Droghe, un’esperienza da avvocato sul campo
di La Croce Quotidiano (intervista a Carlotta Toschi)
La proposta referendaria sulla legalizzazione delle droghe leggere ha riaperto il dibattito, mai sopito, sul tema degli stupefacenti.
Non parlerò di dati di diffusione: non sono un analista. Non parlerò degli effetti della droga: non sono medico.
Quello di cui posso parlare è della mia esperienza sul campo, senza esprimere giudizi di moralità.
Perché se qualcuno ci deve giudicare, oltre ai Magistrati della nostra Repubblica, quel qualcuno sta in cielo.
Mi occupo di diritto penale e, spesso e volentieri, di droga. Il testo di riferimento, in Italia, è il famoso DPR 309/90 del 9 ottobre 1990, n. 309, recante: “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope , prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”, meglio conosciuto da noi avvocati come DPR 309 o DPR
Droga.
Abito in una città dove il crimine legato allo spaccio è alto. Infelicemente noti sono i casi di cronaca che coinvolgono maggiorenni e minorenni, nella bellissima Bologna. Sventuratamente noto è anche il Quartiere Pratello, sede del Tribunale per i Minorenni dell’Emilia-Romagna e della casa circondariale minorile.
Difendo spacciatori di tutte le età, sono anche e soprattutto un difensore d’ufficio e il mio habitat naturale è l’udienza di convalida dell’arresto di coloro che, appunto, sono arrestati per reati inerenti allo spaccio – detenzione di stupefacenti.
Oggi vi presenterò Tizio e Caio.
La scena è sempre la stessa: telefonata alle 2 di notte dalla Polizia Giudiziaria “Avvocato, scusi per la sveglia” “Dica” “Abbiamo arrestato Tizio, per un 73, ci vediamo alle 9”. Che tradotto, dal legalese, significa che la polizia ha proceduto all’arresto per produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope e che, dalle 9 in avanti, in un orario imprecisato, si terrà la convalida dell’arresto, davanti al Tribunale competente.
Ed inizia la mia giornata. Cappotto chiuso fino al naso. Mascherina anti – Covid. Borsa professionale con l’onere e l’onore tenerla al sicuro, nemmeno fosse l’anello di Frodo. Toga sottobraccio, che scivola via, come un’anguilla. Cellulare che suona. Incessantemente. Sempre di corsa, tra un ufficio e l’altro. Perché l’avvocato sa che gli uffici giudiziari sono dislocati in maniera scriteriata, un po’ qua e un po’ là, per la città. Non in un unico luogo.
In Tribunale, attendo di conoscere Tizio, italiano. Altre volte Tizio è straniero ma stavolta è bolognese doc, con un simpatico accento. Alcune volte, prima di parlarci, se il cliente è straniero e non parla la mia lingua, debbo anche aspettare l’interprete e questo pone una barriera comunicativa micidiale e mette il cliente, già in ansia, sulla difensiva. Ed iniziano le classiche domande, in attesa che arrivino gli esiti degli esami tossicologici, sulla sostanza stupefacente,
“Avvocà, torno a casa stasera, vero?” “Un domiciliare me lo danno, avvocà?”.
E le promesse. Quante promesse che so, perfettamente, non verranno mantenute “Avvocà, mandami a casa che stasera chiamo subito il Sert” “Smetto eh, così mia moglie è contenta”. “Ho moglie e figli. Non capita più, lo giuro”.
E queste promesse, sistematicamente, le sento ripetere, durante l’esame dell’imputato: occasione in cui Tizio ha il suo spazio, garantito dalla legge, per fornire la sua versione dei fatti, ove necessario. Rivolto al Giudice, sentiamo e facciamo ripetere le stesse cose “Dottò, non lo faccio più, promesso” “Ho capito la lezione eh, ma mi mandi a casa che ho la famiglia”.
Ed il Giudice si ritira in camera di consiglio, per convalidare l’arresto.
Rimango io, con Tizio. Il Pubblico Ministero, qualche sedia più in là di me, per via del Covid, resta seduto mentre io esco, con Tizio e la Polizia. Per due chiacchiere, nell’attesa. Tizio ride, nervoso, nell’ansia. Chiede una sigaretta e una bottiglietta di acqua e aspettiamo. Aspettiamo. Aspettiamo.
Carcere, domiciliare o misura meno restrittiva, a seconda del caso e della giornata. Ed io vado a casa.
Molto spesso Tizio mi ricontatta, dopo il processo.
Ma, più di frequente, in realtà, è la Polizia Giudiziaria che, sempre di notte, chiama perché Tizio mi ha nominato di fiducia, nel corso di un arresto.
Stesso reato.
E la storia si ripete.
Giambattista Vico, solitario filosofo di tradizione umanistica del Seicento, lo aveva delineato nella sua teoria dei corsi e ricorsi storici: l’uomo è sempre uguale a sé stesso, pur nel mutamento delle situazioni e dei comportamenti storici e quello che si presenta di nuovo nella storia, è paragonabile per analogia, a ciò che si è già manifestato.
E parliamo anche dei minorenni. Perché Bologna è sede di giustizia minorile.
Tristi sono i casi in cui sono i minorenni a dover accedere alla giustizia minorile per droga. Ho tenuto a processo minorenni di anni 17 che, non appena maggiorenni, hanno compiuto reati della stessa specie. Droga a 17 anni. Droga a 18 anni. I casi più strazianti.
Come promesso poco sopra, Vi racconterò non solo di Tizio, maggiorenne, ma anche Caio, minorenne, di anni 16.
Caio arriva nel mio studiolo, coi genitori. Appena entra, Caio è un fiume in piena, racconta le cose in maniera affastellata, preso come è dal non dirmi la verità. Cerca nel mio sguardo sostegno e forse compassione, mentre porgo alla mamma del minore un fazzoletto per asciugarsi le lacrime. Il papà mi racconta che Caio studia con scarso profitto. Hanno pensato tanto di fargli abbandonare la scuola ma “Si sa, avvocato, poi non trova lavoro” “Ma il ragazzo non ha la testa”. Il papà, testa bassa, non incrocia mai il mio sguardo. Va avanti nel racconto e dice che il tempo, il figlio, non lo passa a casa ma al bar del quartiere o al parco lì vicino, tra una sigaretta e l’altra, a fumare con gli amici.
Una sigaretta, uno spinello o… qualcosa di più?
Ripete, Caio, di avere deluso mamma e papà e di non farlo più. Veramente. Ha capito. Gli spiego con delicatezza che quegli amici con cui fuma quella … sigaretta … in realtà, non sono bravi amici perché non lo aiutano, non lo mettono sulla buona strada. E Caio, come ogni adolescente che si rispetti, alza gli occhi al cielo, sentendo la mia lavata di capo. Ma in udienza, Caio dimostra di avermi ascoltato attentamente e lo ribadisce, con fierezza, al Pubblico Ministero e al Collegio “Ho deluso mamma. Mamma piange da settimane. Non lo faccio più”.
Perdono giudiziale (il giudice ha pensato che l’imputato non commetterà più nessun reato e che, quindi, il perdono e la conseguente assenza di condanna, sia un contributo al recupero sociale del minore) e tutti a casa.
Fino alla prossima occasione di reato.
Dentro di me, mi chiedo sempre quanto di questo pentimento sia vero e quanto io possa – o non possa – contribuire ad essere promotrice di rinnovamento e rinascita. Aspettando un deus ex machina che so che non arriverà: Caio, questa volta, non avrà la sua fenice.
In fin dei conti, mi trovo a riflettere, il mio compito di difensore si ferma lì: fare avere a Tizio e Caio il miglior processo, quello che garantisca che ogni loro diritto non venga leso. Si sa: questa è la solitudine del difensore e di ciò, poi, la notte, prima di andare a dormire, ci deve fare i conti la mia coscienza: ho svolto il mio lavoro? Sì. Per il resto, se ne occuperanno assistenti sociali, psicologi, preti. Io no: non è il mio ruolo, non ho competenze e non ho le capacità. E, banalmente, nel mio piccolo lo ammetto: a volte, di fronte a tutto questo, non so trovare le parole giuste.
Ma non mi basta.
Il processo penale non è sede per vendette sociali ma per l’esercizio della giustizia. Che significa pena adeguata al fatto ed alla persona che lo ha commesso. Il tormento interiore è tanto e i pensieri personali passano in secondo piano, in silenzio e nella solitudine che accompagna scelte (degli avvocati e dei Magistrati) da cui dipende la libertà personale di altri uomini.
Il traffico e lo spaccio di sostanze illegali è terrificante perché porta con sé la commissione di ulteriori reati, soprattutto di natura violenta. Restano indicativi i dati rispetto alle violazioni dell’art. 187 del Codice della Strada, ovvero guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti.
Ed il traffico e lo spaccio rappresentano fonte di liquidità per le organizzazioni criminali, sia nazionali che transnazionali. Aspetto, questo, che coinvolge non solo il maggiorenne ma anche la diade delinquenza minorile e criminalità organizzata. Condizioni di degrado, sia sociale che culturale, l’assenza di strutture aggregazione e (anche, soprattutto) di prevenzione costituiscono terreno fin troppo florido e fertile per minorenni che, scaltri, effettuano una vera e propria “scalata” al crimine.
Tempo addietro, giusto qualche mese fa, a fine 2021, leggevo le riflessioni di Fabiana Dadone, Ministro per le politiche giovanili, del governo Draghi, la quale si esprimeva circa l’impatto della legge del 1990 (forse antiquata rispetto al fenomeno attuale) sul sistema penitenziario: è vero (e lo sostengo anche per esperienza personale) che la maggior parte dei detenuti di sesso maschile, nelle nostre carceri, sono condannati per reati legati all’uso di stupefacenti.
Da ciò discende l’ulteriore problematica della permanenza del tossicodipendente all’interno del carcere: molto spesso non trova una cura adeguata per “uscire” definitivamente dal circuito. Tanti (troppi) sono i condannati, per fatti di lieve entità, che confluiscono in carcere con sentenza di condanna. E tanti (troppi) sono i casi in cui ogni alternativa terapeutica è rimandata al “dopo” il carcere, alla Magistratura di Sorveglianza. I tempi sono cambiati dagli anni 90.
E sono cambiati anche gli assuntori.
Come mutati sono altresì i luoghi. Quelli abitualmente frequentati prima del Covid, discoteche e punti di ritrovo, sono stati sostituiti da luoghi pubblici come parchi e aree verdi che diventano territorio di spaccio, anche alla luce del sole e zone perfette per “nascondere”, tra le sterpaglie, un bilancino di precisione, una banconota e qualche bustina.
In questi mesi di lock-down, il traffico è forse rallentato ma non si è fermato. Per aggirare le restrizioni, derivanti dagli spostamenti, ho visto venire alla luce elaborati piani di vendita, dal trasporto via drone, alla vendita porta a porta, con delivery. Il web ha soppiantato la tradizionale contrattazione in presenza.
Ma la sostanza non cambia.
Se la vecchia “piazza”, passatemi il termine, era il passaggio di mano in mano, forse destinato al tramonto, tra una spruzzata di gel igienizzante e l’altra, per via del Coronavirus, oggi lo spaccio sta cambiando.
E allora mi chiedo se possiamo accorgerci per tempo del problema di un uso – consumo – abuso. Ma cosa significa “accorgersi in tempo”? Quello che, un tempo, era il controllo attento ed amorevole della famiglia di origine ora è stato sostituito o rimpiazzato da altro. Alle volte, il controllo della famiglia è inadeguato, alle volte è totalmente inesistente.
Agli onori della cronaca i casi di “Il figlio si droga: i genitori lo denunciano”: segnalazioni coraggiose di mamme e papà che portano alla denuncia, per spaccio, del figlio minorenne. Bugie seriali, problemi economici, frequentazioni “poco raccomandabili”.
Casi emblematici di disagio che hanno portato alcuni genitori al gesto estremo di denunciare il proprio figlio, nel tentativo di salvarlo. Famoso è il caso della patron del concorso Miss Italia, Patrizia Mirigliani che, nel 2020, ha denunciato il figlio, ai tempi trentunenne, per il reato di maltrattamento in famiglia. Dalla lettura delle prime pagine di cronaca apparve che, alla base del comportamento violento del figlio, ci fosse un consumo di droga.
Un genitore.
Una scelta.
Un grande dolore e un grande amore.
Fare i genitori è, oggi più che mai, il mestiere più difficile del mondo. Impresa che diventa, forse, degna di un Titano in tutte quelle drammatiche situazioni in cui genitori e figli non si incontrano bensì si scontrano, nell’incapacità di affrontare crisi, silenzi, rotture.
Lo diceva il titolo del popolare film “Genitori & figli – Agitare bene prima dell’uso”. Ma non esiste una medicina o un libretto di istruzioni? No, miei cari.
E allora che fare?
Non si tratta di proibizionismo.
Si tratta di affrontare le emergenze di oggi, nel dilagare delle nuove sostanze psicoattive. Un mercato in costante evoluzione che deve permetterci di tracciarle e, se del caso, sequestrarle. Ma soprattutto va colmato quel gap di disagio che c’è dietro al consumo, anche modesto, ove costituente fattispecie di reato.
Questo, a mio avviso, varrà sia per le sostanze stupefacenti ma anche per l’alcool ed i fenomeni di ludopatia, il cui uso (abuso?) è, in corso di pandemia, aumentato in maniera più che sensibile.
È tempo di riformare la norma che risale al 1990? È possibile.
Ricordiamo tutti i numerosi interventi della Corte di Cassazione in tema di droghe che, nel corso degli anni, è intervenuta a colmare il vuoto posto dal “tempo che passa”.
Le leggi invecchiano, esattamente come l’essere umano.
È, allora, il tempo del contrasto e/o della prevenzione?
Per cultura personale, reputo imprescindibile affiancare attività di informazione. E, a dire il vero, non rammento, da tempo, una adeguata e massiccia campagna di sensibilizzazione ed informazione.
Volgendo lo sguardo all’estero, alla modernissima Germania, apprendiamo che anche lì il dibattito è sempre presente. In Germania, è stato adottato un atteggiamento di tolleranza: il consumo non è più reato ma lo sono il possesso e la vendita. Ma la legalizzazione della cannabis è stata accompagnata da politiche di riduzione del danno: ricordiamo, infatti, che stati emanati regolamenti particolarmente stringenti sulla pubblicità delle rivendite di droga, alcool e dei prodotti che contengono nicotina.
Interessante è quello che è stato rinominato “Drug-checking”, discusso anche in Italia, cioè la valutazione, nel quadriennio successivo, degli effetti sociali complessivi dell’applicazione della nuova normativa. Effetti sociali che, ovviamente, andranno a diversificarsi di Stato in Stato.
Ciascuno Stato avrà, presumibilmente, un suo modello per prevedere ricadute sociali – e finanziarie – della (eventuale) legalizzazione. Parliamo di tutte le attività produttive che andrebbero ad interessare le aziende coinvolte. Senza contare degli introiti prodotti dalle imposte sulle vendite.
Oltre a questi, si può agevolmente comprendere quale sarebbe il – notevole – risparmio legato alla depenalizzazione: tutti i costi e le spese di giustizia inerenti a, tra i vari, le operazioni della Polizia, i procedimenti giudiziari, i pagamenti degli onorari dei difensori di coloro che sono ammessi al patrocinio a spese dello Stato. Tutti costi attualmente legati al commercio – uso – vendita illegale verrebbero drasticamente abbattuti.
Negli Stati Uniti, invece, è in vigore legalizzazione della vendita anche delle droghe pesanti, anche quelle derivanti dall’oppio che, molto spesso, vengono “mascherate” da antidolorifici. Autentiche “bombe a mano”, se mi è concesso il termine, come l’ossicodone, ad esempio che, in Italia, viene somministrato ai malati terminali.
Ma la legalizzazione sarebbe portatrice soltanto di benefici? La legalizzazione, del resto, mi pare chiaro, aumenterebbe la domanda. E di conseguenza l’offerta.
La legge del mercato vale anche per la droga, è ovvio.
Come è anche ovvio che diminuire la disapprovazione circa un determinato comportamento lo incentiva.
Legalizzare significa, del resto, rendere socialmente accettato e condivisibile un comportamento determinato perché la norma dello Stato che prima lo puniva ora è stata abrogata. Proprio come avviene per il gioco d’azzardo, divenuto, in certi casi, piaga sociale. Così facendo, la norma diventa una cultura.
Gli effetti dell’uso delle sostanze stupefacenti sono noti. Avevo promesso che non ne avrei parlato.
Ma sono avvocato, perdonatemi: tendo sempre allo sproloquio. Danni al sistema immunitario, infertilità, malattie cardiovascolari, cancro. Su questo aspetto, a mio avviso, non esistono droghe leggeri o pesanti ma dipendenze più o meno gravi e radicate che influiscono, in maniera negativa, nei percorsi di recupero.
La revisione del Testo unico sulle droghe, in Parlamento, procede a rilento per i veti incrociati.
Come nel caso del suicidio assistito.
È un lavoro difficoltoso.
Sono passati trent’anni dalla legge Iervolino-Vassalli del 1990, ma la guerra alle droghe, in Italia, non ha conosciuto tregue. Abbiamo atteso la repressiva Fini – Giovanardi (49/2006) con la quale sono state equiparate le droghe pesanti e le droghe leggere, abbiamo agito con inasprimento repressivo e, poi, con affievolimento della distinzione del trittico dipendente, consumatore e spacciatore.
Pagato a caro prezzo – anche sulle tasche dei cittadini con una discreta pressione fiscale – il sovraffollamento carcerario, abbiamo aspettato che intervenisse la Corte costituzionale, nel 2014, per bocciare l’equiparazione tra droghe leggere e pesanti e i decreti-legge del 2013 e 2014 per restituire valore ed autonomia al “fatto di lieve entità”. Ciò che il legislatore non poté … viene risolto dalla Corte Costituzionale o dalla Cassazione.
Le vicende di cronaca giudiziaria rendono notorio il fallimento dello stato attuale dell’arte che ha rafforzato il mercato, aumentato le occasioni di approccio alle sostanze, aperto più strade alla violenza e rallentato le strategie di riduzione del danno.
Il CND (Commission on Narcotic Drugs) delle Nazioni Unite ha rimarcato come la scelta di alcuni Stati di legalizzare determinate sostanze rappresenti violazione dei trattati internazionali contro la diffusione delle tossicodipendenze, già ratificati da un gran numero di Stati, Italia compresa, a partire dal 1961. Ricordo a me stessa che il 30 marzo 1961, data storica, alcuni Stati si diedero un obiettivo importante, sottoscrivendo la Convenzione Unica sugli stupefacenti di New York, che aveva lo scopo di eliminare le produzioni illegali di oppio entro il ‘79 e quelle di cannabis e cocaina entro il 1989. 37 anni dopo, nel 1998, se ne diedero un altro: un mondo, senza sostanze psicotrope, entro 10 anni.
Nel frattempo, l’uso di sostanze illegali è aumentato e la produzione ed il traffico sono totalmente fuori controllo.
Sono passati 60 anni, più o meno.
Cosa è rimasto? Cosa possiamo buttare e cosa, invece, salvare?
A settembre 2021, è partita la raccolta firme per la depenalizzazione della coltivazione della cannabis. A proporre e depositare la consultazione, in Cassazione, il 7 settembre 2021, è stato un gruppo di giuristi e militanti impegnati contro il proibizionismo, sotto il coordinamento delle Associazioni Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Antigone, Società della Ragione.
Alla proposta hanno preso parte anche alcuni rappresentanti delle istituzioni, in particolare dei partiti +Europa, Possibile e Radicali italiani.
Chi è contrario alla legalizzazione, viene da sempre accusato di essere conservatore, tradizionalista, magari anche un pochino bigotto, incoerente.
Depenalizzare appare, allo stato attuale, esercizio di irresponsabilità e di demagogia perché appunto ci troviamo davanti a un referendum che non viene avanzato come parte di una politica anti droga dello stato quanto come mera rottura con il passato e con le sue politiche cosiddette “proibizioniste”.
Sull’argomento, è intervenuto anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha evidenziato come il “fenomeno” abbia “spesso radici profonde”.
A mio sommesso avviso, occorre una mobilitazione sì, ma non di raccolta firme per un referendum.
Parlo di una mobilitazione culturale del mondo giuridico, del legislatore, unitamente a quelle parti della collettività costantemente impegnati su questi temi, per riflettere su un gamma di piani differenti da quello esclusivamente “liberatorio” ed al fine di percorrere sentieri, in conclusione, legati all’etica e alla necessità di cura dell’essere umano preso sia come singolo ma anche nelle sue naturali relazioni sociali.
Commenti recenti