La “maledizione di Leopold von Ranke” e la “non disprezzabile” eredità della Storia delle relazioni internazionali
di NUOVA RIVISTA STORICA (Paolo Soave)
Strano destino quello della Storia delle relazioni internazionali, intesa come sapere storico e disciplina accademica: moderna per origine eppure accusata di arretratezza, chiara nella sua identità scientifica e proprio per questo considerata limitata, capace di evolversi ma sempre messa in discussione. È un tema delicato e annoso, quello ripreso da Luca Riccardi nel suo Storiografia e diplomazia. Storia delle relazioni internazionali e politica estera italiana, pubblicato dalla Società editrice Dante Alighieri nella collana “Biblioteca della Nuova Rivista Storica”, diretta da Eugenio Di Rienzo. Il volume è diviso in due sezioni: la prima è dedicata al dibattito storiografico rilanciato fra 2016 e 2017 da “Ricerche di Storia Politica”, la seconda esemplifica, con alcuni studi dell’Autore sulla politica estera italiana del secondo dopoguerra. Significativo l’incipit: “E’ ancora utile la storia delle relazioni internazionali?” con il quale Riccardi si chiede se la disciplina sia in grado di adeguarsi alla cosiddetta Global Turn che la storiografia, sulla scorta dei grandi cambiamenti internazionali degli ultimi decenni, ha imboccato dandosi nuove prospettive euristiche.
Prima di entrare nel vivo dell’analisi occorre fare, come direbbe Dumas padre, un passo indietro per ricordare quali siano state le origini della disciplina oggi nota come Storia delle relazioni internazionali. Essa fu mutuata dalla Francia “in pieno clima positivista”, come ricorda Enrico Serra, e inserita da Pasquale Stanislao Mancini nei programmi di formazione dei giovani diplomatici. A partire dal 1875 fu impartita alla Cesare Alfieri di Firenze; nel 1925 divenne una delle discipline fondamentali delle facoltà di Scienze Politiche istituite dal fascismo, sempre nell’intento di plasmare la nuova élite politica italiana; nel 1938 assunse la denominazione di Storia dei Trattati e Politica Internazionale, a segnalare la duplice natura scientifica che integrava lo studio giuridico degli accordi fra gli Stati con l’evoluzione storica dello scenario internazionale che ne costituiva l’inscindibile contesto.
Disciplina portatrice di un rigoroso approccio scientifico, la filologia delle carte introdotta dal Ranke, essa si pose come storia politica e di potere, incentrata su personalità e potenze, ma presto sollecitata ad aprirsi a una più ampia indagine, perché con l’irrompere delle opinioni pubbliche, per dirla con Albert Sorel, tutte le questioni internazionali dovevano ormai ritenersi anche questioni morali. Un ulteriore forte stimolo scaturì dalla scuola delle Annales, che con la critica all’histoire événementielle, o histoire bataille, promosse una storia sociale, integrata con le altre discipline che insistevano sull’uomo e le comunità. Il giudizio di Lucien Febvre per la storia diplomatica fu particolarmente severo. La reazione più significativa, come noto, venne da Pierre Renouvin, che pose a fondamento della Storia delle relazioni internazionali i basic factor, le cause profonde di cambiamento sociale, economico e culturale. Anche in quel caso non vi fu ragione per l’abiura del documento diplomatico, che continuava a legittimarsi con la sua specificità, per Riccardi “strumento di comprensione della realtà politica, umana e culturale di un settore della classe dirigente decisivo per i destini della stessa società. A esso, fatto tutt’altro che trascurabile, erano demandate le decisioni di natura internazionale che avrebbero indirizzato, spesso in momenti-chiave della storia, la vita dei cittadini”.
L’Autore offre un’affascinante panoramica degli studiosi italiani di varie generazioni che hanno dato contributi fondativi alla materia pur muovendo da ambiti disciplinari diversi, a partire da Chabod, tramite culturale fra la scuola francese e quella italiana. Si sofferma in particolare su Mario Toscano, che con la sua duplice veste di storico e di consigliere diplomatico fu a lungo figura centrale, combinando un certo conservatorismo scientifico con l’apertura ai nuovi temi di ricerca del secondo dopoguerra. Fra i suoi allievi vi fu Pietro Pastorelli, di cui Riccardi tratteggia un prezioso profilo accademico e scientifico e che ancor oggi è punto di riferimento per gli studi sulla politica estera italiana. Egli appartenne a quella seconda generazione di storici delle relazioni internazionali italiani che guidata da Ennio Di Nolfo seppe meglio reagire alle sollecitazioni, avviando la cosiddetta “sprovincializzazione”. La sempre più rilevante storia sociale, la storia dal basso, che tendeva a considerare la materia “una storia di una piccola porzione delle classi dirigenti che appariva completamente staccata dalla realtà sociale che la circondava”, poté così beneficiare, grazie agli studi degli storici delle relazioni internazionali, di una più approfondita comprensione dei grandi processi che facevano da sfondo alle questioni sociali. Anche Di Nolfo e la sua scuola, aperta al confronto con le altre discipline, non mancò di ribadire la centralità del documento diplomatico, come “visione del divenire sociale”. Da lui aggiornata, la materia era da intendersi come “storia delle relazioni politiche internazionali, cioè: storia dell’evolvere del sistema internazionale; storia di relazioni bilaterali; storia di problemi; storia di istituzioni; storia di metodi; storia del formarsi di una politica estera; storia di personalità”. Nel prezioso Prima lezione di Storia delle relazioni internazionali Di Nolfo sottolineò come distintivo l’aspetto relazionale, il dinamismo degli attori internazionali colto al di là della loro dimensione interna, approfondita da altre discipline.
Non si può non rilevare come le ultime generazioni di studiosi della materia abbiano ulteriormente dilatato i campi di ricerca sino a trattare molti aspetti rilevanti della Guerra fredda e ad affacciarsi sulla nuova globalità, adottando metodologie ampie che contemplano lo studio di fonti ben diversificate, fra le quali continua a porsi, senza pretesa di esaustività, il documento diplomatico. È paradossale che sulla Storia delle relazioni internazionali persista ancora una sorta di pregiudizio, “la maledizione di Ranke”, che a uno sguardo più obbiettivo ed equilibrato dovrebbe ritenersi marchio di rigore scientifico. Riccardi individua quale filo conduttore delle critiche che più generazioni di studiosi e intellettuali hanno rivolto alla materia una base ideologica, ovvero il rigetto della storia politica, intesa soprattutto come storia di potere, di cui peraltro non si dovrebbe far fatica a scorgere la perdurante necessità, dato l’imporsi di nuove élite e istituzioni. L’Autore ricorda come proprio Marx, globalista ante litteram, apprezzasse la concretezza dei documenti diplomatici, del resto i bolscevichi avrebbero pubblicato i trattati segreti per svelare le trame imperialiste delle potenze europee. Occorre aggiungere che se in passato le critiche alla materia provenivano soprattutto dagli storici di altre aree, come i contemporaneisti e i modernisti, e Riccardi si sofferma in particolare su Alberto Aquarone, oggi la Storia delle relazioni internazionali deve guardarsi soprattutto dall’abbraccio molto stretto di quelle discipline socio-politologiche che, dentro e fuori le accademie, sono ormai egemoniche e portatrici di un modello che tende a uniformare i saperi. Riccardi rileva che “La teoria può seguire la storia, ma mai precederla o addirittura scalzarla”, e depreca la burocrazia che ha collocato in aree distinte la Storia delle relazioni internazionali e la Storia Contemporanea.
Da molto tempo lo storico delle relazioni internazionali non è più, o almeno non dovrebbe essere, un filologo di carte, il mero compilatore a cui faceva riferimento Di Nolfo parlando della “mentalità di Pollicino”. Molti studiosi della materia, diversi per età e inclinazioni, hanno ampiamente dimostrato di sapersi muovere fra differenti tipologie di fonti primarie, fra le quali il documento diplomatico conserva la propria specificità. Da tempo essa viene integrata con le carte di istituzioni politiche, militari, economiche, culturali, ma anche con la raccolta di testimonianze e con la comprensione del sentimento pubblico delle società, in un contesto ampiamente internazionalizzato. Elemento distintivo dello storico delle relazioni internazionali, di ieri come di oggi, è la ricerca d’archivio, e forse al pregiudizio ideologico di cui parla Riccardi occorre aggiungere anche questo. L’affermarsi di un nuovo sapere convergente e semplificato da un lato, il processo di burocratizzazione della vita accademica dall’altro, rendono difficilmente sostenibili ricerche d’archivio che assorbono molte risorse, a partire dal tempo e dalla concentrazione. Se lo storico delle relazioni internazionali resta legato alle ricerche d’archivio per preservare la propria specificità, deve oggi anche dimostrare sensibilità per significativa e più recente evoluzione della diplomazia, i cui interpreti non sono più gli esclusivi mediatori di realtà socio-culturali remote, ma funzionari professionalmente specializzati, così come la Public Diplomacy tende a relativizzare i canali riservati di un tempo. Questi nuovi caratteri sono stati colti dalle discipline socio-politologiche, oggi interessate al fenomeno diplomatico.
Riccardi conclude che oggi i persistenti interrogativi sulla materia sono “poco più che retorici”. A ben vedere, la Storia delle relazioni internazionali si legittima, come sapere e come disciplina, con la medesima specificità che aveva alle origini, in quanto indispensabile per la comprensione profonda dei grandi processi storici internazionali e per la formazione di corpi altamente professionalizzati. Una materia tutt’altro che immobile, si direbbe, e che ha conservato la propria modernità.
Resta il problema della collocazione della Storia delle relazioni internazionali fra la Storia internazionale e la Storia globale, operazione non semplice, come aveva intuito Di Nolfo. Pierre Grosser ha osservato che la Storia delle relazioni internazionali è per sua natura globale, perché globali sono la diplomazia e la strategia, e una storia depoliticizzata sarebbe priva di senso. Un giudizio, questo, già a suo tempo espresso da Galasso.
La seconda parte del volume rende ancor più eloquenti le ragioni che inducono Riccardi a ritenere “non disprezzabile” l’eredità della Storia delle relazioni internazionali. L’Autore ripropone una serie di saggi sulla politica estera italiana del secondo dopoguerra che ben evidenziano l’ampiezza dell’analisi politico-sociale, culturale oltre che diplomatica di importanti nodi storiografici che hanno visto la pressoché piena sovrapposizione metodologica fra la Storia delle relazioni internazionali e la Storia Contemporanea: il Medio Oriente e la nascita dello Stato di Israele nell’interazione fra società e istituzioni, passando per il ruolo giocato dai partiti, in particolare il Pci con i suoi legami con Mosca; Aldo Moro ministro degli Esteri portatore di un “gradualismo” inteso quale unica via per accordare ispirazioni e necessità; Giulio Andreotti e l’applicazione del principio forlaniano del “parlare con tutti”; il rilancio degli anni ’80 con Craxi e l’impulso italiano a un’azione europea nella questione arabo-israeliana, a partire dalla dichiarazione di Venezia del 1980 in risposta al ruolo statunitense sancito a Camp David. Anche questi saggi ci ricordano la lezione di Pietro Pastorelli, secondo il quale la storia è indivisibile, mentre sono i libri a essere buoni o cattivi, secondo il contributo che apportano.
(Pubblicato il 3 giugno 2022 © «Storia GLocale» – Recensioni)
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