C’è un’Africa che sfida le multinazionali del cacao: basta sfruttamento o vi cacciamo
da L’INDIPENDENTE (Gloria Ferrari)
Da una parte l’Europa, il più grande consumatore al mondo di cioccolato, dall’altra l’Africa occidentale, il principale coltivatore delle fave di cacao. In mezzo il cioccolato, tema su cui entrambe le parti si scontrano da tempo nel tentativo di regolamentare su diversi fronti – principalmente sostenibilità e costi – un mercato che ad oggi penalizza chi il cacao lo produce. Come Ghana e Costa d’Avorio. Motivo per cui, dopo aver boicottato a ottobre la partecipazione all’evento del World Cocoa Foundation di Bruxelles, entrambi i Paesi hanno chiesto all’UE di mostrarsi concretamente intenzionata a rispettare gli impegni presi, pena il divieto di accedere alle piantagioni per fare previsioni sui raccolti e la sospensione dei programmi di sostenibilità. Scadenza: 20 novembre scorso.
Cos’è successo dopo quella data?
Nel concreto non molto. La Ivory Coast-Ghana Cocoa Initiative (CIGCI), un’organizzazione regionale nata nel 2018 con il fine di aumentare in modo sostenibile i guadagni percepiti dai coltivatori di cacao nei rispettivi paesi, ha riferito in un comunicato che “è stato preso atto degli sforzi compiuti da alcune aziende e della loro disponibilità a trovare insieme soluzioni per una produzione sostenibile di cacao che ponga i produttori al centro di questa strategia”. È fondamentalmente un inizio, anche se arrivati a questo punto il processo sarebbe dovuto essere già molto più avanti di così.
L’intenzione dei coltivatori è comunque quella di continuare a discutere per arrivare ad una soluzione, a sostegno della quale è stato istituito “un gruppo di lavoro di esperti composto da rappresentanti dei Paesi membri e degli stakeholder del settore del cacao per studiare soluzioni per meglio risolvere alcuni problemi e garantire un meccanismo di prezzo sostenibile nel lungo termine. Ci aspettiamo che il gruppo fornisca raccomandazioni entro il primo trimestre del 2023, con l’auspicio che tutte le parti interessate si impegnino in modo trasparente” a trovare un “compromesso intelligente“, come lo ha definito Patrick Achi, il Primo Ministro ivoriano.
È chiaro che non sarà facile, dal momento che le due parti coinvolte hanno interessi fondamentalmente diversi, seppur concatenati. Entrambe le parti vorrebbero che il settore del cioccolato fosse più sostenibile ed equo. Per i Paesi africani questo comporterebbe una riduzione dell’impiego di forza-lavoro minorile – l’unica che ad oggi molti agricoltori possono permettersi di pagare – e una diminuzione della pratica di deforestazione – che negli ultimi dieci anni ha distrutto in Africa 24mila chilometri quadrati di foresta – ad oggi portata avanti dai coltivatori di cacao per produrre quanta più materia prima possibile. Se quest’ultima invece venisse pagata di più, come chiedono Ghana e Costa d’Avorio, gli agricoltori potrebbero permettersi di produrre cacao in condizioni migliori. Il problema è che le multinazionali non sono disposte a spendere di più.
«Le aziende del cioccolato vogliono accumulare il massimo profitto, ma quando danno la priorità a questo aspetto, sono i poveri a soffrire. Devono capire che si tratta di sfruttamento e che deve finire», ha detto Kobenan Adjoumani Kouassi, Ministro dell’agricoltura della Costa d’Avorio ad Al-Jaazera. Infatti per il suo Paese la produzione di cacao rappresenta il 14% del PIL, coprendo il 45% della richiesta di fave di cacao del mondo, «ma riceve solo il 4% circa del valore annuo stimato dell’industria del cioccolato di 100 miliardi di dollari». Basti pensare che, secondo le stime del World Economic Forum, milioni di agricoltori di cacao guadagnano una media di 0,78 dollari al giorno. L’unica soluzione, per i due Paesi, è quella di aumentare il prezzo delle fave di cacao.
Un’esigenza comune che nel 2019 li ha spinti a creare un “cartello” – definito la OPEC del cacao – basato sul principio del Living Income Differential (LID): le aziende compratrici sono tenute a pagare una “tassa” di 400 euro in più per ogni tonnellata di cacao venduta, per coprire i costi di produzione. Anche se la reazione pubblica dei grandi marchi – tra cui – Ferrero, Lindt e Nestlé – è sembrata piuttosto positiva, in realtà le organizzazioni locali hanno invece dichiarato che le aziende hanno provato a ridurre ulteriormente il prezzo della materia prima, utilizzando altri escamotage. Episodi dopo i quali i due Paesi hanno deciso di agire come riportato all’inizio dell’articolo.
Se non si interviene con una regolamentazione messa per iscritto e che sia equa e condivisa da tutti i partecipanti coinvolti, il rischio è che si sviluppi un mercato parallelo ancora meno rispettoso dei diritti umani e dell’ambiente, che sfugga agli enti di controllo. Se da una parte alcune multinazionali del cioccolato stanno mostrando un certo interesse per il problema – come Mondelez, proprietaria di Côte d’Or e Toblerone che di recente ha detto di voler devolvere volontariamente 600 milioni di dollari alla causa ambientale e sociale dell’Africa occidentale – dall’altra le ONG dicono che le “donazioni” fatte di tanto in tanto non hanno l’impatto che l’Occidente crede di ottenere. Obbligare le aziende a pagare equamente i coltivatori, questo sì che potrebbe avercelo.
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