La NATO dopo Madrid – Quando la NATO guardava (davvero) all’Africa
da ANALISI DIFESA (Maurizio Boni)
Gli esiti del Vertice NATO di Madrid erano largamente prevedibili e le decisioni assunte in quel contesto, sia che si tratti del testo del nuovo concetto strategico, sia della formalizzazione di alcune iniziative già anticipate dal Segretario Generale Stoltenberg in diverse occasioni pubbliche, come la prossima estensione delle garanzie del Trattato di Washington a Svezia e Finlandia, non ci lasciano certamente stupiti.
D’altronde, la piattaforma delle linee evolutive dell’Alleanza era già stata impostata da anni sotto la spinta del consolidato confronto strategico con la Russia, di quello nascente con la Cina, e di una visione di una NATO sempre più politica e globale.
Ho già avuto modo di descrivere e commentare le caratteristiche di questa tendenza evolutiva sulle pagine di Analisi Difesa più di un anno e mezzo fa, oggi pienamente confermato.
La guerra in Ucraina ha accelerato l’adozione di misure, soprattutto militari, senza precedenti per rafforzare la difesa dell’Europa che dovrebbe essere basata, a detta di Stoltenberg, soprattutto su un incremento significativo della presenza militare statunitense sui territori di alcuni stati membri (soprattutto la Polonia) e in generale di tuti gli alleati sul fianco orientale, e sull’incremento della NATO Response Force (NRF) che dovrebbe passare dall’attuale struttura a 40.000 a quella che prevede ben 300.000 soldati.
Ammesso che i paesi dell’Alleanza possano reperire tutte queste risorse umane da dedicare alla funzione di difesa e deterrenza a est i costi, in termini finanziari, di questa iniziativa sarebbero enormi perché addestrare, schierare e mantenere in linea una forza d’intervento rapido di questa portata sarebbe incredibilmente oneroso. D’altronde lo è già anche nella versione attuale, dal momento che i costi di gestione di questo strumento operativo ricadono totalmente sulle spalle degli stati membri che forniscono gli assetti e la leadership di comando e i turni di rotazione delle NRF vengono sostenuti con grande fatica dai paesi che se ne fanno carico.
In questa nuova impresa e stante l’attuale contesto normativo, la NATO non metterebbe un euro a meno che non vengano rivisti i meccanismi di finanziamento delle missioni e i principi che regolano il “common funding” cioè le voci di spesa imputabili alle casse di Bruxelles.
In tale contesto, l’Italia, che è il quinto contributore dell’Alleanza in termini finanziari, dovrebbe sostenere le iniziative della nuova difesa europea, e probabilmente la proiezione della NATO nel Pacifico, sia alimentando la “cassa comune” dalla quale tutti possono attingere, sia tramite le proprie voci di spesa nazionali.
È auspicabile che rimanga qualche briciola di risorse per rinforzare anche le capacità di risposta alleate anche a latitudini più prossime ai nostri diretti interessi nazionali.
Il Fianco Sud
Infatti, una delle costanti del processo evolutivo della NATO è la marginalizzazione del ruolo dell’Alleanza nella prevenzione e gestione delle crisi spendibile prevalentemente nel Fianco Sud, notoriamente negletto per la difficoltà manifesta dei paesi che insistono su questo quadrante geopolitico di realizzare una “massa critica” politico militare per affrontare concretamente le sfide molto ben analizzate e descritte nel testo approvato a Madrid e dalle dichiarazioni di Stoltenberg.
Nel nuovo concetto strategico, come d’altronde in tutte le dichiarazioni dei summit ai vari livelli che accompagnano la vita di questa organizzazione, non esiste alcuna “vision” relativa alla direzione strategica meridionale (accomunata peraltro con il Medio Oriente).
In parole povere, appare evidente che in nessuna fase della redazione del testo, che non è certo iniziata da poco tempo dal momento che è da quasi quattro anni che il tema del nuovo concetto strategico viene discusso nell’ambito della NATO, i paesi del fianco sud, Italia in prima linea, non hanno saputo (potuto? voluto? ritenuto poco opportuno?) fare fronte comune per bilanciare l’approccio strategico dell’Alleanza, neanche con un paragrafo che evidenzi la necessità di tenere alta la guardia anche nella regione del Mediterraneo.
I russi in Libia, a pochi chilometri da casa nostra, sono forse differenti da quelli che combattono in Ucraina? Le risorse che la NATO dedica al MENA – Middle East and North Africa sono minime.
L’Hub for the South, con un mero ruolo di regional understanding, ricavato nell’ambito del Joint Force Command Naples di Lago Patria (NA) non è dimensionato per gestire l’evoluzione delle minacce alla sicurezza dei paesi dell’Alleanza provenienti da sud, specialmente alla luce dell’atteggiamento sempre più aggressivo della Russia nel continente africano che sta conquistando spazi lasciati dai paesi europei in ritirata, in primis la Francia.
JFC Lisbona: uno sguardo al (recente) passato
Eppure, nel passato non è sempre stato così perché la NATO disponeva di un comando di livello paritetico a quelli Olandese di Brunnsum (Joint Force Command Brunnsum) e di Napoli, orientato verso l’Africa, in particolare quella sub-sahariana.
Si trattava del Joint Force Command Lisbon, comando in terra portoghese caratterizzato da un profilo di missione di primo piano. La suddivisione dei compiti tra i tre comandi vedeva l’organizzazione olandese gestire le operazioni in Afganistan, quella italiana la sicurezza dei Balcani e il Nord Africa, mentre Lisbona il supporto all’Unione Africana (UA).
Le origini dell’impegno della Nato in Africa risalgono al giugno del 2005 quando, a seguito dell’acuirsi della crisi umanitaria nella regione del Darfur, l’Alleanza Atlantica accolse la richiesta dell’Unione Africana di supportare la propria missione di peacekeeping in Sudan (African Union Mission in Sudan – AMIS).
In tale contesto, fu inviato personale militare in Etiopia presso il Quartier Generale dell’UA in Addis Abeba, e in Sudan per coordinare le attività di trasporto aereo per la rotazione dei contingenti dell’Unione Africana (UA) operanti nella regione e per fornire assistenza nel campo dello staff capacity building.
La prima fase del programma di assistenza fu stata gestita a livello strategico dal quartier Generale delle Forze Alleate in Europa – SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers in Europe), ma nell’aprile del 2006 la responsabilità fu ceduta al comando portoghese che divenne, di fatto, il principale interlocutore della NATO con l’UA.
A seguito della scadenza del mandato di AMIS (31 dicembre 2007), la NATO accolse la nuova richiesta dell’UA di supportare la neocostituita missione dell’Unione Africana in Somalia (African Union Mission in Somalia – AMISOM), operante in Mogadiscio. Anche in questo caso, il personale di Lisbona operò nel campo del coordinamento del trasporto strategico e della pianificazione operativa con proprio personale in Addis Abeba, ma la portata del contributo della NATO fu ampliata a seguito della decisione del Consiglio Nord Atlantico di rafforzare le relazioni tra l’Alleanza e l’Unione Africana.
Tale rafforzamento era basato sul principio guida di fornire assistenza nei settori ritenuti di interesse dall‘UA e a seguito di specifica richiesta da parte dell’organizzazione africana ed evitando qualunque sorta di offerta a priori. In tale contesto, vennero sviluppate iniziative concordate con l’UA per lo sviluppo delle capacità operative dell’African Stand By Force, l’equivalente africano delle NRF, e Ufficiali di staff dell’UA frequentarono corsi di formazione presso la Scuola Nato di Oberammeragu (Germania).
Vennero realizzate anche importanti sinergie con AFRICOM, il Combatant Command statunitense Istituito nel 2007 per permettere a Washington di rispondere all’espansionismo cinese già in pieno sviluppo in quegli anni.
L’esperienza che il personale di Lisbona stava maturando nella gestione delle problematiche africane venne messa a frutto anche in un altro importantissimo contesto in pieno sviluppo nell’ambito della NATO, quello dell’approntamento delle NRF, il cui concetto operativo era stato da poco approvato dall’Alleanza Atlantica.
Nonostante fosse previsto che il comando di tali forze fosse esercitato dai tre Joint Force Command a rotazione semestrale, il comando iberico fu designato quale comando NRF per tre anni e divenne in breve tempo il riferimento assoluto di Bruxelles non solo per gli aspetti operativi, ma anche per la sperimentazione della dottrina d’impiego di questa nuova realtà.
In tale contesto, fu possibile confrontarsi con tutti i possibili scenari di gestione delle crisi in territorio africano perché, esclusi Afghanistan e Kossovo, quella era la ragion d’essere della NATO. La “ciliegina sulla torta”, per così dire, fu rappresentata dalla designazione di Lisbona quale comando responsabile della pianificazione e della condotta dell’operazione della NATO Ocean Shield per la lotta contro la pirateria nel Corno d’Africa, lanciata nell’agosto del 2009.
Qui si andò ben oltre le operazioni di scorta, deterrenza e interdizione, poiché ci si occupò anche dell’integrazione e armonizzazione della missione NATO con quelle dell’Unione Europea e delle marine che agivano indipendentemente, dell’interazione con la comunità marittima mondiale per la definizione e adozione di tecniche di difesa appropriate e, infine, della possibilità di conferire agli attori regionali direttamente interessati le capacità tecniche di contrastare efficacemente la pirateria nelle proprie acque territoriali (Regional Capacity Building).
In cinque anni, il comando di Lisbona aveva maturato un’esperienza vastissima ed unica ed esprimeva una capacità operativa completa e flessibile a tutto campo in grado di spaziare da operazioni complesse di gestione delle crisi con impiego della triade terrestre aerea e navale, ad attività di capacity building e operazioni single service.
Il vertice NATO di Lisbona del 2010 decretò, burocraticamente, la disattivazione dell’HQ iberico compiendo un colossale autogol. Il Portogallo mantenne sul proprio territorio una presenza alleata politicamente pagante poiché nella base del Joint Force Command portoghese subentrò STRIKEFORNATO (Naval Striking and Support Forces NATO), formazione da combattimento composta da undici paesi dell’Alleanza, tra i quali l’Italia. Così, la NATO si privò di una capacità che avrebbe ben presto rimpianto. Tra ‘altro, il comando “africano” impiegava un terzo del personale dei suoi ingombranti omologhi con costi finanziari di gestione molto più contenuti.
Venendo ai giorni nostri, è evidente che i tempi sarebbero maturi per pensare di ricostituire una capacità dello stesso tipo, in grado di gestire partnership e ipotesi d’impiego dell’Alleanza nel ruolo, quello delle gestioni delle crisi, che dovrebbe stare più a cuore all’Italia.
Anzi, per il nostro Paese dovrebbe costituire una priorità assoluta nel contesto dello sviluppo della NATO. Nel frattempo, però, sembra che sia già stata presa la decisione di istituire un nuovo Joint Force Command in Polonia, ulteriore organizzazione multinazionale da alimentare con personale di staff adeguato e da sostenere finanziariamente.
I polacchi si faranno certamente carico della maggior parte delle spese pur di consolidare la loro reputazione di baluardo della difesa dell’Europa occidentale contro la Russia.
D’altronde, hanno fatto veramente di tutto sul piano politico militare per diventarlo. Tutto ciò non farà altro che sbilanciare totalmente il focus dell’Alleanza verso est e, a seguito dell’ingresso di Svezia e Finlandia, verso nord. Per il sud rimarrà ben poco e l’Italia difficilmente sarà in grado di agire con la stessa determinazione della Polonia per diventare un possibile catalizzatore d’interessi per il fianco meridionale, con buona pace dei nostri ricordi dei bei tempi di Lisbona.
FONTE: https://www.analisidifesa.it/2022/07/la-nato-dopo-madrid-quando-la-nato-guardava-davvero-allafrica/
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