LA LUNGA MARCIA DI TAIWAN VERSO IL DISTACCO DALLA CINA
di LIMES (Giorgio Cuscito)
Storia e geografia legano Taiwan (ufficialmente Repubblica di Cina) alla Repubblica Popolare Cinese (Rpc), ma Taipei farà di tutto per scongiurare ciò che Pechino giudica inevitabile: l’annessione di Formosa (antico nome dell’isola), pacifica o manu militari. Senza la quale il fu Impero del Centro non potrà completare il «risorgimento» della nazione cinese entro il 2049, anno del centenario della fondazione della Rpc. Per non subire passivamente le ambizioni di Pechino, il governo di Tsai Ing-wen cerca e trova il sostegno degli Stati Uniti, ora più che mai impegnati nel contenimento dell’assertività della Repubblica Popolare nell’Indo-Pacifico. Inoltre, Taipei si dedica allo sviluppo di un’identità esclusivamente taiwanese, il meno possibile connessa al passato condiviso con la Cina continentale. Ciò rende Taiwan nodo cruciale della competizione sino-statunitense.
Le priorità di lungo periodo di Taipei sono tre. Primo, impedire l’emersione di attori bramosi di destabilizzare Formosa e di spingerla ad accettare l’unificazione con la Cina continentale. Secondo, dotarsi di una capacità di deterrenza tale da non essere preda delle potenze regionali. In particolare della Repubblica Popolare e in seconda battuta del Giappone, un tempo colonizzatore di Taiwan e oggi suo conveniente partner in chiave anticinese. Terzo, assicurarsi il libero accesso alle rotte marittime commerciali che connettono Formosa al resto del mondo, inclusa la Cina. La quale resta malgrado tutto il primo socio commerciale taiwanese.
Allo stesso tempo, gli strateghi della Repubblica Popolare ritengono che dalla presa di Taiwan dipendano due traguardi specifici. Il primo consiste nel completo superamento del «secolo delle umiliazioni» incassate dalla Cina tra la prima guerra dell’oppio (1839-1842) e la fondazione della Repubblica Popolare nel 1949. Tra gli affronti da vendicare rientrano anche la perdita di Taiwan per mano del Giappone e poi la fuga sull’isola dei nazionalisti di Chiang Kai-shek. Fuga alla quale Mao Zedong e i suoi successori non seppero rimediare, a causa delle scarse capacità navali cinesi e dell’opposizione degli Stati Uniti. Il secondo obiettivo è strettamente marittimo.
Taiwan fungerebbe da scudo a protezione parziale della costa della Repubblica Popolare. Inoltre permetterebbe a Pechino il libero ingresso nell’Oceano Pacifico, che oggi avviene sotto la sorveglianza delle basi militari Usa in Corea del Sud, Giappone e Filippine. Nel lungo periodo, da questi obiettivi dipendono il grado di potenza della Cina e la credibilità di Pechino agli occhi della popolazione. Quindi la sovranità del Partito comunista e del suo leader Xi Jinping, il quale dovrebbe governare il paese anche dopo il Congresso nazionale del 2022. Solo la presa di Taiwan consentirebbe all’attuale presidente di superare Mao nel pantheon del partito e di scongiurare trappole da parte dei suoi rivali (annidati nello Stato profondo cinese) al termine della sua carriera politica.
Il governo taiwanese della presidente Tsai Ing-wen opta per la scelta più logica: stringere i rapporti politici e militari con gli Usa. Washington non intende lasciare che la Cina diventi una potenza marittima compiuta, capace di contenderle il primato talassocratico. Pertanto contribuisce alla trasformazione dell’isola in un «porcospino» dotato di un numero così elevato di aculei da scoraggiare un’invasione. Taipei aumenta il budget della Difesa, acquista armi statunitensi e prende perfino in considerazione di dotarsi di missili a lungo raggio in grado di colpire la Repubblica Popolare. Non perché sia convinta di poter vincere una guerra convenzionale nello Stretto di Formosa. Piuttosto ritiene che in questo modo imporrebbe al governo cinese costi umani e politici talmente elevati da costringerlo a rinunciare all’invasione.
Allo stesso tempo, Taipei cerca di imprimere nelle giovani generazioni il senso di appartenenza all’isola. Perciò sminuisce l’impatto storico della cultura cinese. Pone il dominio di Ming e Qing sul medesimo piano delle colonizzazioni subite da parte di Spagna, Olanda e Giappone tra il XVI e il XX secolo. In più sottolinea che la Repubblica Popolare non ha mai governato Taiwan. Soprattutto, Tsai non ha neanche mai riconosciuto ufficialmente il «consenso del 1992». Cioè il precario compromesso diplomatico con cui quasi vent’anni fa si asseriva l’esistenza di una «una sola Cina» (yige Zhongguo), senza specificare chi tra Pechino e Taipei ne fosse sovrana.
Taipei rinnega in maniera sempre più netta anche la figura di Chiang Kai-shek e il sistema autoritario che aveva imposto a Formosa. Allo stesso tempo esalta il retaggio aborigeno (sebbene difetti di un vero e proprio mito fondativo attorno cui raccogliere la collettività) e alimenta l’idea di una Taiwan globale, faro della democrazia nell’Indo-Pacifico antitetico alla Cina comunista. Perciò Tsai vuole che i taiwanesi conoscano talmente bene l’inglese da diventare una «nazione bilingue» entro il 2030. Nel frattempo, il Kuomintang (Kmt, oggi più filo-Pechino) non sembra intenzionato a ripensare il modo in cui intercettare il consenso domestico a seguito delle vittorie elettorali del Partito progressista democratico (Ppd) nel 2016 e nel 2020. Al punto che in uno scambio epistolare con Xi, il neoeletto leader del Kmt ha detto che cinesi e taiwanesi sono tutti «figli dell’imperatore giallo», cioè appartenenti allo stesso ceppo etnico. Quindi destinati all’unificazione.
L’opinione pubblica la pensa in maggioranza diversamente. Secondo un recente sondaggio della National Chengchi University, oltre il 63% degli abitanti si identifica come «taiwanese», il 31% si qualifica come «taiwanese-cinese», mentre solo il 3% si definisce esclusivamente «cinese» 1. La maggior parte della popolazione ritiene inoltre che si debba preservare lo status quo, con un sostanziale equilibrio tra quelli che si accontentano di tale condizione (27,5%), quelli secondo cui essa debba portare all’indipendenza (26%) e coloro che preferiscono rimandare ogni decisione al riguardo (28%). Solo il 6% considera necessario raggiungere subito l’indipendenza de iure. Una porzione ancora minore (1,5%) è favorevole all’unificazione il prima possibile. Segno che oggi la priorità dei taiwanesi è sopravvivere alle ambizioni della Repubblica Popolare e non innescarne lo sbarco anfibio.
L’importanza di essere Taiwan
Geograficamente Taiwan è crocevia tra Cina continentale, Giappone e Filippine. A occidente, l’isola omonima (conosciuta anche come Formosa) dista solo 143 chilometri dalla costa della Repubblica Popolare. A oriente, 108 chilometri la separano dalla nipponica Yonaguni. A sud, il Canale di Bashi (largo 156 chilometri) la divide dalle Filippine.
Ufficialmente Taipei governa oltre all’isola di Taiwan anche gli arcipelaghi Quemoy (Kinmen), Matzu, Pescadores (Penghu), a pochi chilometri dalla costa della Rpc. In più controlla le Lanyu sul versante orientale di Formosa, le Pratas a sud e ha costruito un avamposto artificiale sull’atollo Itu Aba nelle Spratly. Eppure in questo arcipelago e nelle Paracel la Repubblica Popolare resta prima tra i paesi rivieraschi per allestimento di strutture militari e civili.
L’isola di Taiwan conta due nuclei geopolitici. Entrambi sono affacciati sulla costa occidentale, che ospita la maggioranza dei 24 milioni di abitanti. Il primo polo è il bacino di Taipei, a nord. Qui si trovano l’omonima capitale (fulcro politico del paese) e le municipalità speciali di Taoyuan e Nuova Taipei, agglomerati tra cui scorre il fiume Tamsui. A sud-ovest di Taoyuan, Hsinchu ospita il quartier generale di Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc), azienda che rappresenta il 54% del mercato fondiario globale dei semiconduttori contenuti nei microchip. Il secondo nucleo geopolitico è la pianura di Chianan (o Chiayi-Tainan), situata a sud-ovest. È la culla degli indigeni taiwanesi, ma dalla dinastia Qing in poi è diventata meta privilegiata degli han dalla terraferma. Chianan comprende Kaohsiung, che ospita il porto più grande di Taiwan e l’Accademia militare della Repubblica di Cina, aperta nel 1924 dal Kuomintang. Originariamente si chiamava Accademia militare di Whampoa e aveva sede a Guangzhou. Durante il XX secolo, la struttura formò la maggior parte dei comandanti (appartenenti sia al Kuomintang sia al Partito comunista) che combatterono i conflitti in Cina. I nazionalisti la spostarono quando si ritirarono a Taiwan.
Taipei e Kaohsiung sono separate da alcuni rilievi, che si sviluppano longitudinalmente nella parte centro-orientale del territorio. Solo alcuni punti della costa occidentale si prestano all’approdo dell’Esercito popolare di liberazione (Epl). Per esempio, tra la capitale e Taichung a settentrione e tra Tainan e Kaohsiung nel meridione. Ragion per cui le basi militari taiwanesi si concentrano da questa parte di Formosa, ospitando il grosso dei 165 mila soldati (più 1,6 milioni in riserva) arruolati nelle Forze armate taiwanesi. La costa orientale di Formosa è invece più frastagliata e meno abbordabile in caso di sbarco da parte dell’Epl, il quale però si addestra per circondare tutta Taiwan e opporsi all’intervento navale e aereo di Usa e Giappone.
Taiwan è composta al 96,5% da abitanti di etnia han. I loro avi appartenevano a quattro sottogruppi: gli hoklo (o holo) originari del Fujian e gli hakka del Guangdong arrivati in epoca Ming e Qing; i cinesi della terraferma approdati dopo il 1945 e soprattutto quelli fuggiti al seguito di Chiang Kai-shek dopo la fondazione della Repubblica Popolare, nel 1949. Gli aborigeni austronesiani rappresentano solo il 2,5% della popolazione. Per Pechino invece i taiwanesi discendono dal popolo yue, originario del Sud della Cina. A ogni modo, nel corso dei secoli i matrimoni interetnici hanno ridotto la differenza tra i quattro gruppi e fatto sì che oggi il 70% della popolazione abbia nel proprio sangue qualcosa di aborigeno. L’83% dei taiwanesi parla mandarino, l’81% usa il dialetto hokkien (quello degli hoklo), il 7% l’hakka (utilizzato particolarmente nella contea di Hsinchu) e solo 1,4% comunica con le lingue indigene (molto diffuse nelle contee di Taitung e di Hualien) 2. La particolare composizione etnica dell’isola dipende dalla tormentata epopea taiwanese.
Da Formosa a Repubblica di Cina
Stando alla versione di Taipei, si sa poco della storia precedente l’approdo dei coloni europei dal XVI secolo in poi. L’isola era popolata da aborigeni malayo-polinesiani e le visite di marinai, pescatori e pirati cinesi erano sporadiche 3. Pechino invece sostiene che gli indigeni taiwanesi siano discendenti del popolo yue della Cina meridionale e che già nel periodo dei Tre regni (220-265) il sovrano Sun Quan avesse inviato sull’isola soldati e funzionari 4. Di certo vi è che nel 1544 i marinai portoghesi furono i primi europei a sbarcare a Taiwan e la chiamarono Llha formosa, cioè «Isola bella». Nel 1624, la Compagnia olandese delle Indie Orientali installò un avamposto nell’odierna Anping, nella parte sud-occidentale dell’isola. La sua presenza incentivò l’arrivo dei cinesi del Fujian, i quali iniziarono a lavorare nei campi di riso e canna da zucchero. Rapidamente il porto di Tayouan diventò un fondamentale punto di connessione con il resto del mondo. Nel 1626, gli spagnoli si insediarono al Nord, per poi essere estromessi dagli olandesi nel 1642. Alcuni storici ritengono che «Tayouan» fosse il nome con cui gli aborigeni indicavano gli stranieri. Altri ritengono si trattasse del nome della tribù che abitava quel territorio 5. Da questa parola origina probabilmente il nome «Taiwan», che significa letteralmente «Baia terrazzata». Considerato che l’isola non dispone di spiagge particolarmente ampie, la dicitura potrebbe essere un segno di quanto poco i cinesi conoscessero il posto.
Del resto in quel periodo Formosa non era in cima ai pensieri dell’Impero del Centro, concentrato sulla preservazione della stabilità interna e poco interessato a minacce e opportunità derivanti dall’esplorazione marittima. La dinastia Ming crollò nel 1644, sopraffatta da quella Qing, che riunificò il Nord della Cina. La conquista della parte meridionale dell’impero proseguì fino alla fine del regno dell’imperatore Shunzhi nel 1661. L’anno dopo il comandante Koxinga (Zheng Chenggong), fedele ai Ming, guidò un grande esercito da Xiamen e Quemoy verso Taiwan, sconfisse gli olandesi e prese il controllo dell’isola. Ciò attirò l’ira dei Qing, i quali per vent’anni prepararono la conquista di Formosa. L’imperatore Kangxi pose prima fine alle rivolte dei tre feudatari (1673-1681), che provenivano dallo Yunnan, dal Guangdong e dal Fujian. Nel frattempo, addestrava la sua armata allo sbarco e conduceva attività politiche, economiche e diplomatiche per isolare Formosa e convincere i suoi abitanti dell’inevitabilità della conquista. La combinazione di questi fattori consentì a Kangxi di riprendere Taiwan nel 1683 e di annetterla l’anno dopo come prefettura della provincia del Fujian. Quell’esperienza è restata impressa nella memoria degli strateghi cinesi al punto da essere analizzata nel 2020 dallo storico Deng Tao sulla rivista Xuexi Shibao, edita dalla Scuola centrale del Partito comunista. Il sottinteso di quel saggio è che anche oggi a Pechino non basta l’uso della forza per prendere Formosa 6.
Il trattato di Shimonoseki del 1895 pose fine alla prima guerra sino-giapponese e obbligò i Qing a cedere Taiwan, le Pescadores, la penisola del Liaodong e l’arcipelago Senkaku/Diaoyu al paese del Sol Levante. La vicenda accelerò la parabola discendente dell’impero (capitolerà nel 1911) e segnò profondamente la memoria collettiva cinese. Ancora oggi la Repubblica Popolare considera quelle invasioni come la prova di quanto sia importante dotarsi di una Marina all’avanguardia. Il Giappone impiegò un decennio per sedare le proteste di hakka e hoklo a Taiwan, per poi governarla alla maniera militare. Lo scopo era attingere alle risorse naturali taiwanesi, non instaurarvi un sistema democratico. L’isola divenne presto fonte di profitto e Tōkyōdecise di potenziare infrastrutture e industria locali. Al punto che segni dell’architettura giapponese sono rintracciabili nei suoi principali poli urbani. L’attuale palazzo del governo taiwanese a Taipei era la sede del potere coloniale nipponico. I giapponesi imposero la loro pedagogia nelle scuole per ridimensionare l’impatto della cultura cinese. Nel complesso, i taiwanesi non disdegnavano le loro condizioni di vita, ma agli inizi del XX secolo iniziarono a dibattere di identità taiwanese e d’indipendenza.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale e di quella sino-giapponese coinvolsero direttamente l’isola. I nipponici la impiegarono nel conflitto con gli Usa nel Pacifico e dallo Stretto di Luzon facevano rotta per le Filippine. Oltre 200 mila taiwanesi combatterono al servizio del paese del Sol Levante tra il 1937 e il 1945. Taipei attende ancore le scuse di Tōkyō per le duemila «donne di conforto» costrette a seguire i soldati giapponesi. Nel frattempo, sull’isola il programma di «nipponizzazione» fu potenziato. Questo implicava l’imposizione di nomi e abiti tipici del Giappone e la preservazione di santuari scintoisti nelle case.
La Cina, diventata Repubblica nel 1912, riprese il controllo di Taiwan nel 1945 e rivendicò la sovranità su tutti i territori un tempo dei Qing, che conferivano al paese la forma a «foglia di begonia». Essa comprendeva luoghi ormai sotto il dominio altrui, tra cui la Mongolia, una parte di territorio russo a nord del fiume Amur, il Tibet meridionale (conteso con l’India), una sezione del Myanmar e la parte occidentale delle montagne del Pamir oggi diviso tra Afghanistan e Tagikistan. Tuttavia il paese era dilaniato dalla guerra civile. I comunisti guidati da Mao costrinsero i nazionalisti di Chiang alla ritirata e nel 1949 fondarono la Repubblica Popolare. Quello stesso anno, sulle isole Quemoy i seguaci di Chiang respinsero l’offensiva comunista, rifugiandosi stabilmente a Taiwan. Da qui reclamarono la sovranità della Repubblica di Cina su tutta la «foglia di begonia», assurta a simbolo identitario.
A causa della scarsa capacità navale cinese, la Repubblica Popolare perse la prima opportunità di prendere Taiwan. La seconda occasione si presentò nel 1950, con lo scoppio della guerra tra la Corea del Nord e quella del Sud, rispettivamente appoggiate da Unione Sovietica e Stati Uniti. All’epoca i soldati cinesi nel Fujian si addestravano all’invasione dell’isola. Dopo che le truppe di P’yŏngyang superarono il 38° parallelo, gli Usa reagirono. Il contingente Onu a guida americana riuscì a ricacciare indietro i soldati nordcoreani e ad arrivare alla loro capitale. Nel frattempo, il presidente statunitense Harry S. Truman aveva inviato la Settima flotta nello Stretto di Formosa per impedire che Pechino approfittasse del conflitto in corso per sbarcare a Taiwan. A quel punto Mao decise di rimandare l’invasione sull’isola, ritenendo più importante impedire agli americani di giungere fino al confine sino-coreano. I soldati cinesi varcarono il fiume Yalu, costrinsero gli Usa alla ritirata e occuparono temporaneamente Seoul per poi essere respinti nuovamente a nord del 38° parallelo. La firma dell’armistizio tra le due Coree nel 1953 pose fine ai combattimenti. Pechino oggi celebra quell’intervento come la «guerra di resistenza all’aggressione americana», ma in realtà si tratta dell’ennesima volta in cui non riuscì a prendere Taiwan. Ancora oggi, per gli strateghi cinesi il controllo di Quemoy resta propedeutico a un eventuale sbarco anfibio a Formosa.
Il trattato di San Francisco del 1951 costrinse il Giappone a rinunciare a Taiwan e alle isole Penghu, senza stabilire però se queste dovessero essere controllate dalla Cina repubblicana o da quella socialista. Il Giappone le considerava parte delle Nansei, le quali finirono sotto il controllo Usa e furono riconsegnate a Tōkyōnel 1971. Tali eventi acuirono la disputa per le Diaoyu/Senkaku, oggi territorio giapponese rivendicato da Pechino e in maniera più sottile da Taipei.
I due conflitti avvenuti rispettivamente tra il 1954 e il 1958 (le cosiddette due crisi dello stretto) consentirono ai comunisti di togliere ai nazionalisti gli isolotti di Yijiangshan e Dachen, ma non di prendere Formosa. Per 36 anni, il Kuomintang dominò Taiwan in maniera autoritaria, tramite la legge marziale. La sua abolizione nel 1987 determinò un drastico cambiamento del sistema politico, di cui entrarono a far parte i partiti d’opposizione, incluso il Ppd. In quel periodo, Pechino riteneva di poter assorbire Taiwan pacificamente. Perciò sviluppò il modello di «un paese, due sistemi» e lo adottò a Hong Kong e Macao, restituite da Regno Unito e Portogallo rispettivamente nel 1997 e nel 1999. In quegli anni, il dibattito taiwanese si concentrò sul contrasto tra l’identità imperniata sulla cultura cinese e il processo di «indigenizzazione», il cui scopo era provare l’unicità di Taiwan.
L’adozione del principio di «una sola Cina» nel 1992 non concluse la disputa tra Pechino e Taipei ma segnò la fine delle ambizioni di quest’ultima sui territori della Repubblica Popolare. Tale cambiamento ebbe delle ripercussioni sulla cartografia taiwanese. All’epoca le mappe della Repubblica di Cina prevedevano un riquadro raffigurante i confini affermati da Pechino. I manuali di storia sottolineavano l’importanza degli han e della dinastia Qing nell’epopea taiwanese. Allo stesso tempo non trascuravano il contributo culturale degli indigeni e degli altri coloni.
I test missilistici cinesi condotti tra il 1995 e il 1996 (la terza crisi nello Stretto) alimentarono il senso di appartenenza dei taiwanesi all’isola. Di due vettori lanciati dalle Forze armate cinesi si persero le tracce. Pechino imputò la responsabilità agli Usa, che avrebbero danneggiato la comunicazione del sistema Gps installato su di essi. Più tardi quella «umiliazione» fungerà da leva motivazionale per il dispiegamento su scala globale di satelliti Beidou, interamente made in China 7.
Negli stessi anni, Taiwan trovò una preziosa nicchia nel settore tecnologico. Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc) si concentrò sulla lavorazione dei semiconduttori per conto di imprese straniere. Prese piede il cosiddetto modello fabless, in base a cui diversi colossi di settore si concentrarono sullo sviluppo del design dei circuiti integrati per poi usufruire delle fabbriche taiwanesi. In questo modo, Tsmc acquisì un ruolo determinante nella filiera tecnologica. Ruolo che preserva ancora oggi.
Nel 2000, Chen Shui-bian è diventato il primo capo del Ppd a essere eletto presidente. L’anno dopo il Kuomintang, ormai il partito taiwanese più favorevole al riavvicinamento a Pechino, ha perso per la prima volta la maggioranza dei voti, superato dal Ppd, che si concentrava sulla definizione dell’identità taiwanese. Ciononostante, la coalizione del Kmt dominava ancora in parlamento. Nel frattempo, gli scambi economici con la Repubblica Popolare crescevano in maniera esponenziale. Nel 2002, Taipei ha smesso di pubblicare la «mappa completa della Repubblica di Cina», che includeva i territori controllati fino al 1912, e ha diffuso quella sulla «regione di Taiwan», comprendente l’isola omologa, le Penghu, Kinmen, Matsu, Pratas e due atolli nelle Spratly. La «foglia di begonia» ha perso la sua iconicità a favore della forma di «patata dolce», associata a Formosa. Nei libri di storia la parola «Cina» ha sostituito il termine «il nostro paese», prima usato per indicare le rivendicazioni sulla terraferma. Il presidente Ma Ying-jeou, a capo del Kmt ed eletto nel 2008, era però accusato di voler rafforzare eccessivamente i rapporti con Pechino. Il vertice tra Ma e Xi nel 2015 a Singapore è stato il primo tra i leader dei due governi 66 anni dopo la guerra civile. Contestualmente Taipei ha avviato una revisione dei manuali scolastici al fine di ribadire la connessione con la terraferma. Le proteste di professori e studenti non sono bastate ad alterare tale processo.
Nel 2016, Taiwan ha subìto un’inversione di rotta con l’elezione di Tsai Ing-wen, la cui campagna elettorale poneva l’accento sul senso di appartenenza all’isola. Il Partito progressista democratico ha guadagnato per la prima volta la maggioranza assoluta nel parlamento. Entrata in carica, Tsai si è rifiutata di riconoscere il principio di «una sola Cina». Tra i suoi provvedimenti rientravano anche l’annullamento delle linee guida scolastiche approvate dal Kmt e una nuova revisione pedagogica. Non a caso i media di Pechino affermano che i manuali taiwanesi comprimono eccessivamente la storia cinese dalle origini fino alla dinastia Tang 8.
A quel punto si è registrata un’intensificazione delle misure per rendere Taiwan meno sinocentrica. Nel 2017 Taipei ha introdotto l’atto per lo sviluppo delle lingue indigene, per tutelare l’identità delle 16 tribù riconosciute ufficialmente a Taiwan. L’anno dopo il governo ha stabilito un piano affinché la popolazione diventi bilingue entro il 2030; cioè che parli correntemente non solo il mandarino ma anche l’inglese. Contestualmente la Repubblica Popolare ha intensificato le operazioni militari nello Stretto di Formosa. Il rinnovato timore locale verso Pechino e le ennesime proteste scoppiate a Hong Kong (ormai assorbita nei gangli della Repubblica Popolare) hanno alimentato il malumore a Taiwan verso la Repubblica Popolare e assicurato nuovamente a Tsai la vittoria nelle elezioni presidenziali del 2020. Ciò ha innescato altre iniziative per sminuire contemporaneamente nessi più o meno diretti con la Repubblica Popolare e con il regime del Kuomintang. Per esempio, la modifica della copertina dei passaporti. Qui la scritta «Republic of China» è stata rimpicciolita per non essere confusa con «People’s Republic of China», mentre Zhonghua minguo (Repubblica di Cina) e il nome «Taiwan»sono stati ingranditi. Successivamente è iniziato il dibattito sull’adozione di un nuovo emblema nazionale, poiché l’attuale origina da quello del Kuomintang. Ora Taipei prende in considerazione la rimozione della statua di Chiang Kai-shek dal centro della capitale. A conferma del tentativo del governo in carica di stabilire una nuova pedagogia.
Taiwan tenta di fuggire dal proprio passato per non essere preda delle ambizioni geopolitiche di Pechino. Tale proposito è agevolato dalla postura sempre più assertiva della Repubblica Popolare, la quale oggi invia periodicamente caccia e navi attorno a Formosa. Il quotidiano cinese Global Times sostiene provocatoriamente che in futuro l’Epl inizierà a sorvolare l’isola 9 per obbligare Taipei a una scelta: accettare il passaggio dei velivoli – e quindi implicitamente la sovranità di Pechino – oppure aprire il fuoco, giustificando così il contrattacco della Repubblica Popolare.
Posto che l’Epl non si è mai cimentato in uno sbarco anfibio (la più complessa delle operazioni militari) e che quasi certamente questo sarebbe ostacolato da Usa e Giappone, in caso di effettivo approdo a Formosa oggi Pechino dovrebbe fare i conti con l’opposizione degli abitanti e, nella peggiore delle ipotesi, con una guerra civile. Sempre che i taiwanesi siano realmente disposti a sacrificare le proprie vite per Taiwan. Se Pechino riuscisse a superare anche questo ostacolo, conseguirebbe un grande risultato strategico. Allo stesso tempo rischierebbe di accorpare un’altra regione instabile al pari di Tibet, Xinjiang e Hong Kong. Quindi avrebbe un’altra collettività da assimilare. Con la differenza che Pechino riprese il controllo dei primi due territori nella fase di transizione subito dopo la fondazione della Repubblica Popolare e che il Porto Profumato fu restituito pacificamente dal Regno Unito. Soprattutto, quei territori non hanno mai avuto la medesima rilevanza che Formosa ha nella competizione sino-statunitense. Infine, la conquista manu militari di Taiwan danneggerebbe seriamente il soft power della Repubblica Popolare, esponendo una delle più grandi lacune che segnano le ambizioni di potenza cinesi: la mancanza di una missione con cui legittimare il proprio ruolo nel mondo a prescindere dal suo enorme potenziale economico.
L’unico modo in cui la Repubblica Popolare potrebbe conseguire un effettivo successo sarebbe tramite l’unificazione basata sul consenso dei taiwanesi. Alla quale peraltro gli Usa farebbero fatica a opporsi. Tuttavia, ciò presupporrebbe un netto ripensamento della tattica di Pechino verso Taiwan. Magari con una cosmetica rinuncia all’unificazione e con la coltivazione di solide e silenziose quinte colonne sull’isola, per persuadere i taiwanesi a riabbracciare la Cina continentale. Considerato l’incremento delle manovre militari di Pechino nello Stretto di Formosa, oggi un simile scenario pare assai improbabile. Insomma, il complesso processo di formazione dell’identità taiwanese resta il principale ostacolo alla presa di Taiwan. E quindi al «risorgimento» della Repubblica Popolare.
Note:
1. «Taiwanese / Chinese Identity (1992/06-2021/06)», Election Study Center, National Chengchi University, 20/7/2021.
2. The 2010 Population and Housing Census, National Statistics, Republic of China (Taiwan).
3. Cfr. Sintesi della storia di Taiwan dalla pagina ufficiale del governo taiwanese, bit.ly/3uyCNJj
4. Cfr. «Basic facts about Taiwan», Ufficio per le questioni taiwanesi del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese, 28/7/2020, bit.ly/39XXKnv
5. Cfr. J. Manthorpe, Forbidden nation: A history of Taiwan, New York 2005, St. Martin’s Press Griffin.
6. Cfr. G. Cuscito, «I Qing insegnano: per la Cina non è tempo di invadere Taiwan», limesonline.com, 22/5/2020.
7. M. Chan, «Unforgettable humiliation’ led to development of GPS equivalent», South China Morning Post, 13/11/2009.
8. Fan Anqi, «Omission of Chinese history in Taiwan textbooks opposed in island», Global Times, 9/9/2020.
9. «Wojun zhanji zhongjiu yao feiyue tai dao. Taijun kaihuo yiweizhe huimie» («I nostri caccia alla fine voleranno sopra Taiwan. Se Taiwan aprisse il fuoco significherebbe la distruzione dell’isola»), Huanqiu Shibao, 13/9/2021.
FONTE: https://www.limesonline.com/cartaceo/la-lunga-marcia-di-taiwan-verso-il-distacco-dalla-cina
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