L’ILVA e lo smantellamento della siderurgia italiana
di FEDERICO DEZZANI
Tra i molteplici effetti della crisi russo-ucraina e del collasso degli scambi russi-europei, c’è la crescente penuria di acciaio che, sommata al rincaro e/o alla carenza di altri prodotti dell’industria di base, causerà a breve pesantissime ricadute sull’economia. Data l’importanza dell’acciaio nell’industria civile e militare, è giusto analizzare il sistematico sabotaggio della siderurgia italiana condotto negli ultimi 30 anni, con un particolare accanimento contro l’ILVA, l’unico grande impianto a ciclo integrato rimasto in Italia.
Massimo d’impotenza, minimo d’autarchia
La storia dell’industrializzazione dell’Italia è indissolubilmente legata al problema dell’acciaio ed alla cronica carenza di materie prime (minerali e carbone) che affligge l’Italia, a differenza delle altre potenze europee che disponevano (e dispongono) di ricchi giacimenti. Sin dal primo dopoguerra, questa penuria di materie prime indusse l’Italia a concentrarsi sulla produzione dei rottami ferrosi, servendosi di forni elettrici. Il rottame è un’ottima materia prima per la produzione di acciaio, ma ha un grande inconveniente: chi concentra la propria siderurgia sulla lavorazione dei rottami, rimane sempre in balia dei Paesi industrializzati che, da un momento all’altro (ed è proprio il caso del marzo 2022!), possono decidere di porre limiti alla sua esportazione, preferendo tenerlo in casa per scopi civili e militari.
Nel corso degli anni ‘30, il regime fascista, in un clima internazionale protezionista e tendente velocemente verso l’autarchia, affrontò di petto il problema siderurgico attraverso l’IRI che, a sua volta, controllava la FINSIDER, costituita nel 1937 e diretta da Oscar Siniglia. La FINSIDER decise di riequilibrare velocemente la produzione siderurgica nazionale: dai forni elettrici, che lavoravano rottame importato dall’estero per il 50%, si doveva passare in prospettiva ad una produzione a ciclo integrale, partendo cioè dai minerali e dal carbone, estratti in Italia o provenienti dal bacino mediterraneo. Sull’isola d’Elba (Toscana) ed a Cornigliano (Liguria) venivano costruiti così i primi due grandi impianti a ciclo integrale, l’ILVA e la SIAC, che nel dopoguerra sarebbero stati integrati dai due altri impianti costruiti ex-novo: Bagnoli (Campania), ultimato nel 1942, e Taranto (Puglia), inaugurato nel 1961. Lo stabilimento ILVA di Taranto, sulla carta la più grande acciaieria d’Europa, è l’ultimo impianto a ciclo integrale esistente in Italia, l’unico cioè in grado di produrre acciaio senza rottami e senza energia elettrica (merci sempre più rare e preziose), partendo dai minerali e dal coke.
L’importanza dell’acciaio nell’economia moderna (dalle auto all’edilizia, passando per gli elettrodomestici e gli elicotteri, non c’è prodotto moderno che non impieghi acciaio) è tale che le fondamenta dell’Europa unita post-bellica sono costruite proprio sull’acciaio: la CECA, l’embrione della UE, mirava proprio a risolvere il decennale problema degli approvvigionamenti di carbone e minerali, liberi finalmente di circolare senza restrizioni tra Germania, Francia e Benelux. È sintomatico che l’attuale guerra russo-ucraina stia debilitando a tal punto l’Unione Europea, già provata da anni di crisi finanziaria, terrorismo, flussi immigratori e Covid, da far vacillare persino il pilastro su cui fu edificata l’Unione Europea: è di questi giorni, infatti, la notizia che l’Italia valuta persino l’introduzione di barriere all’esportazione di rottami, diventati un bene sempre più pregiato e raro dopo la momentanea scomparsa di Russia ed Ucraina dal mercato dell’acciaio. Si noti che anche la disponibilità di rottami non garantirebbe comunque di per sé il funzionamento della siderurgia italiana: invertendo il processo “autarchico” iniziato negli anni ‘30 e proseguito fino agli anni ‘60, l’Italia è infatti tornata a concentrarsi nell’ultimo trentennio sui forni elettrici (che coprono oggi l’80% della produzione nazionale) col concreto rischio di dover fermare l’attività (come in parte sta già avvenendo) qualora l’elettricità dovesse diventare troppo cara o essere razionata (a causa dell’interruzione del gas proveniente dalla Russia).
L’Italia rischia così di vedere andare in fumo i risultati conseguiti negli ultimi 90 anni. Alla vigilia dell’ultima guerra mondiale, l’Italia produceva 2,5 milioni di tonnellate annue di acciaio contro i 6,5 della Francia: oggi ne produce 23 milioni contro i 16 della Francia ma, nei prossimi anni a venire, Parigi potrà continuare a disporre di energia elettrica a buon mercato grazie alle centrali nucleari italiane, mentre le acciaierie potrebbero essere spinta fuori dal mercato o costrette alla chiusura, con gravissimi danni all’economia nel suo insieme. Il confronto con la Francia non è per nulla casuale perché, all’interno della più ampia manovra transalpina per conquistare le leve economico-politico-militari dell’Italia, Parigi si è proprio preoccupata di acquistare, attraverso il gruppo franco-indiano ArcelorMittal, il controllo dell’ultimo impianto siderurgico italiano a ciclo integrato, quello di Taranto.
Nel 1995 l’acciaieria di Taranto, tra le più moderne d’Europa, è ceduta alla famiglia Riva, che mantiene il controllo per circa un ventennio: gli investimenti forse languono, ma la produzione rimane su livelli alti. A partire dal 2012, partono le prime manovre della magistratura italiana, eternamente eterodiretta dalle potenze esterne, come dimostra il caso di Tangentopoli, per affossare l’impianto: ai Riva sono imputati gravi reati ambientali. Nel 2013, il governo Monti nomina come commissario straordinario Enrico Bondi, che già si era distinto per il “risanamento” di Parmalat, poi comprata dai francesi di Lactalis, attingendo alla lauta cassa di Parmalat stessa. Nel 2016, l’ILVA è acquistata dal gruppo ArcelorMittal che, ovviamente, gestisce l’impianto secondo criteri non solo economici ma anche geopolitici: la produzione, così, inizia lentamente a scendere. Dalle 8 milioni di tonnellate degli anni ‘90, si passa alle 3,5 del 2021. Nella primavera del 2022, prima ancora della crisi russo-ucraina, quando il prezzo dell’acciaio era già alle stelle, metà dell’organico dell’ILVA era in cassa integrazione straordinaria per l’attuazione del nuovo piano industriale del colosso franco-indiano e l’area a caldo dello stabilimento ancora sotto sequestro.
In sostanza, alla fine di marzo 2022, quando l’intera industria italiana comincia ad accusare la penuria d’acciaio, l’unico impianto siderurgico italiano a ciclo integrale, che potrebbe funzionare a coke e minerale anziché ad energia elettrica e a rottami, è fermo. L’ILVA si aggiunge così a quella lunga lista di industrie strategiche (bisogna almeno citare Olivetti, Montedison, gruppo Ferruzzi ed Alfa Romeo) scientificamente smantellate perché necessarie non solo a reggere la concorrenza mondiale, ma anche qualsiasi sforzo bellico. Massima impotenza, minima autarchia: il triste destino delle potenze sconfitte.
Fonte: http://federicodezzani.altervista.org/lilva-e-lo-smantellamento-della-siderurgia-italiana/
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