La fantastica pseudologia di Jovanotti sulla spiaggia
di GLI ASINI (Alex Giuzio, Giulia Penta)
Il Jova Beach Party di Fermo nel 2019
Oltre alla siccità, alla guerra tra Russia e Ucraina e alla caduta del governo Draghi, il dibattito pubblico della calda estate 2022 è monopolizzato anche da un altro tema, quello del Jova Beach Party e dei contrasti tra gli ambientalisti che denunciano la distruzione delle spiagge e i festaioli che rivendicano il diritto a divertirsi. In mezzo alle polemiche, nei panni della vittima e del colpevole, c’è Lorenzo “Jovanotti” Cherubini, forse la popstar più egocentrica e contraddittoria d’Italia, capace a mettere solo il proprio volto nelle copertine di ogni suo album dimostrando qualche problema di vanità, vestito all’apparenza come un fricchettone quando in realtà è tutto griffato dalla direttrice creativa di Dior che gli ha disegnato abiti su misura (o meglio, costumi per recitare appunto la parte del fricchettone), e organizzatore di grandi festival sulla spiaggia con la scusa di voler rendere felici i suoi fan, quando in fondo lo fa evidentemente per appagare se stesso e le sue tasche: mattatore al centro dell’attenzione per tutta la lunga durata dei suoi “beach party”, Jova canta da solo o in duetto con altri cantanti famosi, fa il dj e si gode i bagni di folla e il tintinnio del denaro per le centinaia di migliaia di biglietti venduti ai fan accorsi per partecipare a questo tour senza eguali nella storia. Il problema non è tuttavia questo, bensì sta nel fatto che nel mettere in piedi questi 19 eventi in 10 spiagge italiane, Jovanotti vuole anche elevarsi a grande paladino dell’ambientalismo, essendo abituato al consenso universale del suo “pensiero positivo” in una sorta di pseudologia fantastica che non ammette il contraddittorio, mentre i suoi eventi in riva al mare stanno attirando fiumi di critiche per l’avere portato decine di migliaia di persone in un ecosistema delicato come la spiaggia, che viene calpestata, erosa e distrutta a suon di musica. Creando peraltro un precedente che apre alla futura possibilità, per altre aziende o popstar, di pretendere di organizzare grandi eventi del genere in ambienti pubblici e naturali che sarebbero in realtà da proteggere.
Menefreghista come Lucignolo
Per comprendere appieno i danni ecologici perpetrati dal Jova Beach Party e soprattutto i meccanismi di negazione tautologica adottati dalla popstar nel rispondere alle critiche ricevute, occorre prima analizzare il fenomeno Jovanotti come brand. Nei suoi anni di carriera, Lorenzo Cherubini col suo linguaggio ha contribuito alla creazione di un ultramondo tutto suo fatto di ballate inneggianti spensieratezza e buoni sentimenti come medicina ideale per far fronte a guerre e nausee sartriane. Nonostante con l’album di svolta L’albero (1997) poteva sembrare di trovarsi di fronte a un individuo più consapevole dopo i viaggi in Africa e in Patagonia affrontati per mettere in discussione il proprio occidentalismo bianco e il vuoto sociale di quegli anni, Jovanotti non riesce a eradicare il seme dello slogan facile di chi il mondo lo vive attraverso una mimesi antropocentrica dove lo spazio naturale non è un mezzo di sublimazione del reale, bensì specchio della sua megalomania («Il mondo mi somiglia nelle sue contraddizioni», cantava in Questa è la mia casa).
Le recenti reazioni del cantante alle critiche contro il Jova Beach Party sono la prova di un’immaturità tutta personale e nemmeno dissimulata: colui che si autodefinisce ambientalista, ora che è entrato nell’occhio del ciclone parla di «livore locale e serie di micro vendette politiche». Ma l’accusare gli altri di rancori sotterranei non è una novità per il nostro Cherubini, che già dai tempi di Serenata rap (1994) lo mette pure in versi («Non ci credere alle cose che ti dicono di me / Sono tutti un po’ invidiosi chissà perché»), fino all’ultimo album Mediterraneo dove inquinamento, auto elettriche e discariche sembrano un espediente più che una reale preoccupazione, lo yin del suo mondo al sole e preambolo al suo sempiterno ritornello “a chi ci vuole male” («Trionfa l’ingiustizia tranne in rare eccezioni / Ti tolgono l’entusiasmo per il gusto di farlo», dal brano Everest). Sembra che il Jova non si renda nemmeno conto della debolezza argomentativa che mette in campo, essendo quella dell’invidia sociale una frase da genitore privo di strumenti che non essendo in grado di compiere un’azione educativa costruttiva al figlio bistrattato dai compagni di classe, si limita a puntare il dito e a mettere la testa sotto la sabbia – in questo caso a disposizione in abbondanza nel suo backstage.
Nonostante si possa dare credito a un Jovanotti sinceramente interessato alla tutela dell’ambiente, viene difficile non scorgere un’ammiccante operazione di personal branding, dal momento che anche dietro ai suoi testi da eterno Peter Pan, più che paladino della giustizia sembra rassomigliare al Lucignolo collodiano che attende la mezzanotte per poter partire per il paese della cuccagna invitando Pinocchio ad andare con lui – nulla di diverso da quanto abbiamo visto fare a Jovanotti con i suoi fan, invitati con insistenza in quasi tutti i suoi brani a fare come fa lui, a vivere la vita infischiandosene delle critiche e delle ombre che abitano l’essere umano per offrirsi alle sue due uniche divinità, l’amore e la festa: «Magari c’ha ragione qualche matto / Che dice che i potenti ci controllano / E tutto un grande buco dalla serratura, fa paura / Ma ora non pensarci e muoviti seguendo il boom / boom / Muoviti seguendo il party» (Il Boom, 2021). Insomma, il suo approccio adolescenziale pieno di certezze si veste di innocente bellezza per incarnare (facendolo meglio di chiunque altro, questo gli va riconosciuto) gli umori delle masse, desiderose di scrollarsi di dosso, fosse anche solo per i cinque minuti di brano, le responsabilità dell’avere opinioni, rifugiandosi nella più semplice cura dei buoni sentimenti. Del resto, di album in album una costante dei suoi brani è quella dell’assenza di consequenzialità, raggiunta asciugando la sintassi fino a farla scomparire a favore di associazioni fonetiche piacevoli e di associazioni tanto allusive quanto leziose («Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa / che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa / passando da Malcolm X attraverso Gandhi e San Patrignano / arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano», iperbole di Penso positivo scritta – come da lui stesso confessato – solo per ragioni di metrica) ma incapaci di aprire a un qualsiasi al di là, compito principe della poesia quando non è asservita alle logiche del qui e ora (non a caso, fra le tante poesie che avrebbe potuto leggere lo scorso febbraio sul palco di Sanremo, Jovanotti ha scelto Bello mondo di Mariangela Gualtieri, poetessa senza dubbio a lui vicina per espedienti retorici). E anche se possiamo credere al Cherubini che vorrebbe davvero «fare qualcosa di buono» (Dobbiamo inventarci qualcosa, 1994), purtroppo la sensazione è quella di assistere alla sua volontà di strafare a ogni costo, in una follia autocelebrativa incapace di rinnovarsi ma in grado di sopravvivere (o cavalcare?) momenti storici molto diversi tra loro, come fa ogni populista che si rispetti. Il linguaggio di Jovanotti non bada alle sfumature bensì al risultato, così come al populismo non corrisponde un’elaborazione teorica organica e sistematica: lo sa bene la nostra popstar, la quale opera una delegittimazione costante sia nei suoi testi che nelle risposte ai suoi nemici dell’ultim’ora.
Aggressivo come Salvini
Per il nostro prepotente ragazzo fortunato, insomma, non c’è argomento che possa convincerlo a cambiare idea, tantomeno se si è messo in testa di organizzare un tour di concerti sulle spiagge italiane contro ogni buonsenso ecologista. Né i nidi sulla sabbia dei piccoli fratini in via di estinzione né la vegetazione delle dune naturali costiere resistono alle sue ruspe di salviniana memoria, chiamate a livellare, sradicare e uccidere per far spazio al grande palco su cui il Jova si fa illuminare e applaudire per sei ore consecutive da una fiumana di persone che a loro volta contribuiscono a propria insaputa a devastare l’ambiente. E quando non basta l’alleanza del WWF, l’associazione ambientalista che si è dimostrata disposta a infangare il suo marchio tra i partner del Jova Beach Party che necessitava di una parvenza green, arrivando persino a prodigarsi per difendere gesti indifendibili con argomenti privi di qualsiasi fondamento scientifico (come accaduto a Fermo, dove la nostra popstar ha fatto abbattere in un solo giorno due anni di lavoro di ripristino del fragile ecosistema dunale), il Cherubini interviene in prima persona, con l’ormai famoso video che dimostra tutta l’arroganza e la falsità del cantante mascherato dietro la retorica ambientalista e terzomondista.
«Il Jova Beach Party non mette in pericolo nessun ecosistema», esordisce la popstar come se la sua fosse una verità assoluta e incontestabile, e le testimonianze scientifiche e fotografiche sulla distruzione della flora e della fauna costiere per colpa dei suoi concerti siano delle falsità. «Noi non devastiamo niente, anzi le spiagge non solo le ripuliamo, ma le portiamo a un livello migliore di come le abbiamo trovate», prosegue Jovanotti, affermando in sostanza che basta raccogliere i rifiuti abbandonati a terra dai suoi fan non solo per rimediare all’impatto ambientale, ma addirittura per “migliorarle” rispetto a prima. Cosa ciò significhi di preciso non serve specificarlo poiché, dice subito dopo, «questo ce lo riconoscono tutte le amministrazioni locali»: ma ciò è persino ovvio, dal momento che le amministrazioni sono state complici dei Jova Beach Party, avendo concesso con facilità tutti i permessi necessari per la realizzazione di un maxi evento sulla spiaggia – ambiente fragile in cui di norma serve affrontare una complessa trafila burocratica anche solo per piantare un bidone dell’immondizia – pensando forse di trarre qualche visibilità turistica tra le migliaia di persone accorse al festival. Ma purtroppo Stato, Regioni e Comuni agiscano solo secondo la radicata logica con cui da sempre si gestiscono le spiagge in Italia, quella cioè dello sfruttamento economico e non della tutela ecologica: non è un’attenuante ma è qualcosa che non fa più stupire, al contrario della partnership del WWF in un evento del genere. Oltre allo scempio ambientale, poi, le amministrazioni hanno consentito la privatizzazione temporanea di uno spazio pubblico per gli interessi economici di una singola popstar; e questa privatizzazione non si è limitata alla spiaggia ma ha invaso persino i centri urbani, avendo richiesto l’istituzione di “zone rosse” e il possesso di “pass” per poter accedere alle intere località durante i giorni dell’evento, come accaduto a Vasto Marina e a Marina di Ravenna. Si tratta di imposizioni che dopo il covid sembrano normali ma che in realtà non lo sono affatto, e proprio su questo si basavano le critiche più puntuali contro il lockdown e il green pass: non per negare l’emergenza sanitaria, bensì per rifiutare l’istituzione di regole eccessive che hanno limitato la libera circolazione degli individui nello spazio pubblico, allora giustificate dalla pandemia, ma che di fatto hanno sfondato le barriere necessarie per poter rendere più accettabili in futuro altre coercizioni del genere per fini politici o economici, come appunto accaduto col Jova Beach Party.
Tornando al video, la nostra bizzosa popstar per completare l’opera la butta infine sugli insulti, tenendo a chiarire che «il Jova Beach Party non è un progetto “greenwash”, questa parola mi fa cagare così come mi fa schifo chi la pronuncia, è un hashtag e sapete dove dovete metterveli gli hashtag…», anzi «è un progetto fatto bene», invitando a «venire a verificare», se non vogliamo passare per «eco-nazisti che sparano fuffa» e che «attraggono su di sé l’attenzione utilizzando la nostra forza». Una chiosa che ricorda molto l’atteggiamento aggressivo-paranoico di Salvini, che difatti – e qui si chiude il cerchio – ha difeso Jovanotti con la stessa povertà di argomenti: il leader leghista dice «non ho seguito il dibattito e non ho avuto tempo per andare al concerto, ma chi dopo due anni di pandemia porta migliaia di ragazzi a divertirsi in maniera sana va solo aiutato», proprio come il cantante nel difendersi dalle accuse sottolinea sempre di non capire nulla di dinamiche ambientali e difesa dei litorali, ma che c’è il WWF a garantire di avere evitato qualsiasi danno ambientale (si chiama “scaricabarile”: l’associazione ambientalista avrà previsto anche questa funzione nel contratto?).
Insomma, sembra proprio che Jovanotti si sia molto offeso per le critiche ricevute, o forse è solo un po’ agitato per essersi reso conto di avere pestato una merda (tanto per attenersi al suo stesso lessico) e di avere generato antipatie nei propri confronti, perdendo consenso e quindi potenziali vendite di dischi. D’altronde c’erano già state avvisaglie alla prima edizione del Jova Beach Party nel 2019, quando il cantante, già provato dall’estate di polemiche per i danni ambientali provocati dal suo tour sulle spiagge, aveva affermato che «il mondo dell’ambientalismo è più inquinato della scarico della fogna di Nuova Delhi», difendendosi dietro il fragile scudo della collaborazione con il WWF che sarebbe bastata a fare da «garanzia di rispetto delle aree» e accusando tutte le altre sigle ambientaliste di essere «piene di veleni, divisioni, inimicizie, improvvisazione, cialtroneria, sgambetti tra associazioni, protagonismo narcisista, tentativi di mettersi in evidenza gettando discredito su tutto e su tutti, diffondendo notizie false». Ma quest’estate lo scandalo del Jova Beach Party ha raggiunto livelli superiori per davvero (e non come quelli delle spiagge dopo il passaggio delle sue orde di fan): la popstar e il suo staff, infatti, si sono ricordati degli errori fatti nel 2019 per correggerli solo al fine di migliorare i propri guadagni, per esempio allestendo le mega-strutture per fare tappe di più giorni sulla stessa spiaggia al fine di ottimizzare l’investimento, anziché limitarsi alle date secche come nella prima edizione del tour; mentre dei danni alla natura, già palesi tre anni fa, non si sono affatto curati. Anche perché l’unico modo possibile per evitare l’impatto ambientale sarebbe stato non organizzare affatto una seconda edizione del Jova Beach Party, dal momento che la spiaggia è un delicato ecosistema in cui ogni minima azione antropica può generare gravi danni alla flora e alla fauna, figuriamoci un concerto con decine di migliaia di persone accalcate. Invece, anche questo altro giro di concerti si è portato dietro una polemica per ogni tappa, con casi come l’abbattimento di un filare di 65 metri di tamerici a Marina di Ravenna, il disturbo arrecato ad animali a rischio di estinzione come l’uccello fratino e la tartaruga caretta che nidificano sulla sabbia vicino ad alcune spiagge che hanno ospitato il concerto, fino alla surreale vicenda di Fermo, dove in seguito alla prima tappa del 2019 era stato avviato un intervento di restauro ambientale della vegetazione dunale distrutta, che è stata però nuovamente sradicata per ottenere sabbia soffice e pura in cui far stanziare i fan (per un accurato resoconto del fatto, qui riassunto per ragioni di brevità ma meritevole di una lettura completa per rendersi conto della sua gravità, si consiglia la ricostruzione del Comitato Tag Costa Mare).
Ma per Jovanotti tutto ciò non conta: nel difendersi dalle tante accuse ricevute, la popstar continua come un disco rotto a spostare l’attenzione e a ridicolizzare i suoi “nemici”, come emerge nella risposta alla lettera aperta del geologo Mario Tozzi che ha osato criticarlo a tutta pagina su La Stampa: in sostanza Cherubini sostiene che le argomentazioni usate contro di lui sono tutte false o infondate e che quelli che lo attaccano sono persone brutte e cattive che non sanno divertirsi. Gli “eco-nazisti” sono di nuovo invitati ad “andare a verificare” durante gli eventi, come se il danno sia un rischio limitato alle poche ore di concerto e non ai mesi e anni successivi, e l’assenza di impatto antropico viene puntualmente ridotta al rivendicare di “rimuovere l’immondizia”, nicchiando sugli impatti più gravi come il disturbo arrecato a specie animali protette, la distruzione della flora costiera operata dalle ruspe e il calpestio di decine di migliaia di persone che a loro insaputa portano via sabbia, alimentando l’erosione dei litorali già in corso. Ma questi argomenti, su cui il naturalista Salvatore Ferraro si è espresso con puntualità confutando tutte le formulazioni contenute nella risposta di Cherubini a Tozzi, sembrano troppo complessi per il facile sentimentalismo jovanottiano, che nella sua replica tira fuori perle come «la spiaggia di Lido di Fermo non è più “naturale” di Hyde Park o del prato di San Siro» e sostiene che «fare di Jova Beach Party un bersaglio ecologista è semplicemente assurdo, perché la verità è proprio che noi siamo la più grande iniziativa che parla di ambiente mai fatta in Italia» (ci risiamo coi problemi di mitomania).
Paraculo come Eni
È purtroppo vero che fare un bilancio preciso dei tanti danni arrecati dai concerti di Jovanotti sulle spiagge è oggi impossibile, perché occorrerebbero riscontri scientifici che non sono disponibili, ma sarebbe stato opportuno (soprattutto nel ruolo del WWF) effettuare dei monitoraggi prima, dopo e durante per dimostrare l’enorme valore ambientale sacrificato per consentire il guadagno di una popstar. Il problema, infatti, è che col Jova Beach Party si è arrivati all’emblema della considerazione delle spiagge di cui si diceva all’inizio, quella di luoghi duttili in cui potersi affollare e divertire, anziché ambienti fragili in cui entrare con delicatezza e rispetto. Tale considerazione rientra purtroppo nel disegno dell’economia estrattivista e distruttiva del sistema capitalista, che oggi è consapevole di quanto occorra “dipingersi di verde” per giustificare qualsiasi iniziativa di guadagno privato sfruttando e distruggendo un bene pubblico e naturale: che si tratti del greenwashing di Eni che estrae idrocarburi dal mare o di Jovanotti che fa un concerto sulla spiaggia, il livello di paraculismo è il medesimo. Già nel 2019 il collettivo Alpinismo Molotov, in un articolo ancora oggi imprescindibile per comprendere il fenomeno Jovanotti, scriveva infatti questo:
“L’evento Jova Beach Party […] è la quintessenza del “presabenismo” à la Jovanotti. […] Una narrazione dove le classi scompaiono, che non contempla il ruolo dei privilegi, ma che trova ampia ricezione in tutti gli strati sociali e quindi viene recepita agevolmente nel discorso pubblico, senza che nessuno la trovi contraddittoria, persino quando la propinano pop-star milionarie. Siamo convinti che solo Jovanotti potesse svolgere, in Italia, una funzione da apripista per mega-show che si svolgono in ambienti naturali dove, benché duramente stressati dall’azione antropica, resistono delicati ecosistemi.
Il punto della questione non è Jovanotti in sé, ma la funzione che Jovanotti svolge. Di tutta l’operazione Jova Beach Party, a risultare più tossico è il fatto che Jovanotti non si accontenti di un mega-show allestito a scopi commerciali, di soddisfare in questo modo la propria ambizione e volontà di potenza […]. No, Jovanotti vuole anche dare a tutto ciò una veste pedagogica, imporre il mega-show come momento “alto” di aggregazione e divertimento per i messaggi che presuntamente veicola: «la tutela del mare e il contrasto all’abbandono dei rifiuti in materiali plastici», come sintetizza Donatella Bianchi, presidente di WWF Italia, in questa intervista. […]
L’attivismo di Jovanotti – eminentemente politico nei suoi effetti, per gli interessi che rappresenta e per l’insistenza con cui viene presentato come filantropico e «apolitico» – agisce nel contesto di un’oramai ineludibile crisi climatica. Crisi che il capitalismo, primo responsabile della condizione attuale, cerca di mettere a valore, anche attraverso la «responsabilizzazione del consumatore», spingendo verso stili di consumo presentati come meno impattanti – ma non meno redditizi. Jovanotti, in sintesi, è funzionale al modello sviluppista e ai tentativi di rigenerazione in chiave green e climate friendly di questo modello, mentre all’orizzonte si profila un’apocalisse ecologica che comporterà, dal punto di vista sociale, enormi sconvolgimenti e conflitti”.
Alcune critiche al Jova Beach Party sono sembrate lo specchio di un “paese di vecchi” che odia i festival e i giovani che si divertono; altre ancora hanno ridotto le accuse a banalità come quella di “esistono luoghi appositi come i palazzetti e gli stadi per fare i concerti con migliaia di persone” o dei “Pink Floyd che lo hanno già fatto a Venezia” (nonostante anche allora andò malissimo), ma l’inaccettabilità di questo tour di concerti sulle spiagge sta altrove, ovvero nella prepotenza della grande azienda/popstar a cui tutto è permesso in nome del potere e del denaro, compresa la distruzione di ambienti fragili come le spiagge, e nella retorica ambientalista dietro cui il capitale si nasconde per giustificarsi e per riuscire a mettere a valore anche la crisi climatica. Nel caso del Jova Beach party, in questa retorica rientrano non solo l’utilizzo di contenitori biodegradabili per le bevande vendute al festival, la partnership col WWF (che nel mondo dell’ambientalismo è ormai diventato credibile quanto un tour che si professa “la più grande iniziativa ecologista d’Italia” e che tra gli sponsor ha Fileni, marchio di carne da allevamenti intensivi) e l’insistenza nel ricordare che le spiagge vengono pulite dopo ogni concerto (e ci mancherebbe!), ma anche l’organizzazione di iniziative collaterali al tour come Ri-Party-Amo, siglato da Jova Beach Party, Intesa Sanpaolo e WWF per raccogliere fondi da destinare alla pulizia di 20 milioni di metri quadri tra spiagge, laghi, fiumi e fondali e per realizzare alcune azioni di ripristino degli habitat, al fine di dimostrare di “avere fatto qualcosa di buono e di concreto per l’ambiente” con una mano per cercare di far dimenticare che l’altra mano lo ha distrutto (questo si chiama davvero greenwashing, anche se a Jovanotti la parola «fa cagare»). Il problema di Ri-Party-Amo non è tanto ciò che fa bensì come lo fa, ovvero con cinque milioni di euro raccolti attraverso il crowdfunding e sull’utilizzo di diecimila volontari, e non sull’investimento di risorse dirette da parte della ricca popstar (che evidentemente non è disposta nemmeno a destinare una quota degli incassi sui biglietti e sulle sponsorizzazioni intascati grazie allo sfruttamento e alla distruzione di un bene pubblico). Ma soprattutto questi interventi di ripristino ambientale, per quanto utili, non potranno compensare i danni fatti altrove da questi concerti sulle spiagge, che sono un ambiente più di altri esposto alle conseguenze del riscaldamento globale di causa antropica. E dire che Jovanotti sembra essere vagamente consapevole di problemi come l’erosione costiera: «Un anno è già passato / La spiaggia si è ristretta ancora un metro / Le mareggiate / Le code di balena», cantava nel 2015 ne L’estate addosso. Ma quelle che la popstar definisce superficialmente come “mareggiate” sono in realtà conseguenze dell’innalzamento del livello del mare che provocherà la scomparsa di circa il 50% dei litorali italiani: per questo, semplicemente, non si doveva permettere a Jovanotti di far invadere le spiagge da migliaia di persone che mentre ballano accelerano la morte dell’ecosistema che li ospita.
FONTE : https://gliasinirivista.org/la-fantastica-pseudologia-di-jovanotti-sulla-spiaggia/
Commenti recenti