La Prima Guerra Mondiale segnò la fine di un ordine mercantilista che si era sviluppato sotto l’egida delle potenze europee. Cento anni dopo al suo posto vi era un ordine economico molto diverso (il cosmopolitismo neoliberale). Ritenuta dai suoi architetti universale ed eterna, la globalizzazione ha incantato il mondo per un lungo periodo, ma poi ha iniziato a scemare dal suo apice, proprio nel momento in cui, con la caduta del Muro di Berlino, l’Occidente dava sfogo al suo trionfalismo. La NATO, in quanto sistema regolatore di quest’ordine, ha affrontato la sua “crisi d’identità” premendo per l’espansione ad est verso i confini occidentali della Russia, ignorando sia le garanzie che aveva fornito che le veementi obiezioni di Mosca.

Questa radicale alienazione della Russia ha innescato il suo voltarsi verso la Cina. L’Europa e gli Stati Uniti, tuttavia, si sono rifiutati di considerare le questioni relative al dovuto “equilibrio” all’interno delle strutture globali, e hanno semplicemente sorvolato sulle realtà di un ordine mondiale in metamorfosi epocale: con il costante declino degli Stati Uniti già evidente; con una finta “unità” europea che mascherava i propri squilibri intrinseci; e nel contesto di una struttura economica iper-finanziarizzata che letalmente succhiava via ogni linfa dall’economia reale.

L’attuale guerra in Ucraina è quindi semplicemente un’appendice, un acceleratore di questo processo in atto di decomposizione dell’”ordine liberale”. Non ne è il centro. Fondamentalmente di origine geostrategica, le dinamiche esplosive della disintegrazione odierna possono essere viste come un contraccolpo generato dall’incompatibilità fra i vari popoli alla ricerca oggi di soluzioni su misura per loro civiltà non occidentali e l’insistenza dell’Occidente sul suo ordine a “taglia unica”. L’Ucraina è quindi un sintomo, ma non è di per sé il disturbo più profondo.

Tom Luongo ha osservato [in inglese], in relazione agli eventi “incasinati” e confusi di oggi, che ciò che lo spaventa di più è che molte persone analizzino l’intersezione tra geopolitica, mercati e ideologia, e che lo facciano con un compiacimento così sorprendente. “C’è un’incredibilmente forte tendenza al pensiero conformista nella saccentocrazia, troppo ‘il sangue freddo prevarrà’ e non abbastanza ‘tutti hanno un piano finché non vengono presi a pugni in bocca’”.

Ciò che la replica di Luongo non spiega appieno è lo stridore, l’indignazione, con cui è accolto qualsiasi dubbio sull’accreditata “saccentocrazia” del momento. È evidente che c’è una paura più profonda che si aggira nei bassifondi della psiche occidentale e che non è resa pienamente esplicita.

Wolfgang Münchau, ex Financial Times e ora autore di EuroIntelligence, descrive come questo canonizzato spirito del tempo abbia implicitamente imprigionato l’Europa in una gabbia di dinamiche avverse che minacciano la sua economia, la sua autonomia, il suo globalismo e il suo essere.

Münchau racconta [in inglese] come sia la pandemia che l’Ucraina gli abbiano insegnato che una cosa è affermare come ‘un cliché’ l’interconnessione del globalismo, ma:

…tutt’altra è osservare cosa accade realmente sul campo quando queste connessioni sono lacerate… Le sanzioni occidentali si basavano su una premessa, formalmente corretta ma fuorviante, una premessa cui io stesso ho creduto, almeno fino a un certo punto: La Russia dipende da noi più di quanto noi dipendiamo dalla Russia… La Russia, tuttavia, è un fornitore di beni primari e secondari, da cui il mondo è diventato dipendente. Ma quando il più grande esportatore di queste materie prime scompare, il resto del mondo sperimenta carenze fisiche e prezzi in aumento.

E prosegue:

Ci abbiamo pensato fino in fondo? I Ministri degli Esteri che hanno redatto le sanzioni hanno discusso in qualche momento cosa avremmo fatto se la Russia avesse bloccato il Mar Nero e non avesse permesso al grano ucraino di lasciare i porti? Oppure, abbiamo pensato di poter affrontare adeguatamente una crisi di fame globale puntando il dito contro Putin?

Il blocco ci ha insegnato molto sulla nostra vulnerabilità agli shock della catena di approvvigionamento. Ha ricordato agli europei che ci sono solo due vie per spedire merci in massa in Asia e ritorno: o con i container, o con la ferrovia attraverso la Russia. Non avevamo un piano per una pandemia, un piano per una guerra e un piano per quando avvengono contemporaneamente entrambe. I container sono bloccati a Shanghai. Le ferrovie sono chiuse a causa della guerra…

Non sono sicuro che l’Occidente sia pronto ad affrontare le conseguenze delle sue azioni: inflazione persistente, riduzione della produzione industriale, diminuzione della crescita e aumento della disoccupazione. Le sanzioni economiche mi sembrano l’ultima spiaggia di un concetto disfunzionale noto come Occidente. La guerra in Ucraina è un catalizzatore di un’enorme de-globalizzazione.

La risposta di Münchau è che se non si trova un accordo con Putin, con la rimozione delle sanzioni come componente, egli ravvisa:

…il pericolo che il mondo diventi soggetto a due blocchi commerciali: l’Occidente e il resto. Le catene di approvvigionamento saranno riorganizzate per rimanere al loro interno. L’energia, il grano, i metalli e le terre rare della Russia saranno ancora consumati, ma non qui. Noi (forse) ci terremo i Big Mac.

Quindi, ancora una volta, “uno” cerca una risposta: perché le euro-élite sono così stridule, così appassionate nel loro sostegno all’Ucraina? E rischiano l’infarto per la veemenza del loro odio verso Putin? Dopotutto, la maggior parte degli europei e degli americani fino a quest’anno non sapeva quasi nulla dell’Ucraina.

Conosciamo la risposta: la paura più profonda è che tutti i punti di riferimento della vita liberale, per ragioni che non capiscono, stiano per essere spazzati via per sempre. E che sia Putin a farlo. Come faremo “noi” ad orientarci nella vita, senza punti di riferimento? Che ne sarà di noi? Pensavamo che il modo di essere liberale fosse ineluttabile. Un altro sistema di valori? Impossibile!

Quindi, per gli europei, la partita finale in Ucraina deve riaffermare l’identità europea (anche a costo del benessere economico dei cittadini). Storicamente, guerre di questo tipo sono per lo più finite con una sporca soluzione diplomatica. Questa “fine” sarebbe probabilmente sufficiente alla leadership dell’Unione Europea per farla passare come una “vittoria”.

E c’è stata una grande azione diplomatica dell’Unione Europea per convincere Putin a fare un accordo, giusto la settimana scorsa.

Ma (parafrasando ed elaborando Münchau), una cosa è proclamare l’auspicabilità di un cessate il fuoco negoziato ‘come cliché’. “Un’altra cosa è osservare ciò che accade effettivamente sul campo quando viene versato il sangue per mettere i fatti sul terreno…”.

Le iniziative diplomatiche occidentali si basano sul fatto che la Russia ha bisogno di una “via d’uscita”, più di quanto ne abbia bisogno l’Europa. Ma è vero?

Parafrasando ancora Münchau:

Ci abbiamo pensato bene? I Ministri degli Esteri che hanno elaborato i piani per addestrare e armare un’insurrezione ucraina nel Donbass nella speranza di indebolire la Russia – hanno discusso in qualche momento l’effetto che la loro guerra e il loro espresso disprezzo per la Russia avrebbero potuto avere sull’opinione pubblica russa? O cosa avremmo fatto se la Russia avesse semplicemente scelto di mettere i fatti sul terreno fino a quando non avesse terminato il suo progetto… O abbiamo anche solo affrontato la possibilità che Kiev perdesse, e cosa avrebbe significato per un’Europa carica di sanzioni che non sarebbero mai finite?

La speranza di una soluzione negoziale ha lasciato il posto a un’atmosfera più cupa in Europa. Putin è stato intransigente nei colloqui con i leader europei. A Parigi e a Berlino si sta facendo strada la consapevolezza che un accordo raffazzonato non è vantaggioso per Putin, né se lo può permettere. L’umore dell’opinione pubblica russa non accetterà facilmente che il sangue dei suoi soldati sia stato speso in un esercizio vano, che si è concluso con un compromesso “sporco” – solo per far sì che l’Occidente resusciti una nuova insurrezione ucraina contro il Donbass, tra un anno o due.

I leader dell’Unione Europea devono percepire la loro situazione: forse hanno “perso il treno” per ottenere una “soluzione” politica. Ma non hanno “perso il treno” rispetto all’inflazione, alla contrazione economica e alla crisi sociale interna. Questi treni stanno andando nella loro direzione, a tutto vapore. I Ministri degli Esteri dell’Unione Europea hanno riflettuto su questa eventualità o si sono lasciati trasportare dall’euforia e dalla narrazione accreditata del “Putin cattivone” che proviene [in inglese] dai paesi baltici e dalla Polonia?

Ecco il punto: la fissazione per l’Ucraina non è altro che una mano di vernice per celare la realtà di un ordine globale in decomposizione. È quest’ultima la fonte del disordine più ampio. L’Ucraina non è che una piccola pedina sulla scacchiera, e il suo esito non cambierà fondamentalmente questa “realtà”. Anche una “vittoria” in Ucraina non garantirebbe l’”immortalità” dell’ordine neoliberale basato sulle regole.

I fumi nocivi emanati dal sistema finanziario globale sono del tutto estranei all’Ucraina, ma sono molto più significativi perché vanno al cuore del “disordine” all’interno dell’”ordine liberale” occidentale. Forse è questa paura primordiale inespressa che spiega lo strepito e il rancore nei confronti di qualsiasi deviazione dalla messaggistica sanzionatoria sull’Ucraina?

E la tendenza al pensiero conformista nel discorso, di cui fa menzione Luongo, non è mai così evidente (Ucraina a parte) quanto lo è quando si affronta la strana auto-selettività del pensiero anglo-americano sul proprio ordine economico neoliberale.

James Fallows, ex scrittore dei discorsi della Casa Bianca, ha osservato [in inglese] che il sistema anglo-americano di politica ed economia, come ogni sistema, poggia su alcuni principi e convinzioni:

Ma piuttosto che agire come se questi fossero i principi migliori, o quelli che le loro società preferiscono, i britannici e gli americani spesso agiscono come se questi fossero gli unici principi possibili. E che nessuno, se non per errore, possa sceglierne altri. L’economia politica diventa una questione essenzialmente religiosa, soggetta all’inconveniente standard di ogni religione: l’incapacità di capire perché le persone al di fuori della fede possano agire come fanno.

Per essere più precisi: l’odierna visione del mondo anglo-americana poggia sulle spalle di tre uomini. Uno è Isaac Newton, il padre della scienza moderna. Uno è Jean-Jacques Rousseau, il padre della teoria politica liberale. (Se vogliamo restare strettamente tra anglo-americani, John Locke può prendere il suo posto). E uno è Adam Smith, il padre dell’economia del laissez-faire.

Da questi titani fondatori derivano i principi in base ai quali una società avanzata, nella visione angloamericana, dovrebbe funzionare… E si suppone che riconosca che il futuro più prospero per il maggior numero di persone derivi dal libero funzionamento del mercato.

Nel mondo non anglofono, Adam Smith è solo uno dei tanti teorici che hanno avuto idee importanti sull’organizzazione delle economie. I filosofi illuministi, tuttavia, non sono stati gli unici a pensare a come dovrebbe essere organizzato il mondo. Durante il XVIII e il XIX secolo anche i tedeschi furono attivi, per non parlare dei teorici al lavoro nel Giappone dei Tokugawa, nella Cina tardo-imperiale, nella Russia zarista e altrove.

I tedeschi meritano di essere sottolineati, più dei giapponesi, dei cinesi, dei russi e così via, perché molte delle loro filosofie resistono. Queste non hanno attecchito in Inghilterra o in America, ma sono state attentamente studiate, adattate e applicate in alcune parti dell’Europa e dell’Asia, in particolare in Giappone. Al posto di Rousseau e Locke i tedeschi offrirono Hegel. Al posto di Adam Smith… hanno avuto Friedrich List.

L’approccio anglo-americano si fonda sull’ipotesi dell’imprevedibilità e della non programmabilità dell’economia. Le tecnologie cambiano, i gusti cambiano, le circostanze politiche e umane cambiano. E poiché la vita è così fluida, questo significa che qualsiasi tentativo di pianificazione centrale è virtualmente destinato a fallire. Il modo migliore per “pianificare” è quindi quello di lasciare l’adattamento alle persone che hanno in gioco il proprio denaro. Se ogni individuo fa ciò che è meglio per lui o per lei, il risultato sarà, per serendipità, ciò che è meglio per la nazione nel suo complesso.

Anche se List non usava questo termine, la scuola tedesca era scettica nei confronti della serendipità e si preoccupava maggiormente dei “fallimenti del mercato”. Questi sono i casi in cui le normali forze di mercato producono un risultato chiaramente indesiderabile. List sosteneva che le società non passavano automaticamente dall’agricoltura al piccolo artigianato alle grandi industrie solo perché milioni di piccoli commercianti prendevano decisioni per conto proprio. Se ogni persona mettesse il proprio denaro dove il rendimento è maggiore, il denaro potrebbe non andare, automaticamente, dove può portare il massimo beneficio alla nazione.

Perché ciò avvenga, è necessario un piano, uno stimolo, un esercizio del potere centrale. List attinse a piene mani dalla storia del suo tempo, in cui il governo britannico incoraggiava deliberatamente l’industria manifatturiera britannica e il nascente governo americano scoraggiava deliberatamente i concorrenti stranieri.

L’approccio anglo-americano presuppone che la misura ultima di una società sia il suo livello di consumo. Nel lungo periodo, sosteneva List, il benessere di una società e la sua ricchezza complessiva non sono determinati da ciò che la società può acquistare, ma da ciò che può produrre (cioè il valore proviene dalla reale e autosufficiente economia). La scuola tedesca sosteneva che enfatizzare il consumo avrebbe finito per diventare autodistruttivo. Avrebbe allontanato il sistema dalla creazione di ricchezza e, in ultima analisi, avrebbe reso impossibile consumare tanto o dare lavoro a tanti.

List era preveggente. Aveva ragione. Questo è adesso il difetto così chiaramente esposto nel modello anglosassone. Un difetto aggravato dalla successiva e massiccia finanziarizzazione che ha portato ad una struttura dominata da una super-sfera effimera e derivata che ha svuotato l’Occidente della sua economia reale creatrice di ricchezza, trasferendone i resti e le linee di approvvigionamento “all’estero”. La fiducia in se stessi si è erosa e la base di creazione della ricchezza, in via di restringimento, sostiene una percentuale sempre minore di popolazione con un lavoro adeguatamente retribuito.

Non è più “adatta allo scopo” ed è in crisi. Questo è ampiamente compreso dai vertici del sistema. Riconoscerlo, tuttavia, sembrerebbe andare contro gli ultimi due secoli di economia, raccontati come una lunga progressione verso la razionalità e il buon senso anglosassone. È alla base della “storia” anglosassone.

Tuttavia, la crisi finanziaria potrebbe stravolgere completamente questa storia.

Come mai? L’ordine liberale poggia su tre pilastri, tre pilastri interconnessi e co-costitutivi: le “leggi” di Newton sono state proiettate per conferire al modello economico anglosassone la (dubbia) pretesa di essere fondato su leggi empiriche, come se si trattasse di fisica. Rousseau, Locke e i loro seguaci elevarono l’individualismo a principio politico e da Smith derivò il nucleo logico del sistema angloamericano: se ogni individuo fa ciò che è meglio per sé, il risultato sarà quello migliore per la nazione nel suo complesso.

L’aspetto più importante di questi pilastri è la loro equivalenza morale e la loro interconnessione. Se si elimina un pilastro ritenuto non valido, l’intero edificio noto come “valori europei” viene meno. Solo se è legato insieme ha una sua coerenza.

E il timore non dichiarato di queste élite occidentali è che durante questo lungo periodo di supremazia anglosassone… ci sia sempre stata una scuola di pensiero alternativa alla loro. List non si preoccupava della moralità del consumo. Era invece interessato al benessere sia strategico che materiale. In termini strategici, le nazioni finivano per essere dipendenti o sovrane in base alla loro capacità di autoprodursi.

La settimana scorsa, Putin ha detto a Scholtz e Macron che le crisi (compresa la scarsità di cibo) che stanno affrontando derivano dalle loro errate strutture politiche ed economiche. Putin avrebbe potuto citare l’amorfismo di List:

L’albero che porta il frutto ha un valore maggiore del frutto stesso… La prosperità di una nazione non è… maggiore nella proporzione in cui ha accumulato più ricchezza (cioè valori di scambio), ma nella proporzione in cui ha sviluppato maggiormente i suoi poteri di produzione.

Probabilmente a Scholtz e Macron il messaggio non è piaciuto affatto. Vedono strappar via il fulcro dall’egemonia neoliberale occidentale.

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Articolo di Alastair Crooke pubblicato su Strategic Culture Foundation il 6 giugno 2022
Traduzione in italiano di Confab per SakerItalia

[le note in questo formato sono del traduttore]