Cosa guadagnano gli Usa dalla guerra (e cosa perde l’Europa)
di ARIANNA EDITRICE (Giacomo Gabellini)
Fonte: DiariodelWeb
Le posizioni oltranziste del fronte Nato, contrarie a qualsiasi forma di trattativa con l’invasore russo, hanno cambiato il volto della guerra nel corso dei mesi. L’hanno resa più sanguinosa per gli ucraini, inducendo la Russia ad aumentare l’intensità e la violenza dei propri attacchi. Ma l’hanno resa anche economicamente più dispendiosa per noi europei, che ne stiamo pagando il prezzo industriale e sociale, mentre gli alleati statunitensi paiono lucrarci grandemente. Eppure anche Washington ha scommesso una posta così alta sulla roulette del conflitto che, in caso di sconfitta, rischia di perdere addirittura il suo predominio geopolitico, militare e finanziario sul mondo. Al DiariodelWeb.it l’analisi dello scrittore e ricercatore indipendente Giacomo Gabellini.
Giacomo Gabellini, al di là della propaganda, qual è stato il reale andamento del primo anno di guerra in Ucraina?
Penso che in Europa si sottovaluti la situazione, o quantomeno manchino gli strumenti interpretativi per capire cosa c’è in ballo.
E cosa c’è in ballo?
L’obiettivo originario della Russia, quando ha avviato la cosiddetta operazione militare speciale, era quello di condurre una specie di trattativa armata. Cioè richiamare l’attenzione degli interlocutori occidentali sulle sue richieste, presentate mesi prima, in merito alla costruzione di un’architettura di difesa euro-atlantica che garantisse la tutela dei loro interessi di sicurezza.
Cosa glielo fa pensare?
Le modalità stesse con cui è stata condotta inizialmente l’operazione, con un corpo d’invasione era molto ridotto. I manuali teorizzano che l’aggressore debba avere un rapporto di forze di tre volte superiore rispetto a chi si difende: in questo caso era esattamente l’opposto. Segno della disponibilità russa ad affiancare alle operazioni militari anche il canale diplomatico. E nei primi mesi questo modus operandi sembrò dare dei risultati.
Quali?
I primi colloqui bilaterali, con delle aperture da parte di Zelensky e dei suoi collaboratori alla possibilità di un accordo. Senonché, tra fine marzo e inizio aprile 2022, la colonna corazzata di mezzi russi che sembrava dirigersi verso Kiev, un po’ alla volta si ritirò. Non in seguito a una sconfitta, ma per una manovra diversiva. Che però fu artatamente sfruttata dagli Usa e dalla Gran Bretagna per indicare la debolezza militare russa.
Un grave errore.
Si pensò che ci fosse la possibilità di infliggere a Mosca una sconfitta strategica. Che magari avrebbe potuto portare al rovesciamento di Putin o, perché no, addirittura alla balcanizzazione della Federazione russa, obiettivo che le potenze anglosassoni perseguono da sempre. Quindi si è assistito a un diluvio di armi, finanziamenti e forniture d’intelligence all’Ucraina, che le hanno permesso di reggere l’urto.
E hanno costretto anche la Russia a modificare, in corso d’opera, il suo modo di combattere.
Ha iniziato a bersagliare sistematicamente le infrastrutture a doppio uso, cioè utilizzabili sia a fini militari che civili: centrali energetiche, sotto-stazioni, ferrovie, strade, linee di trasporto… con grandi disagi per la popolazione. Ha intensificato gli scontri e a un uso forsennato dell’artiglieria, come arma principale. Si parla di 40-50 mila colpi al giorno, in pratica battaglie da seconda guerra mondiale. E persino le colossali forniture inviate dalle potenze occidentali si sono rivelate insufficienti a compensare il divario tra Ucraina e Russia.
Ma Mosca ha cambiato anche il suo target?
Per un po’ ha proseguito la trattativa armata. Dopo i referendum a Lugansk e Donetsk, ha riconosciuto anche l’indipendenza di Zaporizhzhia e Kherson. Ha alzato ulteriormente l’asticella delle richieste: non rinuncerà in ogni caso alle regioni che ha formalmente inglobato. Ma, anche di fronte a questa escalation, il fronte euro-atlantico non ha dato disponibilità a intavolare una trattativa seria. E quindi, a un certo punto, Putin ha dato mandato ai suoi generali di condurre lo sforzo bellico fino a che fosse necessario, cioè fino al conseguimento degli obiettivi.
Quali?
La demilitarizzazione dell’Ucraina, che comporta brutalmente l’eliminazione di tutti gli arruolabili. Stiamo arrivando a questo risultato. Il conflitto ha assunto le caratteristiche di una guerra lenta, di logoramento. E più si protrae, più il numero delle vittime sale. Fonti neutrali, come il Mossad, hanno stimato mesi fa a un giornale turco che gli ucraini avevano già perso 150 mila uomini, a fronte di 20 mila caduti russi. A spuntarla è chi ha più resistenza, più disponibilità di risorse a cui attingere.
Ma i Paesi occidentali fin quando possono permettersi di rimanere coinvolti in questa guerra di logoramento, pagando anche loro un cospicuo prezzo in termini economici e sociali?
Gli Stati Uniti sono molto distanti, quindi anche molto più sicuri. Per noi europei il pericolo è alle porte di casa. Inoltre, per gli Usa la Russia non è mai stato un partner commerciale di rilievo, mentre per l’Europa la guerra ha distrutto legami strutturati. L’afflusso di energia e materie prime da Mosca era la stampella su cui la nostra industria, in particolare quella tedesca, basava la propria potenza mercantile. Le fonti alternative che siamo stati costretti a ricercare hanno prezzi di gran lunga superiori.
Quali sono queste fonti?
Il Qatar e soprattutto gli Stati Uniti. Con il loro gas naturale liquefatto estratto tramite il fracking, tecnica spaventosamente inquinante. Ma, a quanto pare, i discorsi ecologisti in questo caso non contano più.
Gli Usa si sono quindi sostituiti alla Russia come principale fornitore di energia, pur a costi molto più alti.
E non basta. In questo clima di perdita di competitività dell’industria europea si è innestata l’iniziativa statunitense dell’Inflation Reduction Act: una legge, approvata lo scorso agosto, che prevede l’erogazione di sussidi pubblici alle aziende straniere disposte a rilocalizzare alcune produzioni sul territorio Usa. E i risultati si sono visti. Volkswagen, Bmw, Mercedes, Basf, Bayer hanno annullato progetti di potenziamento delle loro strutture nel vecchio continente per pianificare la costruzione di nuovi impianti al di là dell’Atlantico.
Ci vogliono fregare anche l’industria, in altre parole.
Gli Stati Uniti stanno sfruttando le dinamiche innescate dalla guerra per la propria reindustrializzazione, a spese della nostra deindustrializzazione. Già che ci sono, colgono l’occasione per aumentare anche il proprio export di armi, visto che tutti i parlamenti europei hanno votato l’aumento delle spese militari. E infine c’è pure un altro elemento interessante.
Ce lo dica.
Con lo scoppio della guerra si è assistito a una fuga di capitali dall’Europa agli Stati Uniti. Così imponente che Washington, in sei mesi, ha ridotto il suo passivo di circa duemila miliardi di dollari.
Capitali, armi, stabilimenti ed energia: la guerra è un bell’affare per gli Stati Uniti. Molto meno per l’Europa.
La capacità che avremo di sostenere il costo di questa guerra mi sembra molto ridotta. E sarà sempre più ridotta alla luce di queste dinamiche. Per noi questo conflitto è un’operazione perdente su tutta la linea.
Eppure anche dagli Usa cominciano a levarsi voci contrarie al conflitto. Ad esempio quella di Trump.
E non solo lui: anche nel Pentagono si annidano fronde molto ostili a questa deriva bellicosa. Per due ragioni fondamentali. Primo, perché anche se riuscissero a capovolgere le sorti del conflitto a favore dell’Ucraina, e secondo me non ci riusciranno, l’effetto sarebbe quello di spingere la Russia con le spalle al muro. Mentre sta combattendo una guerra che percepisce come esistenziale per il futuro del proprio Paese, cioè che non può perdere. Dunque, di fronte alla prospettiva di una sconfitta, non esiterà a ricorrere a tutte le sue risorse, che comprendono anche le armi nucleari.
Uno scenario da brividi.
I politici forse non se ne rendono conto, ma i militari sì. Da qui deriva la contrarietà di buona parte del Pentagono. Lo stesso capo di Stato maggiore Milley ha affermato più di una volta che questa guerra si deve concludere con una trattativa.
E la seconda ragione?
Lo schieramento occidentale si è giocato tutto sulla vittoria dell’Ucraina. Se dovesse spuntarla la Russia, che cosa ne sarebbe della Nato e della sua credibilità? Per un verso questo comporterebbe l’allentamento, forse decisivo, dei legami all’interno dell’alleanza atlantica. Per l’altro eroderebbe il predominio statunitense sul sistema finanziario mondiale.
Questo sta già accadendo.
Paesi come l’India non solo non hanno aderito alle sanzioni, ma si sono trasformati nei principali acquirenti di petrolio russo, che utilizzano per sé e rivendono in giro per il mondo, costituendosi in circuiti economici alternativi a quello Usa.
Per non parlare della de-dollarizzazione negli Emirati Arabi.
Esattamente. Oltretutto, la confisca delle riserve monetarie della Russia presso le istituzioni occidentali è un provvedimento sanzionatorio mai preso in passato, nemmeno contro la Germania di Hitler. E il congelamento dei beni di singoli cittadini russi, associati in maniera arbitraria al Cremlino, ha avuto un effetto controproducente terribile per gli stessi occidentali.
Cioè?
Ha reso manifesto agli occhi di tutti gli altri Paesi del mondo che, se avessero assunto posizioni contrarie agli interessi statunitensi, le loro riserve sarebbero state confiscate con un clic. E gli arabi, i cinesi, gli africani hanno cominciato a guardarsi attorno e a cercare altre soluzioni. Secondo me anche le difficoltà delle banche svizzere è significativa.
Sotto che profilo?
La Svizzera ha rinunciato alla sua storica neutralità per aderire alla campagna sanzionatoria nei confronti della Russia. E questo ha comportato il ritiro massiccio dei conti dei ricchi di tutto il mondo. Forse non è un caso se oggi il Credit Suisse si ritrova in questa situazione…
Insomma, si assiste a un indebolimento generale del fronte euro-atlantico.
E a un’ascesa complementare dell’Asia e dei Paesi che hanno rifiutato di aderire alle sanzioni contro la Russia. Anche in questo caso, credo che noi europei siamo i primi perdenti.
a cura di Fabrizio Corgnati
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