Benvenuti a Pesaro nella nuova “stalla” biotecnologica
di Resistenze al nanomondo (redazione)
Il Comune di Pesaro ha autorizzato la vendita di un terreno pubblico per la creazione di un laboratorio di bio-sicurezza (BSL3) di livello 3 che sarà gestito dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale Togo Rosati dell’Umbria e delle Marche (IZSUM).
Si legge, nella delibera approvata in questi giorni, che l’Istituto Zootecnico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche “ha manifestato l’intenzione di comprare mediante trattativa privata diretta altri terreni di proprietà comunale, in adiacenza a quelli di sua proprietà, siti in località Torraccia tra via Furiassi e via Grande Torino al fine di implementare la sede locale attraverso: la creazione di un laboratorio di bio-sicurezza (BSL3), ossia una struttura in grado di garantire sperimentazioni e manipolazioni – in vivo e in vitro – di agenti virali pericolosi per la salute animale e dell’uomo di massima sicurezza e contenimento biologico; la realizzazione di stalle contumaciali per la stabilizzazione di grandi e piccoli animali in grado di garantire misure di bio-contenimento e bio-sicurezza nei confronti degli agenti infettivi”.
Già nel 2018 vi era stata una vendita di un terreno comunale di tremila metri quadrati per 260 mila euro e attualmente è prevista quest’altra vendita di 12mila metri quadrati per 500 mila euro, benché la stima fosse di 700mila, ed è in quest’ultimo terreno che si insedierà il nuovo Biolaboratorio. Dalla vendita di questo terreno le casse comunali andranno a rimpinguarsi e l’Istituto Zooprofilattico potrà mettere in campo il finanziamento di 4 milioni di euro che ha avuto dai fondi provenienti sembra dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ma potrebbero esserci anche altri finanziatori, adesso e in futuro, considerando gli indirizzi della ricerca che ufficialmente verrà portata avanti.
L’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche è un’azienda sanitaria pubblica che opera nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, garantendo per queste regioni prestazioni tecno-scientifiche in materia di igiene e sanità pubblica veterinaria. Già nel 1995, con due distinti decreti del Ministero della Sanità, l’Istituto aveva avuto il riconoscimento di “Centro di Referenza Nazionale per la Leucosi Bovina Enzootica e per lo studio e la diagnosi delle Pesti Suine”. Una successiva denominazione ha classificato questi laboratori come “Centro di referenza nazionale per lo studio dei retrovirus correlati alle patologie infettive dei ruminanti” e come “Centro di referenza nazionale per lo studio delle malattie da pestivirus e da asfivirus”.
Nel sito internet dell’Istituto si legge: “Compito dell’Istituto, inoltre, è svolgere attività di ricerca, sia collegata alle tradizionali attività diagnostiche che nel campo dell’igiene degli alimenti e delle produzioni zootecniche, ed intrattenere rapporti di collaborazione tecnico-scientifica con istituzioni di ricerca nazionali ed internazionali. L’Istituto è autorizzato dal Ministero alla Sanità alla produzione, commercializzazione e distribuzione di vaccini e presidi diagnostici occorrenti per la lotta contro le malattie infettive e per le attività di sanità pubblica veterinaria. L’Istituto è anche in condizione di svolgere un importante ruolo professionale e scientifico in settori d’interesse emergente, quali la difesa dell’ambiente, la tutela faunistica, il monitoraggio degli ecosistemi terrestri e marini, la contaminazione ambientale ed il benessere animale. Di notevole rilievo è il compito, di recente affidato all’Istituto dalla Regione Umbria con il Piano Sanitario 1999-2001, di realizzare un sistema informatizzato in rete, che lo colleghi alle Sezioni provinciali, alla Regione ed alle Aziende Sanitarie Locali e che rappresenta la base infrastrutturale per la costituzione dell’Osservatorio Epidemiologico Veterinario (O.E.V.)”.
La notizia dell’imminente nascita di questo centro si è diffusa dopo l’indignazione degli abitanti delle zone limitrofe a dove dovrebbero sorgere i laboratori, considerando, a poche centinaia di metri, le case, i giardini pubblici, un fiume, ma soprattutto considerando il ricordo ancora vivo di un laboratorio cinese di nome Wuhan. Come prevedibile le istituzioni si sono affrettate a rassicurare tramite i giornali locali sui livelli di sicurezza del nuovo IZSUM, sbagliando però questa volta argomento, visto che è proprio il livello alto di protezione 3 del laboratorio a preoccupare le persone, considerando che Wuhan era di livello 4.
Il mese passato l’assessore Riccardo Pozzi entrando nel merito della delibera per la prossima realizzazione del centro di ricerca descriveva quest’ultimo come un punto di riferimento per l’intero centro Italia, contraddicendosi però nelle settimane successive quando dichiarava “zero rischi e zero esperimenti”, continuando a considerare il centro come una grande opportunità per la città di Pesaro. Ormai ci stiamo abituando a determinate descrizioni che trasformano startup e centri di ricerca in vere e proprie possibilità sociali, come se venissero realizzati una biblioteca o un parco per far uscire i bambini dall’asfalto. Strutture spesso poi realizzate per controbilanciare attività non gradite dalla popolazione, non stupirebbe che una parte dei 200 mila euro risparmiati dall’acquisto del terreno venisse reinvestita in progetti “ecosostenibili ed inclusivi” per la cittadinanza, come già si è visto in altre situazioni simili accontentando così tutti e garantendo il seguito elettorale dei rappresentanti istituzionali.
Un centro di ricerca sperimentale diventa così un luogo dove non si fanno sperimentazioni e manipolazioni, un luogo che dà lavoro alla comunità come se ci fossero biotecnologi e nanotecnologi con il reddito di cittadinanza o in fila al Centro per l’impiego. Poco più di una “stalla” a sentire il signor Caputo, direttore dell’Istituto, che parla di innocue quarantene per animali colpiti da malattie virali e batteriche.
La realizzazione di un laboratorio simile va situata nell’attuale momento che stiamo vivendo: è in corso un’accelerazione del paradigma tecno-scientifico e le bionanotecnologie si insinuano nel mondo facendosi “ambiente” apprestandosi ad accompagnare l’intera nostra esistenza. Non ci stupisce che in questo caso si parta dalla salute veterinaria, ma non deve farci illudere che l’aspetto non ci riguardi: ci attende un’esistenza zootecnica, tutto va in quella direzione, se il mondo si fa laboratorio a noi ci attende lo stabulario.
Nel 2020, in piena dichiarata emergenza sanitaria, gli Stati Uniti hanno trasferito dall’Egitto alla Sicilia all’interno della base militare di Sigonella il NAMRU3 (Naval Medical Resarch Unit), un laboratorio di livello 3 della Marina Militare che conduce ricerche su virus e batteri, ma in particolare su malattie enteriche, infezioni acute respiratorie, epatiti, tubercolosi, meningiti, fino all’HIV e a varie infezioni da parassiti che potrebbero rappresentare un grave problema sanitario. Il trasferimento del quartiere generale del centro di ricerca nel cuore della Naval Air Station di Sigonella – realizzato con evidente fretta, considerando che era presente in Egitto dal 1945 – è stato giustificato dal fatto che risulta “Il luogo più ideale per le operazioni, poiché l’Hub of the Med risulta geograficamente centrale rispetto ai tre comandi di combattimento che il centro di ricerca deve supportare: il comando centrale (Centcom), il comando europeo (Eucom) e il comando africano (Africom)”. Tra l’altro questo trasferimento era stato deciso ben prima della dichiarata pandemia, evidentemente la chiaroveggenza che contraddistingue i militari li ha spinti a tirarsi avanti e a mettere base dove occorre.
L’aspetto della ricerca militare non dovrebbe portare a pensare che in questi centri si concentri il “segreto” di inconfessabili ricerche. Questo è l’aspetto che si vive dall’esterno, quello che si dà. La realtà è però ben più complessa, il concentrarci sul drone che protegge dall’alto il NAMRU distoglie la nostra attenzione su quello che avviene in quella che è stata chiamata “poco più di una stalla per animali infetti” come il nascente Istituto Zooprofilattico di Pesaro che è stato classificato di livello 3. Ricerche e centri di questo livello, evidentemente strutturati per un’esistenza di emergenza perenne, non fanno distinzione tra militare e civile. Anche da una “semplice stalla sperimentale” può uscire quello che occorre a condire una nuova arma batteriologica della NATO, perché ormai dovremmo averlo compreso, in tempi di emergenza tutto può accadere e le nostre previsioni e analisi più pessimiste spesso non eguagliano quello che effettivamente può essere messo in pratica. Il motivo è molto semplice, il sentire comune fa riferimento ai trattati, alle regole strettissime che sono un’infinità e a tutti i vari comitati bioetici, ma la realtà è che costoro non ragionano in questi termini, non vi è un rischio-beneficio da calcolare, ma un unico beneficio per i loro interessi e possiamo su questo essere certi che passeranno sopra ogni cosa pur di attuarli. Esistono anche i Manuali di Biosicurezza molto dettagliati e precisi, sulla carta, dove si interrogano su quello che può essere un “rischio accettabile”. Cosa significa questo, cosa può essere ritenuto “accettabile”? Che eventuali virus si disperdano nei quartieri e non raggiungano il fiume? O che il problema non vada oltre la cittadina? Questo ricorda determinati documenti che giravano durante la realizzazione della linea TAV nel Mugello dove venivano fatte anche le stime dei morti che ci sarebbero stati nella realizzazione dei lavori. Ma se invece di pensare sempre agli effetti ultimi non si iniziasse a puntare la riflessione e lo sguardo verso il principio, dove tutto nasce, allora gli interrogativi potrebbero essere perché risparmiare dieci minuti di viaggio e perché incrementare l’ingegneria genetica e la biologia sintetica anticamera della guerra batteriologica?
I manuali di biosicurezza sono scritti da chi dovrà essere controllato da quelle misure di sicurezza, perché sono loro gli esperti e i detentori di quel sapere tecno-scientifico, sono loro gli stessi promotori e fautori dei processi in corso. Poi, quando avviene un disastro, gli abitanti sono chiamati a diventare co-gestori e amministratori attivi e responsabili dello stesso disastro, come a Fukushima dove la popolazione aveva imparato ad automisurarsi i propri livelli di contaminazione radioattiva.
A Trieste il Centro Internazionale per l’Ingegneria Genetica e Biotecnologia (ICGEB) di livello 3 nei mesi scorsi ha ricevuto dal governo italiano piena immunità e inviolabilità per il personale di ricerca e per quello che viene portato avanti all’interno dei suoi laboratori. Da quel momento non sono più tenuti a riferire sullo sviluppo delle loro ricerche di ingegneria genetica, ricerche che sono incentrate, come si legge dalla pagina del Centro, su “controllo dell’espressione genica, replicazione del DNA, riparazione del DNA, elaborazione dell’RNA; studi su virus umani quali HIV, HPV e rotavirus, immunologia molecolare, neurobiologia, genetica molecolare, ematologia sperimentale e terapia genica umana”. Nella sezione di sicurezza di livello 3 viene studiato anche il SARS-CoV-2 insieme ad altri agenti patogeni.
Nell’affrontare le tecnologie di ingegneria genetica e le nanotecnologie il pensiero è sempre diretto verso effetti avversi e possibili incidenti considerati come non voluti, ma quando si tratta di tali sviluppi gli effetti collaterali e gli incidenti sono sempre disastri annunciati che serviranno poi a velocizzare e a normalizzare altri passaggi. La vera preoccupazione dovrebbe andare invece verso quello che volutamente e con rigore scientifico stanno mettendo in campo e contro l’intero paradigma di ingegneria genetica e bionanotecnologia. All’Inserm di Lione in simili laboratori si sta tentando la fusione del virus dell’aviaria con quello dell’influenza A allo scopo di cercare possibili antidoti. Apparentemente buone intenzioni, ma quali temibili agenti patogeni ricombinanti potrebbero venir fuori? Dobbiamo sperare che prevalga il principio di Ippocrate invece che quelli del generale Caster?
Uno sguardo verso altre situazioni che si occupano di ricerca genetica (e di vivisezione sugli altri animali) come la Fondazione Telethon – che tra l’altro raccoglie ogni anno milioni di euro per rarissime malattie, considerando che i sempre più comuni tumori non rendono abbastanza – aiuta a comprendere cosa sia un biolaboratorio di livello 3. In questo modo descrivono le attività in uno di questi laboratori: “Tutti i microrganismi a elevato potenziale patogeno, capaci cioè di provocare malattie gravi o per le quali non vi sono ancora contromisure, devono essere manipolati in laboratori ad alto livello di biosicurezza. Il laboratorio di biosicurezza livello 3 (BSL3) dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) permette l’isolamento, la manipolazione e lo studio di organismi patogeni in elevate condizioni di sicurezza sia per l’operatore che per la comunità”. Ad ascoltare le parole del signor Caputo all’interno del nuovo Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Pesaro non si manipolerebbe nulla, nessun esperimento significativo, quindi quelle decine di ricercatori e cervelli in fuga che avremo preferito proseguissero la corsa si limiterebbero a seviziare gli animali con qualche prelievo di sangue e test di routine nelle “stalle sperimentali” da quattro milioni di euro. Ma quello che faranno sui corpi degli animali sarà ben altro, l’uso strumentale del termine “sperimentazione” nasconde l’atroce verità della vivisezione.
Non c’è distinzione tra laboratori che lavorano per “difendere” dalle minacce biologiche e quelli che le sviluppano. Innanzitutto dalla minaccia biologica all’arma biologica il passaggio è breve e “non c’è alcuna differenza sostanziale: fanno esattamente lo stesso lavoro. Quando un laboratorio biologico studia una minaccia, ad esempio un virus mutato, sia che lo faccia per prevenirla o per metterla in campo, deve fabbricare la minaccia. […] Nel momento in cui inizia la produzione di massa, la distinzione tra la ricerca per la prevenzione o per la diffusione non esiste più”1.
Pensiamo sia importante dare uno sguardo complessivo a quello che sta avvenendo, questi biolaboratori stanno proliferando ovunque nel mondo anche, e soprattutto, quelli di livello 4. Non sempre è chiaro quante strutture esistano, che cosa realmente facciano e soprattutto quanto materiale altamente pericoloso sia in circolazione. E quando questi laboratori sono situati dentro basi americane come a Sigonella le sorprese potrebbero essere ancora più ricombinanti. Un recente editoriale della celebre rivista Nature, punto di riferimento della comunità scientifica mondiale e nota per la sua “neutralità”, lancia l’allarme riguardo la possibilità di incidenti che vanno dai contagi accidentali del personale alle fughe di agenti infettivi, fino al rischio che malintenzionati possano mettere le mani sugli agenti patogeni per compiere attacchi bio-terroristici. Gli allarmi lanciati da queste élite scientifiche editoriali fanno rammentare l’esercitazione denominata Event 201 compiuta prima che venisse dichiarata l’emergenza pandemica nel mondo e ci rimandano all’ultima esercitazione Catastrophic Contagion2 condotta dal Johns Hopkins Center for Health Security, in collaborazione con l’OMS e l’immancabile Bill & Melinda Gates Foundation e al progetto della NATO Boosting NATO Resilience to Biological Threats3 per prepararsi alle prossime minacce biologiche. Quando costoro mettono in guardia su un problema significa che stiamo già vivendo quel problema, significa che camici bianchi e tute mimetiche hanno già messo le loro mani guantate fin troppo dentro tra quegli agenti patogeni.
Il fatto che il nuovo biolaboratorio di livello 3 in progetto a Pesaro sia un Istituto Zooprofilattico deve destare ulteriore attenzione e preoccupazione. In Italia esistono una decina di Istituti Zooprofilattici, senza contare le 90 sezioni diagnostiche periferiche, legati al Servizio Sanitario Nazionale che ne dispone per “la sorveglianza epidemiologica, la ricerca sperimentale, la formazione del personale, il supporto di laboratorio e la diagnostica nell’ambito del controllo ufficiale degli alimenti. La funzione di raccordo e coordinamento delle attività degli Istituti Zooprofilattici Sperimentali è svolta dalla Direzione generale della sanità animale e dei farmaci veterinari del Ministero della salute, che ne definisce, mediante il lavoro della Commissione Scientifica nazionale, le linee guida e le tematiche principali”. Potremmo trovarci difronte a una trasformazione ed evoluzione in ogni regione degli Istituti zooprofilattici in biolaboratori di livello 3 dando il via ad una rete di costruttori di emergenze perenni.
In pochi anni abbiamo assistito ad un aumento di questi biolaboratori, da Trieste a Sigonella. Quale significato possiamo trarne? Dobbiamo d’ora in poi familiarizzare con le tecnologie di ingegneria genetica che dai laboratori si estendono al mondo intero fino ad arrivare fin dentro i nostri corpi con i sieri genici a mRNA o a DNA ricombinante? Questa è una domanda retorica perché è evidente che siamo già in questa fase. Per non rimanere indietro di fronte agli eventi che ci stanno circondando, dobbiamo metterci insieme in coordinamenti, gruppi, comitati che superino il quartiere e la città e dobbiamo comprendere come il problema potrà essere affrontato con reale consapevolezza solo se riconosceremo e comprenderemo il contesto in cui si struttureranno questi ed altri biolaboratori, la loro matrice che affonda nella creazione e gestione di emergenze perenni e il senso di questi progetti che si trova nella direzione transumanista di intervento bionanotecnologico sui corpi e sull’intero vivente. L’esperienza di questi ultimi anni ha dimostrato la debolezza delle rivendicazioni parziali quasi esclusivamente dirette verso modalità e conseguenze ultime, ma non dirette a ricercare e svelare il senso delle cose e degli eventi e il disegno più ampio in cui questi sono da collocare. Strani meccanismi figli di questi tempi resilienti e fluidi hanno fatto abbandonare una critica radicale precisa e diretta o hanno impedito che si sviluppasse, si sono preferite le opinioni concilianti molli per accontentare sempre tutti, quando invece non c’era niente da conciliare. È evidente che le strade tracciate non sono sempre le migliori anche se coprono gran parte del territorio, servirà del coraggio per aprire vie nuove per farci largo in questo ginepraio biotecnologico che vorrebbe ricoprirci definitivamente.
Siamo giunti all’ultima ora, alla frontiera della lotta contro la presa del vivente, questa deve essere combattuta prima di ogni altra cosa, perché se non ci opponiamo all’ingegnerizzazione e artificializzazione dei nostri corpi e del mondo cosa ci resta per cui lottare?
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