Bologna 2 agosto 1980: sicari e mandanti
di DOPPIOZERO (Giorgio Boatti)
Il libro, appena pubblicato da Feltrinelli, con cui Paolo Morando affronta le implicazioni non solo giudiziarie ma storiche e politiche dell’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, è parte di un impegno più ampio del giornalista e saggista trentino. Infatti prosegue, con coerenza di metodo e confermato rigore, il lavoro con cui ha già attraversato una parte non irrilevante della lunga stagione stragista della nostra storia.
Bologna, 2 agosto: viaggio nella stagione stragista
In realtà, Morando era partito nel 2009 con Dancing days. 1979-1980. I due anni che hanno cambiato l’Italia.
Quel libro, uscito da Laterza, era una mossa e densissima istantanea. Morando riusciva a rendervi uno di quei momenti in cui le diverse traiettorie – politiche e istituzionali, economiche e mediatiche, generazionali e culturali – che si muovevano nel Paese sembravano intersecarsi. Intrecciandosi le une alle altre in modo nuovo e spiazzante. Alcune dissolvendosi e facendo posto a nuove forme, nuove mode. Altre sovrapponendosi. Mutando di pelle, rivelando ben altre nervature rispetto a quelle che sembravano intravedersi nel loro inatteso sporgersi.
In nuce, dentro quei due anni, si mescolavano e si rielaboravano ingredienti che sarebbero stati poi connotativi di molti tratti tutt’altro che irrilevanti del “riflusso”. Ovvero di quella stagione di vita collettiva che, come un’inesorabile esondazione, avrebbe fatto tana nelle “aree golenali” di passività civile e di facile adattamento all’omologazione culturale che, insospettate e silenti, erano, e sono, parte della morfologia del carattere italiano.
Solo che Morando non si accontentò di delineare quell’affresco di un mutamento solstiziale – e, non dimentichiamolo mai, vi sono solstizi che aprono alla luce e altri conducono all’incombere del buio.
Con una bellissima pagina di giornalismo d’inchiesta Morando, con quel libro, focalizzò con esattezza la spinta, apparentemente lieve e quasi casuale, che mise in movimento quella slavina.
Era una lettera, pubblicata dal “Corriere”, che faceva da pianificato detonatore al girar di pagina mediatico. E dava il là a quell’esplosione – non di una bomba, in questo caso, ma di segni, di simboli e di stimoli – che era riuscita a ridisegnare in un pugno di mesi l’interiorità degli italiani. Il loro nuovo paesaggio sociale, le dinamiche comunitarie, gli orizzonti e i timori in fieri. Tutto quanto, dunque, andava a prendere alloggio nell’immaginario dei nostri connazionali. E non solo. Perché analoghe operazioni stavano dispiegandosi in tutti i principali Paesi dell’Occidente.
Sotto questi cieli la bussola del futuro si andava dirigendo su nuovi punti cardinali. Puntava verso l’intimismo, la fuga dall’impegno sociale e politico, gli incanti di edonismi più o meno reaganiani.
Solo che nessun lettore aveva mai davvero scritto quella lettera-detonatore apparsa sulla prima pagina del “Corriere” che scatenò la nuova stagione. Come scrissi, sul quotidiano “La Stampa”, all’uscita di Dancing days, Morando, “con quella riuscita pagina di giornalismo d’inchiesta, …aveva fatto intravedere come dietro il decollo del “riflusso” fossero operanti anche insospettate regie. Suggeritori che ne avevano guidato lo spartito, ne avevano determinato i ritmi… In perfetta sintonia con uno “Scenario”, fattosi realtà, circolato mesi prima ai piani alti del maggiore gruppo editoriale italiano”. E, viene da dire col senno di poi, non solo ai piani alti dell’editoria.
Ricostruire la “verità effettuale” dell’accadere delle cose, nelle vicende più tragiche della nostra storia recente, cogliendone aspetti decisivi e rivelatori ma sovente sfuggiti o sottovalutati in altre ricostruzioni, pare essere la connotazione che accomuna anche i successivi saggi di Paolo Morando, a cominciare da 80. L’inizio della barbarie che di Dancing days è il seguito.
Viene poi il poderoso trittico, sempre uscito da Laterza, composto da Prima di Piazza Fontana. La prova generale, 2019; Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri, 2021; L’ergastolano. La strage di Peteano e l’enigma Vinciguerra, 2022.
Quei sicari sedicenti spontaneisti e irriducibilmente neofascisti
Lo spazio è tiranno. Perlomeno quanto il tempo qui concesso a chi scrive dal lettore.
Così, di quei lavori, non si può qui mettere in risalto proprio quel particolare cuneo investigativo e interpretativo che, per ognuna delle vicende affrontate, fa emergere quanto non era stato esaustivamente e debitamente colto in precedenti ricostruzioni. Mentre Morando, operando con intelligenza e acribia, consente ai lettori di fare qualche passo in avanti.
Non solo nell’effettiva comprensione dell’accadere delle cose ma, anche, sul modo con cui le dinamiche del controllo e del comando utilizzati dagli apparati del segreto e della forza funzionano da noi. Dispiegandosi in una sorta di fisiologia che ha le sue regole e le sue continuità. E, in sintonie con queste, incide e determina, almeno in parte, la “realtà effettuale” dell’accadere delle cose nella nostra contemporaneità.
La “realtà effettuale” della strage di Bologna (quella con il più elevato numero di vittime nel pur impressionante succedersi di attentati terroristici che scandiscono la lunga stagione delle bombe nel nostro Paese) è ricostruita ora in La strage di Bologna. Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito, Feltrinelli editore.
Morando vi si cimenta attingendo con scrupolo a una documentazione imponente. Quasi un arcipelago di materiali – sentenze, verbali di dibattimenti, richieste di rinvio a giudizio, arringhe delle difese e memo vari – dove è facile smarrirsi. Perché questa vicenda giudiziaria, che dopo mezzo secolo non è ancora conclusa, è composta a strati. Corrispondenti alle piste delle inchieste e al susseguirsi dei vari processi e gradi di giudizio collocati nell’arco di vari decenni.
Quello che ne deriva è una un’architettura documentaria straripante, tanto massiccia quanto sbilenca. Dove la verità giudiziaria, espressa in sentenze giunte a conclusione di dibattimenti disseminati lungo quasi nove lustri, spesso sgomita con le restanti zone d’ombra mappate dalla verità storica. Fronteggia anche terre di nessuno: dove le sentenze passate in giudicato e le condanne inflitte agli esecutori, individuati essenzialmente nel nucleo dei Nar, la formazione sedicente spontaneista e irriducibilmente neo-fascista, ventenni che avevano in Giusva Fioravanti e Francesca Mambro gli esponenti operativi di più marcato riferimento, non avevano afferrato – prima dell’ultimo pronunciamento – il bandolo dei mandanti e degli organizzatori.
Ai mandanti ripercorrendo il flusso dei soldi
Ora invece con il pronunciamento della Corte d’Assise di Bologna dell’aprile del 2022 è emerso come la Procura generale abbia ritenuto di aver individuato, attraverso un articolatissimo lavoro sui conti segreti esteri e sulle transazioni finanziarie che vi si riscontrano, i mandanti e finanziatori della strage. Sono infatti emersi i nomi di Licio Gelli, Umberto Ortolani (ovvero i dominus della P2, già registi di tutta la trama che nei primi anni Ottanta divora il Banco Ambrosiano, elimina il banchiere Calvi, terremota il più rilevante gruppo editoriale italiano); il prefetto Federico D’Amato, capo e a lungo eminenza grigia dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno come ha raccontato Giacomo Pacini nella biografia La Spia intoccabile che gli ha dedicato e, infine, Mario Tedeschi, per oltre 35 anni direttore di “Il Borghese” e già senatore missino. Nonché sodale di D’Amato in diverse operazioni di disinformazione dispiegate in vicende cruciali della storia italiana.
Con il suo più recente pronunciamento la Corte d’Assise di Bologna (sempre nell’aprile 2022) ha condannato all’ergastolo Paolo Bellini (pluriomicida confesso, killer della ‘ndrangheta e poi collaboratore di giustizia). Così, in attesa ovviamente che su questo imputato si completino tutti i successivi gradi di giudizio, si definisce il quintetto a cui viene attribuita l’esecuzione materiale della strage del 2 agosto.
Quintetto composto dai militanti del Nar, Francesca Mambro, Giusta Fioravanti, Luigi Ciavardini (condanne definitive, all’ergastolo per i primi due; trent’anni al terzo) a cui si è successivamente aggiunto Gilberto Cavallini (condannato all’ergastolo, in primo grado). A loro, con l’ultima sentenza, si affianca – proveniente da altra traiettoria neo–fascista impastata con parecchi altri ingredienti – Paolo Bellini. Individuato, in un filmato amatoriale che inquadrandolo in stazione poco prima dell’attentato, va a smentire un fragilissimo alibi che lo pretendeva altrove.
Bellini, una carriera criminale multitasking
Su Bellini il saggio di Morando si sofferma ampiamento e con debite ragioni. Infatti è figura nella quale quasi in modo esemplare si intrecciano e si sovrappongono tanti ruoli. Tutti inseriti in un curriculum criminale – omicidi e furti, attentati e intimidazioni – che, dopo il servizio militare come parà e l’iniziale militanza politica in Avanguardia Nazionale, si spalma tra l’Italia, alcuni paesi europei e il Sud America.
È una carriera, quella di Bellini, che si dispiega per anni sotto l’occhio protettivo di ramificazioni del mondo sotterraneo di agenti segreti e militanti neo-fascisti a lungo coinvolti in operazioni di guerra non ortodossa. Accanto, a far da spalla protettiva, emergono notabili locali in odore di massoneria, funzionari infedeli delle forze dell’ordine. Nonché un alto magistrato, incaricato all’inizio delle investigazioni sulla strage e poi diventato responsabile del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, legato alla famiglia del Bellini e coinvolto in pesanti depistaggi sulle prime indagini.
Un intreccio magmatico – non è il “Deep State”, è ancora peggio, più melmoso e miserabilmente protervo, vorace e feroce nel difendere le proprie prerogative di privilegio e di segretezza – che delinea un contesto inquietante. Una sorta di sordida cabina di regia che fa da camera di compensazione tra criminalità comune di alto calibro e organizzazioni terroristiche, reti neofasciste e filiere affaristiche in combutta con servitori dello Stato che calpestano il loro dovere, sabotando l’impegno di tanti loro meritevoli colleghi. Un contesto sommerso ma di micidiale pericolosità soprattutto quando, di tanto in tanto, ha bisogno di usare la forza, con modalità sotto-traccia, per continuare ad essere quello che è. E che intende continuare ad essere.
Nascono così, da questo retroterra, operazioni mirate, di fulminante violenza, per scansare avversari e tacitare pericoli. Per punire competitori. Per silenziare chi non soggiace. O ha capito o saputo e mette così a rischio fragilissimi equilibri di interessi. Di carriere. Di operazioni coperte.
Di Bellini, Morando nel suo libro delinea, con esattezza che non si trova in altre ricostruzioni (ad eccezione delle due biografie che gli dedica Giovanni Vignali, La Primula Nera. Paolo Bellini, il protagonista occulto di trent’anni di misteri italiani, Aliberti editore, 2009; e L’uomo nero e le stragi. Dall’eccidio di Bologna alla Trattativa con la mafia. Il mistero del neofascista Paolo Bellini, PaperFirst 2021) e dell’accurata ricostruzione con cui lo inquadra Antonella Beccaria, la più esaustiva cronista della vicenda giudiziaria del 2 agosto (Dossier Bologna. 2 agosto 1980: i mandanti della strage, PaperFirst 2020), l’assai specifica connotazione del ruolo delinquenziale che indossa con duttile determinazione. Non solo nella strage bolognese ma nei mutamenti che negli scorsi decenni vanno a ridisegnare la morfologia criminale calata sulle nostre comunità e sui territori della penisola. Basti pensare, ad esempio, alla decina di esecuzioni mirate, su commissione della ‘ndrangheta, che Bellini si è auto-attribuito nelle confessioni che gli aprono, tra le tante vite che percorre, anche la carriera di “collaboratore di giustizia”.
Non è certo solo questo spaccato, ricostruito con ampiezza di documentazione e precisione di analisi, uno degli aspetti rilevanti del nuovo libro di Morando sulla strage di Bologna.
Una successione di omicidi e un soave tradimento
Nella seconda parte Morando si sofferma su un altro aspetto esemplare che si diparte e confluisce attorno al manipolo dei bombaroli assassini autori della strage. In particolare l’attenzione si focalizza sul duetto Mambro-Fioravanti che, condannati in modo definitiva all’ergastolo per la strage, hanno sempre negato la loro responsabilità nell’attentato. E contrapposto la loro asserita innocenza, sulla carneficina del 2 agosto, rispetto all’ammissione – peraltro su fatti incontrovertibili e asseverati – dell’impressionante successione di omicidi e altre azioni criminali (la sintesi la si trova, assieme all’archivio delle sentenze e delle inchieste al sito dell’associazione vittime del 2 agosto 1980) che hanno segnato la cruenta irruzione dei Nar nelle cronache politiche italiane a cavallo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta.
La coppia ha sempre negato la responsabilità della strage ma ammesso le azioni per le quali la Mambro ha accumulato, per svariati omicidi e altri gravissimi reati, la condanna a 9 ergastoli e il Fioravanti, per analoghe azioni, 6 ergastoli. Condanne per le quali i due hanno scontato effettivamente in carcere rispettivamente 16 anni la prima e 18 anni il secondo.
La libertà della coppia, impegnata una volta uscita dal carcere nell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, è stato resa possibile da un incontro che, dentro il libro di Morando, rappresenta uno spaccato tanto paradossale quanto doloroso ed emblematico degli intrecci che si saldano e si scontrano dentro questo infinita vicenda della strage del 2 agosto. In sintesi – racconta Morando – la sorella di una delle vittime, Mario Di Vittorio, dopo aver conosciuto e sposato Gian Carlo Calidori, che nella strage ha perso un amico, intrattiene con la coppia di terroristi ancora incarcerata una lunga corrispondenza. Alla fine sottoscrivono la lettera di “perdono” che consente alla Mambro di tornare libera. Passano gli anni ed ecco che i sostenitori dell’innocenza di Mambro e Fioravanti, attraverso un esponente della destra, finiscono col sostenere, senza alcun valido elemento, che il “corriere” della bomba fosse proprio il Di Vittorio. “Ipotesi alla quale senza imbarazzi aderiscono – scrive Morando – proprio Mambro e Fioravanti”.
I piatti forti del libro che Morando dedicata alla strage del 2 agosto 1980 sono diversi. Sono rappresentati sicuramente, seppur con ovvia e diversa rilevanza, dal “perdono tradito” di Mambro e Fioravanti e dagli incastri di elementi che non consentono di escludere, a differenza di quanto i due hanno sempre asserito nonostante la condanna definitiva, la loro estraneità rispetto alla strage. Rilevante è poi la parte dedicata al ruolo nella strage, ma non solo, di un free-lance dei “lavori sporchi” come Bellini, inquietante spia di connessioni rimaste a lungo sottotraccia. Tutt’altro che secondaria, infine, è la focalizzazione, attraverso la documentazione di imponenti giri di denaro su conti esteri emersa dal lavoro di indagine della Procura di Bologna, dei flussi di finanziamenti che dai mandanti si presume siano andati a sostenere la rete del terrore. E, credibilmente, coperto omertà e silenzi di chi era stato coinvolto ed assoldato per queste azioni inconfessabili.
“Neutralizzazioni” di Stato: quel che si sa, quel che si tace
Ed è a questo punto che all’osservatore dei mondi sommersi che fanno da sfondo a queste vicende, che hanno ferito a lungo la nostra convivenza civile e la nostra storia comune, viene da avanzare una comparazione, con altre realtà, su cui, da noi, non ci si è mai soffermati adeguatamente. E che, a differenza di quel che è accaduto in altri Paesi, continuano a essere rimosse dal pubblico confronto.
Riguardano il tema delle “neutralizzazioni” con cui, il potere che nel suo nucleo più riservato e duraturo pilota la ragion di Stato e sta a guardia del segreto, in diversi Paesi a noi vicini, e in tempi prossimi al nostro, non nel Medioevo o nel Rinascimento, ha “accordato il permesso di uccidere”. Delegandolo a strutture al suo servizio, addestrate e specializzate in questo tipo di azioni.
Chi vuol cominciare ad aprire gli occhi su questo tema e su come è stato e viene gestito in un Paese a noi vicino, come la Francia, non ha che da cominciare a leggere i capitoli di Les tueurs de la Répubblique. Assassinats et opérations spéciales des services secrets (Fayard, 2015) dove Vincent Nouzille, a suo tempo grande firma di L’Express e quindi giornalista investigativo per Le Figaro Magazine, percorre un bel tratto di silenziose operazioni che dai tempi dei “barbouses” al servizio di De Gaulle e del suo uomo di mano, Foccart, arrivano sino a tempi più recenti. Ad esempio sino ai dintorni del mite Hollande, passando per Mitterand e Chirac, Sarkozy e per altri inquilini dell’Eliseo. Ma chi vuole addentrarsi su questo tema soffermandosi su un caso emblematico non ha che da leggere, di Denis Langlois, L’Affaire Saint-Aubin, (Editions de la Différence, ripubblicato nel 2019).
Lì si apprende come nonostante siano trascorsi quasi sessanta anni non si sia riusciti a rompere il segreto di stato che ha avvolto l’incidente stradale nel quale la mattina del 5 luglio 1964 muoiono due giovani. Apparentemente la loro Volvo nera sbanda, finisce contro un platano secolare, e loro perdono la vita. Secondo le autorità sono, come altre 1200 persone quell’anno, vittime della strada. Le loro famiglie, sconcertate dall’inverosimiglianza delle prime ricostruzioni, non accettano questa versione e aprono una lunga battaglia giudiziaria che si articolerà in ben 26 dibattimento processuali.
Il segreto di stato non sarà mai infranto ma dalle varie inchieste emergerà come quella mattina un nucleo dei servizi stesse attendendo, su quella strada, il passaggio, su una Volvo nera, con targa svizzera simile a quella delle due vittime, di uno dei cassieri dell’OAS, l’organizzazione terroristica che ha cercato di uccidere De Gaulle. E contro la quale il generale ha scatenato i suoi “barbouses”. Ovvero il reparto neutralizzazioni dei servizi segreti, incaricati di colpire gli esponenti più in vista del reseaux che a suon di attentati e uccisioni ha operato in Algeria e sul territorio metropolitano. Però i killer di stato, su quella strada che viene dal Frejus, sbagliano obiettivo. Colpiscono, con un camion militare che poi si dilegua, una vettura simile ma che non è quella dell’esponente da eliminare. La scagliano fuori strada. E i due occupanti vi perdono la vita.
Anche in Italia platani assassini collocati sul posto sbagliato hanno tagliato per sempre traiettorie di persone diventate scomode.
Del resto vicende di questo genere, più o meno analoghe, prendono posto in altri paesi occidentali, dove il “Deep State” che sta a guardia del segreto e dei sancta sanctorum del potere, non solo dispone dentro gli apparati di nuclei specializzati per la bisogna. Sono state elaborate, anche, e da tempo, linee guida e modalità dettagliate con cui agenzie e reparti operanti sulla sicurezza, controterrorismo, anticrimine, devono gestire questo tipo di azioni.
La bibliografia sul tema si sta estendendo e anche il pubblico confronto, in alcuni Paese è in corso da tempo (Cfr. Spectator, 6 ottobre 2020, Matthew Scott, The terrifying consequences of the “licence to kill” bill. Nonché il dibattito alla Camera dei Comuni, il 5 ottobre 2020, sul “Covert Human Intelligence Sources Criminal Conduct Bill”). Investendo confini che vanno ben oltre il “targeted killing” ormai consolidato e diffuso su teatri di guerre più o meno asimmetriche. Si soffermano invece su aspetti di queste azioni che non hanno a che fare con le spy-stories ma sembrano farsi ben più prossime alla vita quotidiana dei cittadini.
Alcuni addetti ai lavori sostengono che, rispetto a queste “azioni” l’Italia, per ragioni assai complesse, che hanno a che fare non solo con la nostra Costituzione e la nostra cultura politica, ma anche con le modalità di ricostituzione dei nostri apparati militari e di intelligence dopo il trattato di pace, si sia astenuta dall’imitare quanto accade in altri Paesi. Spesso nostri alleati.
Questo solo apparentemente però.
Quindi, così almeno sostengono alcuni che si presume siano stati addentro le segrete cose nei decenni passati, ci si è arrangiati. All’italiana.
Ovvero? Pare appaltando di volta in volta i “lavori sporchi”, attraverso le dovute coperture e le più o meno riuscite mimetizzazioni, a battitori liberi. Intuitivamente professionisti della criminalità organizzata e, in periodi più infuocati, formazioni che si connotavano per picchi di azioni terroristiche in cui colpivano, in nome della violenza spontaneista, un ventaglio quasi indecifrabile di obiettivi più o meno conosciuti e significativi.
Dentro i quali, però, c’erano a volte le vittime designate, o suggerite, da committenti, mandanti, e finanziatori, destinati ovviamente a rimanere nell’ombra. Ma, anche, a non essere del tutto al riparo dei ricatti di chi aveva operato al loro servizio. Figure difficili da maneggiare e che, talvolta, possono essere state tentate di alzare la posta, in termini di soldi o di impunità rispetto ad altri ambiti di attività, legata alla propria prestazione. Elementi disposti, dunque, in caso di diniego, a scatenare azioni spietate, vere rappresaglie, cruente e clamorose. Anche se non decifrabili, se non dai pochi guardiani dei segreti.
Ma tutte queste, ovviamente, sono considerazioni generali e teoriche. Forse chiacchiere che non camminano sulla ruvida realtà dei fatti e di documentate asseverazioni. Ingredienti che invece, nell’irrinunciabile e prezioso libro di Paolo Morando, aiutano a fare un po’ più di luce sugli intrecci che confluiscono e si dipartono dalla strage di Bologna.
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