La finanziaria e l’autunno del nostro scontento
di TELEBORSA (Fabrizio Pezzani)
L’autunno nella storia dell’uomo è il periodo della vendemmia, delle castagne, del mettere fieno in cascina per prepararsi ai prossimi rigori dell’inverno; da decenni è il tempo delle finanziarie e dal 2001 del patto di stabilità, un rituale che si ripete sempre allo stesso modo, cambiano i protagonisti ma il “melodramma” è sempre uguale, ma sistematicamente peggiorativo. Sembra una “pièce” sempre uguale, ma che negli anni ha perso progressivamente smalto per diventare una noiosa replica di un teatrino sempre uguale a sé stesso.
Nel tempo gli arredi si sono consunti, la polvere e le ragnatele non si nascondono più ed i commedianti continuano a ripetere le stesse parti, ma ogni tanto si dimenticano le battute, entrano o escono prima del dovuto. Il loro cerone è sempre più spesso per nascondere le crepe e la tintura dei capelli sempre più anacronistica con il pallore di volti diventati inespressivi; l’attor giovane cerca di dare il tempo alla compagnia con battute ed interventi che non sembrano essere capiti dagli altri attori. Non si può dimenticare il coro dei cantori che seguono uniti lo spettacolo che accompagnano e di cui vivono più propensi a stornellate romane che al coro del Nabucco troppo impegnativo da tutti i punti di vista anche se la patria sembra rimanere sempre più lontana.
Il vero dramma è che questa stessa manovra sembra un gioco di luci, di ombre, di specchi ingannevoli dove le affermazioni sono sistematicamente contraddette dai fatti e dai numeri. Si comincia così un estenuante confronto tra il dire ed il non dire, tra l’apparire ed il non apparire dove l’unica stabilità è l’assoluta instabilità e l’unica certezza è l’incertezza di norme e di numeri che sembrano scritti su un arenile continuamente battuto dalle onde con l’unico risultato di accentuare i conflitti, esasperare le persone e rinviare i problemi attuando un mortale rituale che si ripete da decenni.
Gli spettatori, sempre più annoiati e preoccupati, cominciano a domandarsi: ma quando si decidono a cambiare tutto, non si rendono conto del peggioramento progressivo? Evidentemente no ed i risultati sono lì implacabili a denunciare che la rotta del transatlantico rischia di scontrarsi pericolosamente con l’iceberg della Storia che puntuale presenta sempre il conto all'”Homo sapiens” come ci siamo supponentemente definiti. Vediamo i fatti.
Nel 2001 il debito pubblico era 1350 mld/euro ed ora è prossimo ai 2500 mld/euro nonostante in questo periodo si sia potuto godere di bassi interessi sul debito; se si dovesse calcolare un interesse figurativo desunto dalla media degli ultimi 20 anni il nostro debito risulterebbe più che raddoppiato nonostante il patto di stabilità ed i controlli della UE sui bilanci.
Nonostante il “rigore” dei controlli il debito è esploso per la parte corrente non per gli investimenti, ma funzionale a mantenere il consenso ed a fare vivere nell’illusione che una giornata limpida di sole ed alcionica potesse non avere mai fine. Abbiamo distribuito ricchezza senza averla prodotta e questo ha creato aspettative, modelli di vita e di consumo che non possono più essere sostenibili.
Il patto di stabilità fissato all’indomani dell’entrata nell’euro di fatto è dunque un termine “ossimorico” perché, evidentemente è tutto fuorché stabile.
Il patto concepito da una cultura centrale antistorica e ossificata è asimmetrico al paese in quanto il modello centrale di controllo si contrappone alla diversità storica dei territori. Il controllo posto sui tetti di spesa e non sui risultati come dovrebbe essere ha peggiorato anno dopo anno la gestione con una palese irrazionalità ed incapacità di capire le aree di responsabilità.
Ne è nato “il tutti contro tutti”, le amministrazioni centrali contro le periferiche, le istituzioni pubbliche contro quelle private, tutti a difendere i propri interessi facilitati da un impianto concettuale del patto disarticolato dalla realtà e quindi gli scontri sulle virgole di dettati normativi pensati su mondi astrali ma questo faceva il “gioco”; tutti a perdersi a guardare la foglia e non a capire più la foresta.
Da 40 anni questo paese non produce più cultura vera ed un pensiero che consenta un serio esame di coscienza, ma vive solo della cultura della rendita che brucia, appunto come detto, ricchezza ma non la crea ed anche sul merito dell’appartenenza basato tutto sul “do ut des”. Nel frattempo siamo entrati nella trappola mortale della finanza che è arrivata ad un accentramento senza pari nella storia ma in una dimensione sovranazionale in grado di influenzare le decisioni dei singoli governi con indicatori come lo spread destituiti di razionalità economica perché i mercati non sono affatto razionali anche se fa comodo considerarli tali.
Tutto l’impianto concettuale degli attuali metodi di studio dell’economia e della finanza si fonda su ipotesi infondate e smentite drammaticamente dai fatti, ma è funzionale al croupier che gestisce la roulette. La cicala della politica e l’incompetenza di troppi tecnici hanno consegnato un debito sempre più alto ad altri che ora tengono in ostaggio il paese. La crisi che stiamo attraversando non è economica ma morale e culturale e rappresenta la fine di un modello culturale che ci obbliga a ripensare al modo di stare assieme ed ad un confronto meno erratico su numeri che sembrano un gioco delle tre tavolette in una perenne contraddizione tra dichiarazioni e fatti.
La prova è il dibattito sulle modalità di trattamento della fiscalità in cui queste contraddizioni sono evidenti, aumenta la tassazione o non aumenta? Il sistema diventa più chiaro o meno controllabile? Il deficit aumenta o no? E il debito? Sembra impossibile capire se ci sia un disegno chiaro o se tutto sia frutto del caso o della necessità di chiudere qualche partita numerica; ma quanta più alta sarà l’incertezza tanto più i controlli saranno difficili e non chiari prestandosi a contenziosi infiniti in cui tutti finiscono per perderci.
Questo è il contesto in cui ci stiamo muovendo, un labirinto in cui non si riesce più a trovare la via d’uscita, ma l’abbiamo costruito noi.
Occorre prendere atto dei problemi veri e che si provi a definire chiaramente un quadro in cui siano pochi e chiari i disposti di legge, le responsabilità, le aree da controllare le responsabilità di chi controlla e quelle di chi sbaglia altrimenti sembra sempre di essere ad un remake de “La grande bellezza” in cui tutto si opacizza, perde empatia ed i valori umani sono sepolti dall’indifferenza generale.
A quel punto dovremmo risentire il monologo finale del protagonista del film Jep Gambardella: “… tutta la vita nascosta sotto il bla, bla, bla, bla e tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio ed il rumore, il silenzio ed il sentimento, l’emozione e la paura e gli sporadici sprazzi di bellezza; poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile tutto seppellito dall’imbarazzo dello stare al mondo, bla, bla, bla, bla. Dunque che questo romanzo (contabile e morale) abbia inizio, in fondo è solo un trucco, si è solo un trucco.”
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