Democrazia senza consenso. Sulle ragioni della perdita del “demos”
di La Fionda (Salvatore Bianco)
Questo articolo prende le mosse idealmente da dove quello di Matteo Masi – dal titolo Green Pass: una questione di sovranità o di legittimità? – si è concluso. In particolare, si proverà ad abbozzare un seguito ovviamente provvisorio a quella considerazione intorno a cui ruota: «A mio parere (da statalista convinto) – argomenta l’autore – il problema non è se lo stato possa o meno implementare, tramite le propria sovranità, una misura che possa incidere sulle libertà individuali, se questa misura rientra nei dettami costituzionali e se è volta a tutelare l’interesse collettivo, ma, oltre alle questioni di merito, è importante capire se e quanto lo stato è legittimato a imporre certe misure e come la questione della legittimazione è strettamente legata alla fiducia che le persone, i cittadini, nutrono verso l’istituzione che impone tale misura».
La questione è posta sui giusti binari. Il punto infatti non è tanto se lo Stato sia giuridicamente legittimato o meno a introdurre delle misure che abbiano un riflesso sulle «libertà personali», se queste ovviamente si collocano nel solco della nostra Costituzione. Lo si può ovviamente fare, si è legittimati a farlo (persino arrivando all’obbligo vaccinale per legge), ma la questione centrale è comprendere se chi detiene il monopolio della decisione goda o meno del necessario consenso per farlo e soprattutto di che qualità sia questo consenso. Il riferimento esplicito è al green pass come scelta politica, fatta passare come misura sanitaria, senza un’adeguata discussione e magari dialettica politica dentro e fuori il Palazzo. Ed allora, il quesito a cui potremmo essere chiamati a rispondere da qui a qualche settimana, senza coinvolgimento preventivo alcuno, potrebbe essere quello intorno al possibile insuccesso del green pass in ordine al contenimento dei contagi e, Dio non voglia, degli stessi ricoveri ospedalieri.
Qui si avanza l’ipotesi, senza pretesa alcuna di possedere particolari poteri divinatori, che lo scenario più probabile sarà di addossare la colpa al capro espiatorio di turno. Non bisogna essere indovini per prevedere questo, dal momento che il meccanismo inceppato della democrazia in epoca neoliberista consente solo lo scarico di responsabilità in basso e poco altro. L’impotenza della politica, rispetto allo strapotere delle forze economiche, risulta evidente dall’assenza di iniziativa in tutti quegli ambiti che realmente farebbero la differenza, generando un surplus di fiducia e consenso tra i molti.
Come nella vana attesa di un Godot immaginario, pur se più volte evocati, non sono mai giunti a destinazione investimenti per quanto concerne i trasporti pubblici e la sanità pubblica, quest’ultima nei termini di un rilancio della medicina territoriale, dell’implementazione dei medici di base e soprattutto di posti ospedalieri e di terapia intensiva (circostanza quest’ultima che spiega in buona parte il “giallo” della Sicilia e quello imminente di Calabria e Sardegna, entrambe sotto i 200 posti). Cosi come per la scuola non si è fatto nulla o quasi per scongiurare l’ennesima riedizione, anche per quest’anno, delle “classi pollaio”, con un aumento delle aule e degli insegnanti solo sbandierato. I sondaggi dei principali istituti di ricerca (Demos, Euromedia, ecc.) certificherebbero viceversa queste richieste da parte dell’opinione pubblica, pur nella loro rozza binaria semplificazione.
Ma il «finanzcapitalismo» da tempo ha sciolto i suoi destini da quelli dalla democrazia e segue le sue traiettorie esasperate di valorizzazione illimitata del valore, lontane ormai anni luce da un’economia rispondente a bisogni concreti. Al massimo consente in epoca di Covid una campagna vaccinale mirata ai soli Paesi ricchi che hanno l’equivalente monetario per acquistarli, con tutta l’operazione ovviamente orchestrata dalle multinazionali del farmaco che gelosamente custodiscono i loro brevetti, senza se e senza ma. Alla povera democrazia posta in uno stato di minorità, obbligata a decidere evitando accuratamente la costruzione di un sano consenso e con una pletora di disoccupati e precari crescente, non le rimane che la carta dell’emergenza – che in pratica ha rimpiazzato la crisi, da rilanciare di continuo, con l’indubbio vantaggio di strozzare sul nascere ogni anelito di dialettica democratica. Sarà forse solo un caso, ma dal dibattito pubblico il tema della fuoriuscita concreta dall’emergenza, con il ripristino integrale di tutte le prerogative sancite dalla Costituzione, risulta accuratamente espunto, quando ne dovrebbe costituire l’ossessione.
La paura rappresenta l’unica risorsa a cui la politica può attingere in questa fase storica e mettere in circolo per indurre obbedienza, rigorosamente in una forma verticale; in luogo del consenso, che richiederebbe ben più sofisticati processi di riconoscimento orizzontali dal basso. Cosicché i termini della questione rischiano di slittare e addirittura rovesciarsi. Quello che si paventa nell’articolo di Masi come possibile esito, la mancanza di fiducia e consenso, diventa in realtà il modus operandi stesso della democrazia nel presente sotto il “tacco neoliberista”. Fra l’altro, il dibattito e la discussione, franca, promossa o subita, su di un argomento cosi pregnante, come quello delle scelte nell’interesse generale in risposta all’epidemia, ne rivelerebbe pericolosamente l’assunto.
Una democrazia, quella attuale, palesemente ammalata e in balia dei poteri economici dominanti, che è obbligata per riprodursi a riesumare il suo nocciolo più antico e oscuro, quello di una sovranità spesa per la salvezza della vita biologica senza ulteriori attributi e predicazioni, secondo quanto teorizzato dalla “biopolitica” ante litteram di hobbesiana memoria.
Fonte: https://www.lafionda.org/2021/09/03/democrazia-senza-consenso-sulle-ragioni-della-perdita-del-demos/
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