Sinistra e pandemia. L’offerta di salute
di Resistenze al Nanomondo (Salvator Cobo, Giugno 2021, editore delle Ediciones El Salmòn e della rivista Polìtica & Letras, www.edicioneselsalmon.com)
La sinistra occidentale, erede di una lunga tradizione di pensiero, lotta e rivolta, di opposizione allo stile di vita capitalista e di desiderio di un mondo diverso costruito su altri valori di autonomia, uguaglianza e libertà, negli ultimi decenni ha condotto successive rinunce etiche e politiche, imitando sempre più il progetto egemonico di una società articolata intorno alle sfere del consumo, della tecnologia e del divertimento.
Ora, con la pandemia del covid-19, stiamo assistendo al culmine di questo processo: una sinistra per lo più allineata con la narrativa dei governi, delle istituzioni globali come il FMI o l’OMS, delle corporazioni farmaceutiche e delle grandi entità mediatiche, una narrativa secondo la quale siamo sotto la minaccia di un virus letale da più di un anno, la cui eradicazione giustificherebbe stati di emergenza, confinamenti domestici, restrizioni alla mobilità e alla vita sociale, pubblica e politica, vaccinazioni di massa quasi obbligatorie, e altre misure sanitarie. Questa storia è lontana dalla verità, ma i tentativi di promuovere un dibattito critico sono stati accolti dalla censura, dal silenzio o dall’indifferenza della sinistra.
In questo articolo cercherò di evidenziare le ragioni di questa posizione.
A sinistra? La necessità di un nuovo vocabolario politico
L’emergere, anni fa, di partiti politici come Podemos in Spagna, o 5 Stelle in Italia, sembrava portare con sé la messa in discussione delle classiche etichette di destra e sinistra. Con l’occupazione delle piazze nel 15-M, la tendenza a trascendere (presumibilmente) questa distinzione era già stata notata, ma gli ideologi populisti da cui queste nuove formazioni traevano ispirazione confermavano la pretesa di voler costruire opposizioni spogliate di chiari referenti ideologici, opponendo in modo più vago quelli in basso, il popolo, contro quelli in alto, le élite, la casta, i governanti, le banche, ecc. “Noi siamo il 99%”, si è sentito in molte delle loro mobilitazioni.
Era un messaggio che permeava facilmente, soprattutto in due paesi dove la corruzione politico-affaristica, lungi dall’essere un evento isolato, permeava e strutturava le relazioni di potere nel loro insieme. Era anche una ventata di entusiasmo dopo i due decenni trascorsi dalla “fine della storia”, cioè dal crollo dell’Unione Sovietica e dei paesi satelliti, accompagnato da una marea ultraliberista che ha lasciato la sinistra in parte bloccata in coordinate politiche obsolete, e in parte rifugiata in un attivismo marginale (anche se non senza grande coraggio e dignità in molti casi).
La “nuova politica” ha impiegato poco tempo per essere consumata e integrata nella vecchia politica. Tuttavia, la necessità di trascendere gli assi sinistra-destra, di interrogarsi su quale sia il progetto politico della sinistra, è ancora vitale, soprattutto per comprendere la devozione delle formazioni progressiste alla doxa salubrista. Per farlo, ci serviremo delle riflessioni di un radicale americano scritte non meno di tre quarti di secolo fa.
Nel 1946, La radice è l’uomo fu pubblicato da Dwight Macdonald, un saggista ben noto per la sua sfaccettatura di critico culturale, ma non tanto come istigatore – sulla via di Albert Camus, Simone Weil, Nicola Chiaromonte o George Orwell – di un socialismo critico dei due grandi totalitarismi del XX secolo: quello dello Stato e quello dell’Industria. Nel primo capitolo, Macdonald ha spiegato perché era urgente cambiare il vocabolario politico, proponendo la distinzione tra progressisti e radicali.
Secondo Macdonald, i progressisti sarebbero coloro che vedono il dominio dell’uomo sulla natura come qualcosa di positivo, e che considerano che i problemi del mondo derivano dal fatto di non fare abbastanza uso della scienza e della tecnologia. I radicali, invece, vedrebbero sopravvalutata la capacità della scienza di guidare gli affari umani, preferendo enfatizzare l’aspetto etico della politica; penserebbero anche che il controllo dell’uomo sulla natura può essere negativo, e che la tecnologia dovrebbe essere adattata agli esseri umani, anche se questo significa un regresso tecnologico.
Macdonald esortava la sinistra a proporre, di fronte alla frenesia sviluppista del progetto modernizzatore del capitale, una sorta di principio di precauzione tecnologica: pesare sempre i pro e i contro di ogni innovazione, non considerando che ogni progresso tecnico o scientifico debba implicare di per sé un progresso per l’umanità.
Questo era un percorso che aveva altri precedenti, come si riflette nel lavoro di Bernard Charbonneau e Jacques Ellul, precursori dell’ecologia in Francia. Già negli anni ’30 e ’40, consideravano vitale che le decisioni “tecniche” e “scientifiche” non dipendessero solo dagli esperti. Dopo lo sgancio delle bombe atomiche sul Giappone, Charbonneau rifletté:
La bomba atomica solleva il problema del controllo umano della tecnologia. Che mi ascoltino coloro che confondono l’avventura della conoscenza con l’istinto meccanico. Non si tratta di sottomettere la conoscenza, ma di controllare le sue applicazioni pratiche. Nella misura in cui è un’avventura solitaria, la conoscenza è libera; ma nella misura in cui le sue applicazioni pratiche trasformano le condizioni di vita degli uomini, spetta a noi giudicare. Perché se tutti gli uomini non sono competenti a giudicare in questioni di fisica, tutti sono competenti a giudicare come la loro vita sarà sconvolta dalla fisica, e in questo caso non è solo l’interesse della scienza che deve essere preso in considerazione, ma tutti gli interessi umani1.
La mutazione antropologica
Questo avvertimento – di straordinaria importanza nell’attuale contesto di restrizioni in nome della “guerra contro il virus” – non ha trovato quasi nessuna accoglienza a sinistra. Al di là di alcuni intellettuali isolati, e di alcune correnti dell’ambientalismo più radicale, le organizzazioni di profilo socialista, comunista e anarchico stavano incorporando nel loro immaginario, come qualcosa di positivo per i loro rispettivi progetti emancipatori, praticamente la totalità del repertorio offerto dalla modernizzazione capitalista. Lo sviluppo delle infrastrutture, l’esodo rurale e l’industrializzazione dell’agricoltura, la motorizzazione delle città, il consumo e la televisione – e, più tardi, l’informatica – come orizzonte di svago: la sinistra stava assumendo e facendo proprio un rapporto del tutto nuovo dell’essere umano e della società rispetto alle sfere del lavoro, della cultura e dell’ambiente.
Uno dei primi ad essere consapevole di questo cambiamento, negli anni ’60 e ’70, fu Pier Paolo Pasolini. Per lo scrittore e cineasta italiano, eravamo di fronte a una mutazione antropologica: la modernizzazione capitalista si stava diffondendo e imponendo un’egemonia totalitaria su tutto il pianeta, un modo di essere e di stare al mondo che stava spazzando via tutta una pletora di culture particolari, con le loro lingue, le loro tradizioni, i loro modi di coltivare la terra. Per Pasolini questo era un genocidio, e la sinistra taceva e collaborava alla sua realizzazione.
Il “progresso” aveva un prezzo. Diversi, in effetti, ma per la sinistra rappresentava la progressiva perdita di autonomia di fronte al potere esorbitante conquistato dagli Stati e dall’industria: Delegando loro la soddisfazione dei bisogni primari, così come dei bisogni “creati” (per dirla con Günther Anders), affidandosi al sapere di scienziati, tecnici ed esperti, le comunità e gli individui sono stati privati non solo della possibilità di provvedere autonomamente ai loro beni essenziali, ma anche di avere – o persino di sognare – un progetto politico con la capacità di emanciparsi dalle strutture capitalistiche. La sinistra aveva ingoiato il rospo del progresso, incapace di riconoscere la natura nociva e oppressiva dello stato e dello sviluppo tecnologico-industriale.
L’offerta di salute
La gestione della pandemia di covid-19 ha messo in evidenza la collaborazione entusiasta della sinistra in tutto l’apparato di misure messe in atto dai governi. In nome della salute e facendo appello all’evidenza scientifica, dal febbraio 2020 soffriamo di un autoritarismo sanitario che ingigantisce sia il potere degli Stati che quello di certi settori del capitalismo, soprattutto in campo farmaceutico e digitale.
Armati di un’epidemiologia punitiva, i governi approfittano del panico della morte e della malattia per stabilire quella che Edward Snowden ha descritto un anno fa come “l’architettura dell’oppressione del futuro”: in nome della guerra contro il virus, si attua progressivamente un controllo bio-sanitario della popolazione e, come ha sottolineato l’attivista americano, la storia dimostra che le misure che le autorità pretendono di adottare “temporaneamente” finiscono poi per rimanere a tempo indeterminato.
Le corporazioni farmaceutiche, nel frattempo, aumentano il loro potere, la loro influenza e i loro profitti (di vaste dimensioni già prima del febbraio 2020) impostando il vaccino come l’unica condotta sicura per “porre fine al virus” e per recuperare certe libertà e benefici che credevamo naturali, compreso l’atto stesso di camminare all’aperto o vedere e abbracciare i propri cari. Ci sono già molti paesi dove, anche se non è “obbligatorio” essere vaccinati per legge, senza il vaccino, cose come attraversare i confini nazionali, entrare in certi stabilimenti commerciali o partecipare a eventi di massa diventano impossibili.
E nel campo delle tecnologie dell’informazione stiamo assistendo a come il capitalismo digitale sta acquisendo una presenza ancora più vasta e straordinaria: le società note come GAFAM si stanno sfregando le mani alla prospettiva di vedere certe tendenze già presenti nella società affermarsi ancora di più, sia per imperativo legale che attraverso la macina della propaganda: in entrambi i casi, l’autonomia del cittadino di decidere è annichilita, che assiste in una postura tra il collaborazionista e il passivo vedendo come si impone la digitalizzazione dell’educazione, delle comunicazioni, del tempo libero e anche dell’attivismo politico, che non vede né come una castrazione né come una contraddizione le assemblee o le riunioni tramite videochiamate da Zoom o altre piattaforme analoghe.
Siamo arrivati, come abbiamo detto all’inizio di questo testo, al momento in cui la grande maggioranza della sinistra culmina il processo di espropriazione dell’autonomia e dell’indipendenza del suo progetto politico, consegnandosi, come se fosse un’offerta e un sacrificio, a una dittatura sanitaria e digitale che cerca, più che mai, di eliminare ogni traccia di opposizione al suo progetto totalitario.
1 Somos revolucionarios a nuestro pesar. Textos pioneros de ecología política, Jacques Ellul y Bernard Charbonneau, Ed. El Salmón, 2020.
Fonte: https://www.resistenzealnanomondo.org/necrotecnologie/sinistra-e-pandemia-lofferta-di-salute/
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