Pubblicato su Avvenire, con Simone Borra e Annalisa Castelli, il 18/01/2022
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Nel dibattito sull’opportunità di prolungare la chiusura delle scuole, con il ritorno alla didattica a distanza (DAD) cresce il partito di chi si schiera contro – in nome della preoccupazione per il calo dell’apprendimento e la perdita di socialità degli alunni – anche sostenuto da quegli scienziati che vedono alternative più efficaci ai lock-down, soprattutto a causa della crescita della variante Omicron, apparentemente meno aggressiva seppure maggiormente contagiosa.
E’ tuttavia clamoroso vedere come questa campagna di mobilitazione per i più giovani non venga estesa alla popolazione studentesca universitaria, lasciata invece in un limbo di indifferenza, avvelenata da una disponibilità indiscriminata della didattica online che porta una quota sempre maggiore dei nostri giovani ad assistere passivamente alle lezioni davanti ad uno schermo.
Se da un lato questa diversa prospettiva tra scuola ed università può essere giustificata sulla base dei problemi, anche logistici, che tanti genitori con figli alle scuole del 1° e 2° ciclo di istruzione incontrano a causa della DAD, è necessario evidenziare anche altre spiegazioni per questo divario di attenzione, che sono parte del problema. Sono infatti molti in Italia a pensare ancora all’università come ad un esamificio, in cui i ragazzi debbano semplicemente studiare sui libri di testo senza frequentare in aula e non, come avviene nella stragrande maggioranza degli altri paesi, come ad un’esperienza di vita in comune, socializzante ed arricchente, che in quanto tale schiude efficacemente le porte verso il complesso mondo del lavoro per il tramite di una crescita umana di pari rilevanza di quella professionale.
Non manca evidenza di come l’apprendimento online vada a nocumento della performance dei nostri giovani maggiorenni, specie dei più deboli o meno performanti. Si pensi, ad esempio, che la percentuale di maturandi italiani (molti di loro futuri “clienti” delle università), che non raggiunge un livello di sufficienza nelle prove INVALSI di matematica è passato dal 41,8% al 51%. Se si guarda poi al Sud, si passa nel 2020/21 al 60,9% in italiano e al 70,1% in matematica.
Ma il successo formativo nel percorso universitario non ha solo a che vedere con l’esito in termini di voto; ha a che fare anche, e forse soprattutto, con la capacità dei ragazzi di conseguire la laurea e conseguirla nei termini previsti, anziché abbandonare gli studi o restare per anni fuori corso, in una sorta di dannoso parcheggio sociale che è ormai caratteristica endemica dell’Italia, penultima in Europa per percentuale di laureati tra i 25-34 anni (28,9%) e prima per percentuale dei c.d. non occupati giovani, i NEET (23,3%). Ha a che fare, il successo del percorso universitario, con la necessità di imparare a lavorare in squadra, a dibattere con i propri compagni, a gestire la complessità nelle relazioni. In un sistema in cui si evidenzia la necessità di garantire un’istruzione universitaria maggiormente ancorata alla realtà lavorativa, capace di trasmettere le diverse dimensioni interdisciplinari del sapere, amplificando quelle “pratiche” richieste dal mondo del lavoro (tutte caratteristiche, che possono far sì che l’esperienza universitaria sia proficua ed appagante, intrinsecamente legate alla capacità di frequentare in presenza), i giovani universitari si trovano oggi invece, nella sostanza, ad essere abbandonati.
E’ un dibattito proibito quello che pretende di avere risposte dai nostri governanti su cosa fare dell’università in tempi di Covid? Parrebbe di sì. Eppure l’aspetto singolare di tutto ciò è che la normativa parla chiaro nel lasciare ai singoli atenei una certa libertà di azione.
Dal sito del MUR si apprende che al 7 gennaio 2022 rimane valida la disposizione del decreto legge del 6 agosto 2021 in base alla quale “le attività didattiche e curriculari delle università sono svolte prioritariamente in presenza”, garantendo l’utilizzo dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie, il mantenimento della distanza di sicurezza interpersonale e tutte le norme di salute pubblica ormai necessarie in ogni situazione di aggregazione tra persone. I responsabili dei servizi educativi universitari sono tenuti a verificare il rispetto delle prescrizioni di cui sopra a campione, con modalità individuate dalle università.
Appare dunque evidente come la normativa attuale non impedisca alle università di tenere l’attività didattica prioritariamente in presenza, come Draghi ha chiesto che avvenga per la scuola, monitorando attentamente il rispetto delle norme di salute pubblica e limitando la frequenza online esclusivamente ai soggetti positivi al COVID, in quarantena, fragili o bloccati all’estero per ragioni oggettive.
Eppure questo, nella maggior parte degli atenei italiani, non sta avvenendo. In assenza di risorse dedicate non solo a fornire quell’assistenza psicologica di cui si sente un assoluto bisogno, ma anche a poter effettuare i controlli su chi abbia diritto alla frequenza online, questa viene di fatto estesa a tutti, con effetti devastanti sulla formazione dei giovani maggiorenni, forse peggiore di quella dei giovanissimi che almeno ora a scuola possono andare.
Silenziosamente i nostri giovani scivolano dai banchi delle aule degli Atenei deserti alle stanze spesso rumorose delle loro case, senza più uscirne, intrappolati in un futuro che pare loro sempre più grigio e freddo come sono il cielo e questo tempo d’inverno, il loro inverno della gioventù. Rimanere indifferenti a questi problemi è un atto di volontario disinvestimento nel capitale più prezioso, il capitale umano.
Sculture: Skinny Tribe, di Angela Maria Piga
Rendi i giovani stupidi e li governi meglio.