si approcciano nello scenario internazionale in maniera radicalmente diversa: in Francia tutto è politica, e le questioni culturali nazionali non lo sono meno dei rapporti con l’estero, inclusa l’economia. In Italia la società interagisce direttamente con il resto del mondo, e lo Stato soffre ancora del fatto di essere stato creato tardivamente e in maniera incompleta e improvvisata.
La Francia è uno Stato organico, capace di proiezione e di azione strategica. L’Italia è poliarchica, divisa tra i suoi centri di potere e influenza, costellati di “partiti” legati a determinate nazioni straniere. Che peso ha il partito francese in Italia? Ed esiste un partito italiano in Francia?
Si può sicuramente affermare che c’è un partito francese in Italia, ma non si può dire che c’è un partito italiano in Francia: non esiste. Il partito francese in Italia è presente soprattutto nel mondo degli affari, pensiamo al caso Montezemolo. Già Enrico Letta, durante il “periodo di esilio”, quando dovette lasciare il posto a Renzi, andò in Francia a dirigere il settore relazioni internazionali della più importante scuola di scienze politiche francese. Fu un’invenzione della Francia; erano gelosi del fatto che il partito tedesco in Italia avesse ottenuto Mario Monti alla presidenza del consiglio dei ministri. Abbiamo anche una parte della televisione italiana in mano ai francesi. Quale Paese lascia la propria televisione ad uno straniero? Un Paese coloniale. È vero: oggi la presenza straniera in Francia sta aumentando, ma non quella italiana. Noi non abbiamo un partito in Francia. Il peso del partito francese in Italia è importante, ma inferiore a quello del partito tedesco. Il partito tedesco è riuscito ad avere un presidente del consiglio, Monti – che poi si sia rivelato incapace al ruolo è un altro discorso. I francesi non sono mai arrivati a tanto. Inoltre, i tedeschi comprano in Italia per chiudere, per eliminare la concorrenza, mentre i francesi hanno un altro atteggiamento.
Nel 1993 Paolo Savona, all’epoca ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato nel governo Ciampi, propose un’alleanza industriale preventiva tra i grandi gruppi industriali nazionali e le controparti d’Oltralpe per prevenire un eccessivo schiacciamento del capitalismo nazionale in caso di protagonismo francese. Secondo lei, la materializzazione della proposta di Savona avrebbe potuto riequilibrare un rapporto fattosi col tempo asimmetrico?
Ci avrebbero mangiati vivi. Assicurazioni Generali, di Venezia, da decenni è a partecipazione francese e il loro CEO è francese, Donnet. Oggi ci sono due banche italiane che hanno presidenti francesi, la Fiat con un presidente americano. Questo è pensabile solo in Italia. Sarebbe stato un rapporto completamente asimmetrico.
Quali lezioni potrebbe apprendere l’Italia dal modello capitalistico francese basato su protezionismo, tutela dei campioni nazionali e dirigismo?
In Francia si possono trovare ministri che sono ex capitani di impresa, e viceversa. C’è una circolarità dell’élite all’americana: si passa dalle cariche pubbliche a quelle private, e viceversa. In Italia questo non c’è, perché c’è una distinzione netta tra politica e business. Dubito che l’Italia possa imparare qualcosa, perché per poter applicare le politiche francesi dovrebbe diventare la Francia, essere uno stato anziché una società. Ci fu un periodo dove lo Stato italiano contava, il periodo delle grandi aziende statali, come l’Eni di Mattei, ma dalla liquidazione avvenuta dopo l’incontro del Britannia del 1992 – al quale partecipò lo stesso Draghi in qualità di funzionario – l’Italia non ha più gli strumenti per fare una politica industriale alla francese. Diciamo così: l’Italia è un Paese senza testa e non possiamo cambiare, perché superati certi limiti non si può più cambiare.
Secondo lei è possibile che Italia e Francia possano collaborare sulla base di un’agenda comune anti-austerità in Europa e, magari, raggiungere un equilibrio anche tra Africa e Mediterraneo? Vede possibilità di convergenza su fronti come Sahel, Mediterraneo orientale e Libia?
Quando Macron dice che la Nato è morta, la sua idea qual è? Trasformare la comunità europea in direzione di una politica di difesa che consenta alla Francia di fare guerre in Africa con il sangue e i soldi degli europei. E gli italiani che partecipano alle missioni nel Sahel, come in Mali e Niger, hanno la funzione di ascari. Per quanto riguarda l’Europa, il discorso di Draghi sul debito preannuncia una svolta, significa che è finita l’austerità, ma questo trascende Italia e Francia.
La linea cooperativa che il governo Draghi ha promosso tramite Giancarlo Giorgetti con ministri (Le Maire) e commissari (Breton) di Emmanuel Macron potrebbe spianare la strada all’Italia in direzione dell’ottenimento di un ruolo paritario nei progetti francesi di autonomia strategica europea?
Non credo, da quello che ho detto risulta chiaramente che non è possibile. Forse non saremmo neanche dei junior partner.
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