Il declino americano
Le cause del declino degli Stati Uniti, come potenza egemone, sono ovviamente svariate, e si sono prodotte e manifestate già nella fase in cui l’impero, con il crollo dell’URSS, sembrava affermarsi definitivamente. In un certo senso, si potrebbe dire che la stagione d’oro dell’imperialismo americano è anche quella in cui hanno cominciato a germinare i semi del suo declino.
Di ciò comunque le classi dirigenti statunitensi si sono rese conto rapidamente, e seppure cercano di continuare a proiettare un’immagine imperiale vincente, hanno da tempo cominciato a riflettere sul come fronteggiare questa situazione, prima che divenga conclamata ed irreparabile.
Nei think tank USA (1) si è quindi avviata, ormai da decenni, una riflessione che punta ad identificare non tanto le cause del declino, quanto le minacce alla potenza imperiale, e le strategie per rintuzzarle e sconfiggerle. Nel linguaggio politico americano, è abbastanza evidente che non c’è alcuna remora nell’indicare – appunto – come una minaccia chiunque sviluppi una potenza economica e/o militare in grado di sfidare l’impero, indipendentemente da quale sia la postura assunta nei confronti degli Stati Uniti; per i quali costituisce una minaccia già di per sé, per il semplice fatto di esistere.
Fondamentalmente, da oltre vent’anni il pensiero strategico americano ha individuato nella Russia e nella Cina le vere minacce al permanere del proprio dominio. Benché in effetti non ci sia più di mezzo una vera questione ideologica, essendo ormai entrambe sostanzialmente convertite al modello dell’economia capitalista, i due grandi paesi continentali sono anzi percepiti come minacciosi oggi assai più che ieri. Proprio l’adesione al capitalismo (sia pure non marginalmente diversificato, rispetto a quello liberista americano), aggiunge infatti un plus ad un piano di conflittualità geopolitica, prefigurando una guerra civile globale tra potenze simili, e perciò competitive.
Nell’analisi strategica americana, ci sono essenzialmente quattro paesi ostili, di cui però solo due percepiti come minacce vere e proprie. La Corea del Nord, ed ancor più l’Iran, sono visti come stati canaglia, ovvero riottosi ad accettare il dominio degli Stati Uniti, anche se considerati più un elemento di disturbo che di pericolo. Mentre Russia e Cina rientrano a pieno titolo nella categoria delle minacce. La Cina, col suo potenziale economico, industriale e tecnologico, è individuata come il competitor principale, quello in grado di mettere in discussione il dominio imperiale; la Russia, pur considerata come una potenza regionale (e quindi non in grado di competere sul piano globale), è invece percepita come una minaccia più che altro per la propria irriducibilità, e per la capacità di saldarsi potenzialmente al resto d’Europa – oltre che, ovviamente, per il suo potenziale militare.
In questo quadro, per fronteggiare le minacce la strategia geopolitica statunitense si è posta alcuni obiettivi principali: separare nettamente e stabilmente l’Europa dalla Russia, depotenziare economicamente e militarmente quest’ultima, affrontare separatamente Russia e Cina, e colpire questa dopo aver conseguito gli altri obiettivi. Naturalmente tutti questi obiettivi sono inquadrati in una prospettiva bellica, ma che va intesa nel senso di guerra senza limiti (2), o guerra ibrida, in cui il piano militare vero e proprio è solo uno dei tanti utilizzati.
Tutta la politica espansiva della NATO verso l’est europeo, la sua sempre più marcata trasformazione da alleanza difensiva a strumento offensivo, nonché la sua dilatazione geografica verso l’Indo Pacifico, sono elementi che rispondono precisamente a questo disegno.
E la guerra in Ucraina, lungamente preparata, ha esattamente lo scopo di raggiungere i primi due obiettivi, e costituisce di fatto il passo iniziale della controffensiva americana. Con essa si apre ufficialmente il quarto grande conflitto destinato a segnare la storia degli USA (3), è che possiamo correttamente definire come terza guerra mondiale.
La lezione ucraina
Il conflitto combattuto sul suolo ucraino, cominciato nel 2014 e deflagrato nel 2022, sta però mostrando una realtà diversa da quella immaginata, e soprattutto sta dimostrando la difficoltà di conseguire gli obiettivi. Se da un lato ha funzionato anche meglio del previsto nella irreggimentazione dell’Europa – che si è fatta rapidamente e supinamente rimettere in riga – e nella sua separazione dalla Russia, il depotenziamento di questa si è rivelato assai complicato. Si può anzi tranquillamente affermare che è fallito, non essendo riuscito né sul piano economico, né su quello politico-diplomatico, né tanto meno su quello militare.
Ed è soprattutto su questo piano, che la lezione è più stringente.
Al netto di tutto, infatti, la proxy war messa in atto dalla NATO (e più ampiamente dall’occidente collettivo) sta dimostrando una cosa assai semplice: allo stato attuale delle cose, la NATO non è in grado di affrontare uno scontro diretto con la Russia. Non lo è sul piano della capacità di mettere in campo uomini e mezzi, non lo è sotto il profilo della produzione industriale bellica, non lo è soprattutto nella capacità di reggere il consumo di manpower.
La prospettiva di guerra che Washington si è data quindi, alla luce del conflitto in Ucraina, dice che l’intero sistema (militare, industriale, logistico) deve essere preventivamente tarato su un livello assai superiore a quello attuale – e prima di ciò, deve rimettersi in pari rispetto ai costi della guerra in corso, sia in termini economici che di esaurimento degli arsenali.
Sicuramente anche la Russia avrà a sua volta bisogno di un tempo per recuperare un livello prebellico, ma questo tempo sarà sicuramente inferiore a quello dell’occidente, perché era assai meglio attrezzata. Ciò significa che la NATO necessiterà di alcuni anni, prima di essere nuovamente in grado di affrontare uno sforzo simile, ma con maggiori possibilità di vittoria.
Al tempo stesso, gli Stati Uniti si trovano nella necessità di non poter allentare la presa, proprio per evitare che i nemici abbiano a loro volta il tempo per attrezzarsi ancor meglio allo scontro.
La prossima tappa di avvicinamento al terzo conflitto mondiale, quindi, sarà con ogni probabilità un’altra proxy war. Che, rispondendo al disegno strategico di dividere i nemici per colpirli separatamente, avrà presumibilmente come obiettivo nuovamente la Russia – oppure uno dei suoi alleati.
Ma ovviamente ciò non è semplice, perché la possibilità di creare conflitti significativi alle frontiere di Mosca non sono tante. Da questo punto di vista, la scelta dell’Ucraina non è stata affatto casuale. Su questa dimensione di scala, infatti, ci sono soltanto il Kazakhistan e la Finlandia – ma quest’ultima, oltre ad avere una popolazione limitata, serve che entri nella NATO per completare l’accerchiamento nel mar Baltico e proiettare l’alleanza nel mare di Barents. Non resterebbero quindi che la Georgia o l’Azerbaijan. Che però non hanno il potenziale dell’Ucraina, e mancano dell’enorme retrovia su cui può contare Kyev, avendo alle spalle l’Europa. Questa debolezza, tra l’altro, spiega anche perché gli USA siano così irritati dall’autonomia politica della Turchia, che di fatto li priva di un alleato fondamentale in uno scacchiere strategico.
La necessità della guerra
Dal punto di vista americano, la guerra guerreggiata è una necessità imprescindibile. Non solo perché è parte del bagaglio ideologico e culturale del paese, ma perché – essendo la forza militare la sola vera carta vincente di cui disponga – è necessario utilizzarla per impedire l’ascesa dei competitor, e deve essere fatto prima che questi diventino tali anche su questo piano. Questo pone gli Stati Uniti in una condizione di difficoltà, in quanto non è assolutamente in grado, anche mobilitando tutti gli alleati, di affrontare contemporaneamente i suoi avversari. E dovendo affrontarli separatamente, ha necessariamente bisogno di più tempo; che però è esattamente il fattore di cui dispongono più limitatamente. Si trovano quindi nella condizione di dovere, da un lato, stringere i tempi per anticipare la crescita militare cinese, e dall’altro di dover guadagnare tempo, per aver modo di tenere divise Russia e Cina e sistemarle separatamente, una dopo l’altra.
Questa condizione spiega, ad esempio, l’oscillare tra atteggiamenti apertamente provocatori (visita della Pelosi a Taiwan, la NATO del Pacifico, etc) ed altri distensivi (Biden con Xi Jinping al G20 di Bali, viaggio di Blinken in Cina nel 2023); si tratta di un tira e molla funzionale a mantenere una certa elasticità temporale.
In termini strategici, gli Stati Uniti devono fare i conti con altri due grandi problemi.
La condizione di potenza thalassocratica, ovvero dominatrice dei mari, ma soprattutto di blocco continentale insulare (4), è un grande atout sotto il profilo difensivo, poiché rende estremamente difficile una invasione nemica; ma, al tempo stesso, rende estremamente complicata una azione offensiva contro i suoi nemici, in particolare la Cina. Una invasione di quest’ultima è palesemente fuori da qualsiasi portata, in quanto dovrebbe essere messa in atto via mare. L’unica possibilità di utilizzare strategicamente un (eventuale) dominio sul mare (5), risiede soprattutto nel tradizionale ricorso al blocco navale. Ma non è assolutamente per caso che, ormai da anni, sia la Cina (con la nuova via della seta) che Russia e Iran (con il corridoio nord-sud), stiano realizzando rotte commerciali in grado non solo di essere più veloci e competitive di quelle marittime tradizionali, ma anche di essere conseguentemente al riparo da minacce navali.
L’altro grande problema è costituito dall’impossibilità di fare ricorso alle armi nucleari.
Non si tratta ovviamente di una impossibilità tecnica, né politica, ma bensì di una impossibilità aritmetica. Scopo di qualsiasi guerra è l’annientamento del nemico, almeno nella misura sufficiente ad indurlo alla resa, ma ovviamente ciò non può essere perseguito al costo del proprio, reciproco annientamento. Ne consegue che l’uso di armi nucleari è concretamente possibile solo nel caso in cui si abbia la certezza della impossibilità, da parte del nemico, di rispondere adeguatamente. In buona sostanza, una potenza nucleare (ovviamente questo non vale solo per gli USA) si troverebbe nella condizione di fare ricorso a tali armamenti solo in tre casi: il nemico non dispone di armi nucleari, vi è una tale minaccia alla sicurezza ed alla integrità del paese da non lasciare altra possibilità di difesa, vi sia un tale vantaggio qualitativo e quantitativo da rendere impossibile o insignificante la risposta nucleare del nemico. A questi criteri si attiene sostanzialmente la dottrina strategica di tutte le potenze nucleari.
Quale guerra è possibile?
In linea di massima, quindi, quella che gli Stati Uniti dovranno affrontare sarà necessariamente una dura guerra convenzionale, portata avanti per tappe successive. Un nemico dopo l’altro.
E se, sotto il profilo geopolitico, oltre che economico e militare, la Cina deve forzatamente essere l’ultima tappa, va da sé che smantellare la Russia deve essere una delle prime. Ma, come abbiamo visto, la guerra in Ucraina dimostra che l’attacco frontale di secondo grado (la proxy war) non è in grado di conseguire risultati apprezzabili, ed un attacco diretto, da parte della NATO, non è al momento attuabile con sufficienti opportunità di vittoria. Ne consegue che la prossima tappa della strategia di guerra americana sarà probabilmente un attacco indiretto. Fatta salva la possibilità di cogliere eventuali opportunità che dovessero offrirsi, gli USA attaccheranno altrove.
Per come stanno ad oggi le cose, l’obiettivo più probabile è l’Iran. Gli elementi che portano a questa conclusione sono numerosi, per quanto – ovviamente – indiziari. Innanzi tutto, l’Iran è un nemico storico degli USA, e molto più che la Russia è percepito in occidente come un paese estraneo, ostile. Il fatto che sia considerato una teocrazia islamica è in questo un fattore determinante.
In questa fase, ed in misura crescente, l’Iran si configura come un alleato strategico della Russia, con cui coopera sia sul piano economico che militare.
Oltre ad avere una posizione strategica importantissima, l’Iran è il secondo paese al mondo per riserve petrolifere possedute.
Un eventuale caduta del regime iraniano aprirebbe la strada ad una eguale sorte per Hezbollah in LIbano, e soprattutto per il regime di Assad in Siria – altro alleato di Mosca, che nel paese ha la sua unica base navale nel Mediterraneo, a Tartus – a sua volta produttore di petrolio.
Gli USA e la NATO dispongono nell’area di basi, di punti d’appoggio e paesi amici. In una decina di paesi vicini ci sono basi americane, nel mare Arabico incrociano le navi della 5th flotta, a due passi c’è l’irriducibile nemico Israele.
Un conflitto nell’area avrebbe il vantaggio di riavvicinare Washington e Ryad, tradizionalmente ostile a Teheran – con cui i rapporti si stanno ultimamente inasprendo nuovamente.
Un regime change in Iran renderebbe pienamente sostituibile la Turchia, come pilastro regionale dell’impero.
L’Iran non dispone (ancora) di armi nucleari – Israele si.
L’abbattimento dell’ostile regime iraniano interromperebbe sia la linea del corridoio nord-sud che la nuova via della seta.
Il paese è attualmente oggetto di una fase di pre-riscaldamento; dopo il fallimento dell’ennesimo tentativo di rivoluzione colorata, siamo adesso nella fase del terrorismo. Per il momento ad agire sono prevalentemente commando dell’Isis (riconducibili quindi all’Arabia Saudita), ma quanto prima arriveranno i curdi (il Kurdistan iracheno è una solida base americana), che già contrabbandano armi oltre confine, mentre sono in stand-by i Mujaheddin el-Kalk, di stanza in Albania (paese NATO).
Ovviamente, il pericolo di una mossa del genere è che il conflitto deflagri coinvolgendo l’intera regione, con conseguenze imprevedibili, così come che la Russia decida a sua volta di sostenere attivamente l’alleato, come ha già fatto in Siria.
Ma gli USA hanno già condotto una proxy war contro l’Iran, utilizzando l’Iraq di Saddam, e riuscendo a mantenere il conflitto in un ambito accettabile. Anche se ovviamente la situazione è oggi profondamente diversa da quella di quarant’anni fa. Lo è però anche per gli Stati Uniti, che hanno la necessità di agire.
È assai probabile che, comunque, ciò non avvenga prima di una qualche conclusione del conflitto in Ucraina, perché al momento due proxy war sarebbero insostenibili sotto ogni punto di vista.
1 – Quella dei think tank è una realtà tipicamente americana, e pressoché sconosciuta in Europa, che ha invece un grande valore (ed un grande peso) nel definire le strategie politiche, economiche e militari del paese, con una prospettiva che non sia quella a corto raggio di una legislatura. È proprio grazie al lavoro dei think tank, che diventa possibile collocare le scelte politiche contingenti nel quadro di prospettive di più ampio respiro.
2 – Sul questo concetto, cfr. Qiao Liang, Wang Xiangsui, “Guerra senza limiti”, ed. Le Guerre
3 – La storia degli Stati Uniti è segnata da tre grandi conflitti: con la prima guerra mondiale, si affacciano sul mondo come grande potenza in ascesa, con la seconda guerra mondiale si affermano come potenza imperiale globale, con la vittoria nella guerra fredda si pongono come unica potenza egemone.
4 – Il Nord America è di fatto come una grande isola continentale, come l’Australia, circondato com’è dall’oceano Atlantico ad est e da quello Pacifico ad ovest.
5 – Va rilevato, al riguardo, come Russia Cina ed Iran abbiano avviato non solo manovre congiunte, ma veri e propri pattugliamenti navali operati da squadre navali miste. E la Cina sta lavorando intensamente ad ampliare la propria flotta
FONTE:https://giubberosse.news/2022/11/18/la-guerra-prossima-ventura/
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