Il Marocco e quel panarabismo plasmato dal calcio
di OSSERVATORIO GLOBALIZZAZIONE (Allegra Filippi)
Il Marocco ha incantato il mondo del calcio e unito, sul rettangolo verde, il mondo arabo durante la kermesse iridata in Qatar. Allegra Filippi, al debutto sull’Osservatorio, ci racconta delle dinamiche politiche aperte dalla corsa dei Leoni dell’Atlante. Corredando l’articolo con le foto da lei scattate a Pisa durante la riunione dei marocchini abitanti sotto la Torre Pendente e ritrovatisi a vedere la semifinale Marocco-Francia del 14 dicembre scorso.
I mondiali sono finiti. L’Argentina è il nuovo campione del mondo dopo aver battuto la Francia in una sfida strabiliante. I sipari si abbassano ma la storia è stata scritta in modo indelebile: il Marocco diventa la prima squadra araba, maghrebina, africana e musulmana ad arrivare alle semifinali. Mai una squadra africana o araba è arrivata tanto lontana. In un mondiale, quello di Doha, in Qatar, chiacchieratissimo e ricco di scandali, si è visto qualcosa di rivoluzionario, mai sperimentato prima. I Leoni dell’Atlante hanno riunito sotto la loro incredibile impresa popoli di tutto il mondo. Da Rabat a Tunisi, passando per Amman, Doha, Dakar, Gaza, Algeri, il Cairo, fino ad arrivare ai figli della diaspora in Europa e nel mondo, scene di gioia ed entusiasmo hanno contagiato interi popoli.
Malgrado il sogno infranto di vincere la Coppa del Mondo, il percorso marocchino ha acceso un sentimento di appartenenza e riscatto a milioni di persone. Battendo Belgio, Spagna e Portogallo hanno dimostrato che l’impossibile non esiste raggiungendo il livello più alto della competizione, la semifinale. Un percorso dal retrogusto politico che è riuscito ad unire arabi, africani e musulmani di tutto il globo malgrado le divergenze interne. I Leoni hanno restituito orgoglio a identità bisognose di motivi per gioire, invase per lungo tempo da un sentimento di umiliazione, persino di disprezzo. L’epopea calcistica del Marocco non ha risvolti solo sportivi ma anche culturali e politici. In un certo senso ha risvegliato un nazionalismo arabo che si credeva morto diventandone l’orgoglio e il portabandiera.
Prima di tutte la causa palestinese. La bandiera palestinese e la kefiah, onnipresenti a Doha, hanno dato modo al mondo intero di comprendere come, malgrado le dispute bilaterali e le posizioni dei vari governi, la causa palestinese sia radicata nell’identità araba e sia una questione di solidarietà fraterna. Se i giocatori in campo hanno mostrato vicinanza al popolo palestinese sventolando continuamente la loro bandiera, i tifosi di tutto il mondo – europei compresi -, hanno fatto vibrare le tribune dello stadio cantando “Palestina, Palestina”, quando, durante la partita Tunisia-Francia del 30 novembre, uno spettatore è riuscito a scendere in campo con la bandiera palestinese. Dal caso dei tifosi inglesi che, intervistati da un cronista israeliano, hanno urlato “Palestina libera”, ai cori dei tifosi marocchini che così recitavano: “O nostra cara Palestina, dove sono gli arabi, dormono? Non ti abbandoneremo Gaza, anche se sei così lontana, o Rafah, o Ramallah, il mondo arabo è malato”.
Gli effetti della “febbre marocchina” hanno quindi raggiunto tutto il mondo arabo e africano. Ad Amman, dove il re Abdullah II di Giordania si è congratulato con il Marocco, il ponte Abdoun è stato illuminato con i colori marocchini. Stessa sorte per gli edifici a Doha e per il Burj Khalifa a Dubai. L’Arabia Saudita, dopo essere stata eliminata dal Messico il 30 novembre, ha pubblicamente dato tutto il suo appoggio ai Leoni e tra le strade di Riyadh, la capitale, anche le donne in niqab si sono precipitate nei bar dopo il gol contro il Portogallo. Più difficile la situazione in Algeria, con la quale il Marocco non ha più relazioni diplomatiche dall’agosto del 2021. Nel Paese maghrebino il governo ha cercato in tutti i modi di oscurare il vittorioso percorso marocchino censurandone le partite, ma la fratellanza tra i due popoli va ben oltre le dispute governative e gli algerini si sono riuniti davanti ai televisori come se giocasse la loro squadra, come se le divergenze non esistessero, celebrando la loro comune identità maghrebina e berbera. Nell’Africa Subsahariana e nella regione del Sahel stesso entusiasmo, stesse felicitazioni.
L’identità nella quale si sono rispecchiati tutti questi Paesi e tutti questi popoli non è solo frutto di cultura e religione condivise, ma proviene da una eredità storica analoga, quella della colonizzazione. Non a caso le vittorie raggiunte dal Marocco hanno inebriato tutti. Belgio, Spagna, Portogallo e per poco Francia. Paesi che per secoli hanno non solo sfruttato risorse e colonizzato interi popoli dell’area, ma destrutturato secoli e secoli di culture, lingue, annientandone l’identità.
Popoli che adesso reclamano la loro esistenza a gran voce. I mondiali hanno dato modo di riscattare, almeno simbolicamente, centinaia di anni di soprusi regalando un senso di fiducia collettiva che si crede possa perdurare negli anni a venire. “Spero che la nostra performance possa liberare molti giovani africani. Abbiamo giocato in rappresentanza del continente”, così ha commentato l’allenatore del Marocco, Walid Regragui.
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