Anguille: l’oro blu dell’Adriatico che rischia di scomparire
da SCIENZA IN RETE (Laura Scillitani)
L’alto Adriatico è sempre stato uno dei mari più pescosi d’Italia, ricco di biodiversità, ma lo sfruttamento delle risorse eccessivo, combinato ai cambiamenti climatici ha profondamente alterato la fauna che lo popola, e alcune specie rischiano l’estinzione. Dagli squali alle anguille ecco la ricchezza che rischiamo di perdere
Crediti immagine: Guido Andolfato, licenza Creative Commons
Il mare di oggi non è più quello una volta. Non si tratta di una frase fatta, ma proprio di un dato di fatto. I risultati di una ricerca condotta nel mare Adriatico settentrionale, dimostrano infatti che le specie che lo popolano sono drasticamente cambiate dagli anni quaranta del secolo scorso ad oggi.
«I cambiamenti climatici, in particolare l’aumento delle temperature delle acque superficiali, e l’elevata pressione di pesca, concorrono nel causare un cambio nella composizione della fauna dell’alto mare Adriatico» racconta Camilla Sguotti, ricercatrice presso il Dipartimento di biologia dell’Università di Padova e prima autrice dell’articolo. I dati utilizzati per la ricerca sono quelli della banca dati Clodia che contiene le statistiche ufficiali del pescato locale sbarcato al Mercato Ittico di Chioggia dal 1945 ad oggi. Chioggia è il principale punto di sbarco dei pescherecci dell’alto Adriatico, nonché uno dei porti più importanti del Mediterraneo.
Le specie cambiano, e si diffondono i pesci piatti
Il mar Adriatico è un mare storicamente molto produttivo e ricco di specie, e il tipo di pesca che si fa non è selettivo, quindi questi dati forniscono un buon indicatore della composizione ittica del bacino. Quello che è emerso dalle analisi è che nel tempo il pescato non è cambiato in modo significativo in termini di quantità, ma è mutata profondamente la varietà. Questo indica che c’è stato un avvicendamento: alcune specie sono diminuite fino a scomparire, lasciando il posto ad altre. Per fare un esempio, si è passati dalle acciughe agli spratti fino alle sardine, oggi la specie di piccole dimensioni dominante. Si tratta di specie analoghe come ruolo ecologico, piccole e abbondanti, che essendo però alla base della catena alimentare influenzano a cascata tutti i livelli trofici superiori.
«Quello che abbiamo visto è che, pian piano, negli anni, sono cambiate le specie dominanti nella comunità ittica, e si è osservata una semplificazione, nel senso che sono aumentate le specie di minori dimensioni e più opportuniste, come alcuni pesci piatti, le sogliole ad esempio» spiega Sguotti. Le specie maggiormente colpite sono quelle di maggiori dimensioni, grandi predatori all’apice della catena alimentare. In particolare gli squali, tra cui verdesche e palombi, sono in netto declino e minacciate di estinzione non solo nell’Alto Adriatico, ma in tutto il Mediterraneo. La trasformazione degli habitat marini è un problema diffuso dell’Antropocene: «Questo pattern di semplificazione delle comunità ittiche si è osservato anche sulle coste americane e canadesi dell’Atlantico. L’aumento di pesci piatti si vede anche nel Mar del Nord» commenta Camilla Sguotti.
Il nuovo mare dell’Antropocene
Una pesca non sostenibile, potenziata a partire dagli anni ottanta con l’industrializzazione, si intreccia e sovrappone con il riscaldamento globale. Le sardine che sostituiscono le acciughe sono specie legate ad acque più calde, per fare un esempio. Il riscaldamento delle acque apre poi nuove possibilità a specie aliene invasive tipiche delle acque tropicali, che trovano condizioni idonee per prosperare in zone dove un tempo era impossibile per loro stabilirsi. Questo va ad alterare tutti gli equilibri, le condizioni a cui una specie si è adattata nel corso della sua evoluzione, le relazioni tra prede e predatori. Senza considerare che sul mare influiscono tantissime altre minacce, per esempio l’inquinamento e l’eutrofizzazione delle acque ad esso legata, che altera la disponibilità di nutrienti.
Il problema è che nella fase in cui siamo è drammaticamente difficile invertire la rotta. «Quello che si è verificato è un cambio di regime, ovvero la nuova comunità che ora vive nelle acque dell’alto mar Adriatico è stabile» spiega Sguozzi. Questo implica che se anche si modificasse ora la pressione della pesca non si riuscirebbe comunque a ritornare alla comunità originaria, anche perché il cambiamento climatico ha mutato profondamente le condizioni ambientali. Il risultato di una pressione di pesca insostenibile che non consente agli stock ittici di rigenerarsi è quello di rendere la comunità meno resiliente alle modificazioni ambientali. Ecco perché è importante lavorare nell’ottica di uno sfruttamento delle risorse più oculato.
Il meraviglioso viaggio delle anguille, dal Mar dei Sargassi e ritorno
La pesca eccessiva non è un male che affligge solo il mare. Poco più a sud di Chioggia, nel delta del Po e lungo il grande fiume una specie iconica per tradizione culturale e gastronomica, l’anguilla, è diventata sempre più rara, e oggi è a rischio critico di estinzione. Le anguille sono pesci con un vita straordinaria e misteriosa, che da sempre affascinano gli scienziati.
Tutte le anguille europee nascono nelle profondità del Mar dei Sargassi. Le larve, dette leptocefali, a forma di piccola foglia trasparente, si lasciano trasportare dalla corrente del Golfo e approdano dopo mesi, ormai mutate in piccolissimi pesci dalla forma cilindrica, verso le coste. I giovani, definiti anguille gialle, iniziano quindi una risalita dei fiumi, dove trascorrono anche 15 anni, muovendosi soprattutto di notte tra le acque melmose dei fondali, alla ricerca di prede.
La maturazione sessuale delle anguille è un altro dei puzzle che hanno sempre meravigliato gli studiosi (pare che Freud ne abbia dissezionate a centinaia non capacitandosi dell’assenza di organi sessuali nei giovani, mentre Aristotele sosteneva che si generassero dal fango): all’improvviso iniziano a cambiare forma, nei mesi primaverili, dopo anni placidamente passati nelle acque dolci. La prima notte d’inverno con l’abbassamento delle temperature, vento di burrasca e assenza di luna, le anguille mature, dette argentine, migrano in massa verso il mare, dove mutano ancora, diventano pesci abissali. E migrano fino al posto in cui sono nate, il mar dei Sargassi, per riprodursi e morire.
La frammentazione dei fiumi non aiuta le anguille
«Le anguille compiono un ciclo biologico molto ampio, toccando tantissimi ambienti differenti. Il depauperamento degli habitat e i cambiamenti climatici sottopongono quindi la specie a pressioni molto forti in diverse fasi della loro vita» spiega Mattia Lanzoni, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze dell’ambiente e della prevenzione dell’Università di Ferrara, e referente scientifico del progetto europeo LIFEELS, che ha lo scopo di individuare misure per la conservazione delle anguille in tutto il bacino del fiume Po. «L’elevatissima frammentazione dei corsi fluviali e tutti gli sbarramenti che ci sono, impediscono la risalita dei giovani e la colonizzazione delle acque interne, e ostacola anche la discesa dei migratori adulti verso il mare».
Le acque interne europee sono tra gli habitat più compromessi dall’azione antropica. Uno studio pubblicato su Nature stima la presenza di almeno un milione duecentomila sbarramenti lungo i corsi d’acqua, che ne riducono in modo drammatico la connettività per le specie animali ostacolandone gli spostamenti. Oltre a questo, in Italia, le grandi operazioni di bonifica hanno determinato la scomparsa di molte aree umide, habitat di grande importanza per le anguille (e per moltissime altre specie). Infatti, mentre le femmine intraprendono il viaggio di risalita dei fiumi, i maschi sono maggiormente legati alle acque salmastre delle foci. La perdita di qualità degli habitat è legata in alcune aree anche all’introduzione di specie aliene invasive che hanno un impatto pesante sulle anguille, come il pesce siluro.
A questo si somma la pressione della pesca, elevata per via della grandissima richiesta che c’è delle prelibate carni dell’anguilla nel mercato ormai mondiale. «Il problema principale è che noi riusciamo ad allevare la specie prendendo alcuni giovanili in natura, ma non siamo ancora in grado di farla riprodurre in cattività. Negli esperimenti per la riproduzione artificiale, si arriva a 30 giorni dalla schiusa ma poi non si capisce più come dalla larva passare ad anguilletta. Questa fase del loro ciclo vitale avviene normalmente nel mar dei Sargassi, ed è quindi molto complesso ricreare queste condizioni in laboratorio. Quindi tutto il consumo mondiale di anguilla si basa sugli stock naturali» spiega Lanzoni.
Il torbido business delle “anguille di vetro”
L’anguillicoltura si basa sul prelievo in natura delle ceche, o anguille di vetro, piccole anguille trasparenti e lunghe in genere meno di 10 centimetri. Ma creature così rare acquistano un valore notevole, soprattutto se sono manicaretti molto apprezzati e costosi. «In Europa ci sono circa 6.000 allevamenti. In Asia, tra Cina, Thailandia e Giappone, ce ne sono 250.000 . Secondo le stime della FAO, dal continente europeo, per sostenere l’allevamento asiatico, vengono pescati all’anno due miliardi di giovani di anguille. Con un valore commerciale che si attesta tra i sei e i novemila euro al chilo. A questo si aggiunge poi il prelievo illegale» dice Lanzoni.
Il giro di soldi del mercato nero è impressionante: si arriva a tre miliardi di euro all’anno. Le ceche vengono nascoste nei bagagli a mano e imbarcate sugli aerei per essere vendute di contrabbando agli allevamenti asiatici, utilizzando sistemi sofisticati che consentono la sopravvivenza delle anguille durante il trasporto. Nel territorio dell’Unione Europea, dal 2009 il prelievo delle ceche è regolamentato, ed è bandita la commercializzazione a paesi terzi. Dal 2016, nell’ambito dell’operazione Lake, coordinata dalla Europol, e mirata al contrasto del contrabbando, più di 500 persone sono state arrestate e circa 18 tonnellate di ceche sono state sequestrate e reintrodotte nell’ambiente naturale.
Il clima che cambia minaccia la biodiversità di mari e fiumi
Anche nel caso dell’anguilla il cambiamento climatico è una minaccia incombente e reale. Basti pensare alla drammatica siccità del Po dell’estate 2022. «I giovanili di anguille che arrivano dal mare devono sentire la cosiddetta chiamata delle acque dolci – la diversa salinità in corrispondenza dei fiumi – per poter poi risalire. Lo scorso anno, le portate dei fiumi sono state bassissime e quindi i giovanili sono rimasti nelle zone costiere, non adatte al loro sviluppo biologico. Inoltre i livelli bassissimi del fiume hanno portato alla scomparsa di una serie di aree lungo le sponde che le anguille utilizzano come riparo. Si sono quindi concentrate al centro del fiume, dove però la pressione di predatori ittiofagi come i cormorani, che sono invece in forte aumento, ha avuto un impatto molto pesante» racconta Mattia Lanzoni.
Il progetto europeo LIFEELS lavora sull’intero bacino del Po per trovare soluzioni che consentano il recupero numerico delle anguille. Si lavora sulla connettività della rete dei bacini idrici, sulla selezione dei migliori riproduttori e sul coinvolgimento dei pescatori locali. Lanzoni spiega che le attività centenarie di pesca tradizionale sono infatti quelle più sostenibili, ma stanno subendo purtroppo una drastica riduzione a causa dell’aumento vertiginoso dei prezzi. «Chiudere del tutto il prelievo dell’anguilla non è una soluzione, perché porta a una perdita di interesse verso la specie, e viene a mancare il controllo a livello locale di chi ha sempre praticato storicamente la pesca. Questo favorisce invece il commercio illegale».
Si tratta insomma di una questione alquanto complicata. La strategia della biodiversità europea 2030 si propone di arrivare a proteggere il 30% delle aree marine (ad oggi circa l’11% è tutelato) e di incentivare misure per la pesca sostenibile, anche attraverso l’introduzione di limitazioni per l’uso di alcuni attrezzi. La strategia si pone anche l’obiettivo di ristabilire lo scorrimento libero di almeno venticinquemila chilometri di fiumi entro il 2030 eliminando e o adattando le barriere obsolete e ripristinando le pianure alluvionali. La FAO ha recentemente pubblicato una roadmap per raggiungere uno sfruttamento sostenibile di mari e acque dolci.
Non resta che pretendere una reale applicazione di questi interventi, necessari e urgenti per arrestare il declino dei nostri fiumi e mari. Anguille comprese.
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