Van Gogh. O dell’iconoclastia
di La Fionda (Leandro Cossu)
La lontananza temporale (i roghi dei libri nella Germania nazista) o spaziale (la distruzione scientifica delle rovine di Palmira da parte dell’ISIS) ci inducono a ritenere che la furia iconoclasta e censoria che si può riversare contro un’opera d’arte plastica o letteraria sia un qualcosa di sostanzialmente estraneo alla decadenza della nostra civiltà tardocapitalistica, nel Nuovo e nel Vecchio continente. Ora, è cosa nota che la censura, nel nostro lato del mondo, non ha più la forma tradizionale della corrispondenza esplicita tra un canone del governo (come poteva essere il Codice Hays) sancita dall’arbitrio di qualche burocrate senza nome. Quantomeno, non ne è più la forma principale. Oggi la censura è contemporaneamente autocensura e censura reciproca nei confronti dei nostri pari o dei potenziali fruitori dell’opera, un perverso sistema in cui il singolo è chiamato dal sistema a fare da volonteroso carnefice verso chi ignora aspettative e propositi dell’industria culturale. Ma la differenza più importante rimane comunque la responsabilità politica di farsi carico oggidell’imprimatur reale o ideale nei confronti dell’opera. Mentre prima il moralismo (tutt’oggi presente) arrivava da destra, oggi la censura arriva “da sinistra”, nella peggior valenza che può essere data al “progressismo”, nella figura dell’anima bella. Ciò genera una sgradevole solidarietà antitetico-polare tra due situazioni egualmente esecrabili. Da un lato, dietro il luogo comune del non si può più dire niente possono nascondersi punti di vista reazionari e conservatori nel senso deteriore del termine, che provano a giustificare posizioni difficilmente argomentabili, estendendo in cattiva fede l’accusa all’altro campo di censura, verso cioè parole di intolleranza nei confronti di modi d’essere, appartenenze o scelte di vita che competono la singola esistenza direttamente coinvolta, e nessun’altro. Dall’altro lato, l’estensione indebita è esattamente simmetrica. Ogni pensiero, parola, opera e omissione che non rispetta il canone è paragonato, insindacabilmente, a un atto d’odio, e pertanto l’autore deve essere stigmatizzato in pubblico invitando a boicottarne il lavoro. Le due azioni sono speculari e reciprocamente determinate, quindi sono la stessa cosa. Speculari, ma asimmetriche, poiché il coltello dalla parte del manico è tenuto dalla parte progressista[1]. Ciò non rende giustificabile in alcun modo quello che compie la parte “reazionaria” della diatriba. Ci dice solo che, mentre in quest’ultimo caso esistono degli anticorpi che ci permettono di riconoscere questo tipo di moralismo e denunciarlo senza paura, nel caso della censura “di sinistra”, altrove chiamata cancel culture, ciò è impossibile senza essere automaticamente additato come reazionario. “Non esiste nessuna cancel culture”, dicono loro, non perché neghino il proprio canone morale o lo spirito censorio, ma perché, dal loro punto di vista, questa operazione è neutra e prepolitica, e tematizzarla (potenzialmente pure per confermarla razionalmente) ammettendone la parzialità e la contingenza significa negarne l’oggettività presunta che serve loro per legittimarsi.
I “progressisti” agiscono senza un partito di riferimento, nella forma dello sciame digitale, mossi principalmente dal sentimento di indignazione. Ma chi stabilisce per cosa è giusto indignarsi e cosa no? Rientra qui in gioco una figura di cui mi è già capitato di scrivere: quella dell’attivista. Non importa in questa sede riprendere e integrare la riflessione su cosa sia l’attivismo nell’interregno postideologico dove viviamo. È invece strutturale capire a che titolo l’attivista viene considerato tale e plenipotenziario sul diritto di parola, l’arte e la scienza.
Non basta avere un brevetto di volo per dire di saper volare. Non basta la laurea in filosofia per dirsi filosofo. Non basta scrivere poesie di dubbio gusto per pretendere di essere considerato poeta. In qualche modo lo spirito della corporazione hegeliana è questo: si può essere giudicati solo tra pari. E chi sono i pari nel caso degli attivisti, se ognuno di loro è in qualche modo monade libera? Essi saranno giudicati allora dal loro “pubblico” di riferimento, come degli attori. E chi è il loro pubblico? È la parodia del dubbio di Eutifrone: è sacro perché piace agli Dei o piace agli Dei perché è sacro? Ovvero: è un attivista perché piace allo sciame progressista, o piace allo sciame progressista perché è un attivista? Nessuno dei due casi. Non esistono criteri oggettivi per determinare chi è attivista e chi no. Istituirsi come tale è solo un atto performativo, financo linguistico. È come entrare in una festa da non invitato, ma diventarlo solo perché, assumendo la naturalezza e l’autenticità dei comportamenti, tutti, compreso il festeggiato, iniziano a trattarti come tale.
Censura e iconoclastia sono due azioni complementari. Le opere devono conformarsi a un canone, esplicito o implicito, prepolitico o politico. Queste vanno a costituire una Weltanschauung coerente che, ribaltando il rapporto causale, giustifica le opere esistenti approvate come le uniche possibili nella pretesa oggettività dell’ideologia che invece vanno a istituire. Ciò che non si presta, l’incommensurabile, l’opera obliqua per la sua sovrana indifferenza alla caducità del tempo presente (pur magari partendo da stilemi o situazioni della contemporaneità ma eccedendone) non può essere ignorato, perché esso, a rigore, non dovrebbe nemmeno esistere. Il clinamen deve essere rimosso. L’attivista è il sacerdote dell’oggettività che lui stesso istituisce, e, se il Dio comanda, dovrà in prima persona operare questa rimozione. Interpretando i fatti di venerdì scorso alla National Gallery di Londra nei termini di un sacrificio rituale, tenteremo di capire qual è la religione che soggiace a tutto questo, e a quale dio si voleva immolare la tela di Van Gogh.
L’affaire Van Gogh
Il 14 ottobre 2022, poco dopo le 11 del mattino, due attiviste per il clima, di cui non sono riuscito a risalire ai nomi, appartenenti al gruppo Just stop oil, hanno lanciato della passata di pomodoro Heinz contro la quarta versione, datata 1888, dei Girasoli di Vincent Van Gogh.
È necessario separare in due analisi distinte l’epilogo che si sarebbe potuto consumare (la distruzione dell’opera) dal fatto reale (la sopravvivenza della tela). Interpreteremo il primo caso, l’intenzione originaria, nei termini di un sacrificio rituale, tentando di capire chi sono i sacerdoti e quale il loro credo. Poco importa il fatto che, a quanto pare, a quanto dicono le stesse attiviste, questa non fosse l’intenzione originaria, in quanto il secondo invece verrà descritto come “sacrificio simbolico”, sublimato, che mantiene un rapporto inscindibile con la prima possibilità, dalla quale però si separa diventando altro, grazie ai meccanismi della società dello spettacolo.
La vittima sacrificale prescelta sono quindi i Girasoli, ed effettivamente ha tutte le condizioni necessarie per essere riconosciuto come capro espiatorio eccellente. L’opera d’arte si presenta a noi con l’innocenza e la fragilità di un infante che, pur non partecipando al Male del mondo, non può non farsene carico sulle proprie spalle. Col suo sguardo, ci ricorda che l’esser stata realizzata da Van Gogh è solo una contingenza, poiché, se è vero che è possibile tutto ciò che è accaduto una sola volta, e i Girasoli sono accaduti, allora l’autore è l’umanità intera. E, proprio come un bambino, le è impossibile aspettarsi altro dai presenti se non protezione e assistenza incondizionata, con cui ricambia semplicemente non essendo niente di diverso da ciò che è. Per tutti i pochi secondi disponibili dalle registrazioni del raid fatte a favor di telecamera, l’opera non si muove non perché è un oggetto, ma perché su di essa è come universalmente proiettata l’idea di un’immobilità meramente poetica e contemplativa. Quell’azione, per quanto incomprensibile, avrebbe dovuto semmai essere messa a punto all’interno di un interesse direttamente rivolto all’opera da parte di una volontà buona e provvidenziale. L’ultimo fotogramma è quello della realizzazione dell’orrore a cose fatte, quando oramai è troppo tardi per sottrarsi. Ancora non sappiamo che la tela rimarrà intatta.
La propagazione della merce necessita dell’uniformità, nelle coscienze, dello spazio e del tempo. Ogni attrito deve essere eliso, ogni ostacolo spianato per permettere il percorso diretto ottimale. Il procedere di questa furia trova tuttavia ostacoli di fronte a sé, non solo geografici ma anche, e soprattutto, cognitivi. Questi ultimi possono essere sussunti sotto il concetto di Sacro, da non intendersi nel significato confessionale del termine, ma di un generale senso del Sacro, del non qui, della differenza. La ragione liberale non può tollerare che esista un oggetto in grado di sfuggire alla logica della reificazione, che non sia frutto della produzione industriale, o quantomeno della compravendita come bene di lusso, che non possa essere scambiato con altro da sé o con una copia di sé. Tuttavia, più che a un “miracolo da salutare con commozione”, l’opera d’arte appare come un agnellino bicefalo di Chernobyl. Lo scherzo della natura deve essere abbattuto affinché la naturalità possa essere ripristinata. A questo punto del discorso, non c’è differenza tra l’iconoclastia neoliberale e le altre forme di iconoclastia a cui abbiamo fatto accenno precedentemente (iconoclastia dell’Isis, della Germania nazista etc.) La caratteristica in comune è il rigetto della dimensione storica, che costituisce un freno (katéchon), un’ipoteca morale ed estetica, proprio come il bambino nella favola Il re è nudo, che, a causa della propria innocenza e della propria inadeguatezza, non comprende l’agire sociale né la sua mendacità per accondiscendere il potere politico. La spettacolarizzazione dell’evento, qualora la tela fosse stata distrutta, sarebbe risultato del tutto inutile e accessorio. L’atto iconoclasta si ferma nella sua piena attuazione, poiché solo il Sacro, nella forma dell’Arte, ha, nei fatti, l’autorità di alzarsi e far notare che tutto quello che gli attivisti-sacerdoti propugano, banalmente, non è vero. Ecco quindi il dio al quale hanno offerto in cibo i Girasoli con la passata di pomodoro. Il dio-Mercato. L’unico dio che rifugge ogni rappresentazione, non in virtù di una sorta di teologia apofatica, ma perché, come Proteo, assume le forme di ogni cosa che circola nel suo spazio. Ogni logo, ogni merce, ogni bevanda zuccherata: l’indifferenza del differente. Il dio-Mercato parla loro tramite il verbo della Scienza, da intendersi come l’opposto del metodo scientifico o comunità scientifica. La Scienza parla tramite un flusso magmatico e continuo di oracoli, anche in contraddizione tra loro. Quello che conta è l’ultimo vaticinio in ordine temporale. La Scienza dà ordini: Dio comanda ad Abramo di uccidere il figlio, e poi di interrompersi, e Abramo non sente contraddizione tra i due ordini perché ciò che conta non è il contenuto, bensì il fatto di essere stato comandato da Dio.
L’opera, tuttavia, non è stata distrutta, bensì solo, immaterialmente, sfregiata, in quanto ridotta a merce. A evitare questo primo esito tragico, drammatico, non è stato l’intervento dell’uomo, bensì l’imprevisto nell’imprevisto, impersonificato nella vicenda da un vetro – o cristallo? o forse solo un volgare pezzo di plexiglas? – frapposto già tra la tela e lo sguardo dei visitatori del museo, ora sostituito dallo schizzo di passata del pomodoro. Il vetro ha impedito il crimine massimo: l’immolazione dell’opera d’arte, la sua distruzione definitiva nel nome della ragione liberale, dell’imbruttimento del mondo, della responsabilità individuale e di tutto quanto scritto sopra. Il giubbotto antiproiettile non toglie niente a un tentato omicidio. Eppure, è successo qualcos’altro. L’opera di Van Gogh è diventata in qualche modo merce, nel momento in cui è stata subordinata alla performance in mondo visione. Il fatto che sia stata affermata la possibilità della distruzione del quadro ne ha causato la corruzione, in quanto è stata ribadita la subordinazione della sua anima immateriale alla natura corporea, deperibile, dell’opera presente. È stata ridotta a merce, in quanto la performance in sé necessitava sì di un’opera d’arte, ma di una qualunque opera d’arte. Appunto, l’indifferenza del differente. Dal punto di vista delle attiviste, esse non solo si stavano autoistituendo come tali, e come portavoci dell’indistinto tra dio-Mercato e Genere Umano, ma loro stesse, nella loro performance, erano l’unica opera d’arte lì presente. Come un sacerdote che nel momento dell’elevazione alza lo sguardo al cielo e dice: “Il corpo di Cristo sono io”.
È possibile che la tesi di fondo di questo articolo sia sbagliata. Se però c’è del vero nel considerare la sperimentata messa in scena di una quasi distruzione del quadro di Van Gogh come un sacrificio rituale offerto al dio-Mercato, allora ci saranno nuovi tentativi. Questi tentativi si inflazioneranno, normalizzando questo tipo di interventi e facendoli diventare un brusio di fondo nel dibattito pubblico[2]. Saranno quindi costretti ad alzare sempre di più l’asta della tollerabilità (una associazione ambientalista ha già chiamato all’escalation). E l’obbiettivo, come si è già scritto, non è l’arte o le singole opere, ma il Sacro, ovvero l’insostituibile, ovvero, nel grado più alto, l’incondizionato valore della singola vita umana. «Là dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini», tuonava Heine. «E quindi tra questo scuolabus pieno di bambini e l’Ambiente preferite i primi?» risponderanno loro. È per questo che siamo tutti chiamati a essere, nella nostra simultanea dimensione individuale e comunitaria, il vetro che ha protetto la tela di Van Gogh: non solo per le singole contingenze che possono trovarsi di fronte a noi, ma per la direzione generale del tempo presente.
[1] Si prenda a mo’ di esempio la recente polemica sul colore della pelle dell’attrice protagonista del remake de La sirenetta. La parte “reazionaria” contesterà questa decisione alludendo all’essenziale arianità della protagonista del cartone animato originale, attribuendo un valore morale al colore della pelle. La parte “progressista”, pur professando indifferenza nei confronti di questa scelta, la esalterà e la difenderà attribuendo anch’essa un valore morale al colore della pelle. La persona razionale deve rigettare il dibattito posto in questi termini demenziali e chiedersi: perché l’Industria Culturale ha optato per una simile scelta narrativamente inutile quanto mediaticamente polarizzante? Cosa restituisce ideologicamente? (Niente che aiuti la causa anticolonialista degli stati dell’Africa, evidentemente, ma una riscrittura della storia che retroproietti nel passato una bella luce che copra le nefandezze di secoli di colonialismo e imperialismo euroatlantico. Oppure – e questa è la lettura di Costanzo Preve – serve per ricordare che nel grande girotondo del tardocapitalismo occidentale, non esiste differenza agli occhi del Capitale in grado di escludere dalla parte ora dello sfruttato, o dalla parte del potenziale sfruttatore).
[2] Questo articolo è stato scritto prima del nuovo intervento di Last generation contro il quadro di Monet nel museo di Potsdam del 23 ottobre
Fonte: https://www.lafionda.org/2022/10/25/van-gogh-o-delliconoclastia/
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