Spread a 300, che bello che bello che bello
di CARLO CLERICETTI
Chi ha osservato in questi ultimi tempi l’andamento dello spread ha notato una certa regolarità nel suo andamento. Spesso a inizio seduta si impenna, poi a metà giornata torna giù, poi fa qualche altro zigzag prima della fine della seduta. Da quando è iniziato lo scontro fra il governo gialloverde e la Commissione europea si sta muovendo in una fascia che va grosso modo fra 270 e 330, e non sembra granché sensibile alle buone o cattive notizie che la cronaca propone, e anzi qualche volta sembra andare al contrario di quello che la logica farebbe supporre.
Una tesi per spiegare questo singolare comportamento l’ha esposta Antonio Pedone, economista di lungo corso che molti chiamano “maestro” e che nella sua carriera è stato anche consulente di vari governi. Pedone ricorda una recente intervista a Jamie Dimon, il capo della potente banca d’affari JP Morgan, uno di quegli istituti che “fanno il mercato”. Uno spread intorno ai 300 punti, ha detto Dimon, per l’Italia è largamente sostenibile: non crede al rischio di default, ma la situazione politica e lo scontro con l’Europa sono una buona occasione per chiedere interessi più alti sui prestiti. Senza esagerare: in pratica, Dimon ha detto che si spreme dalla mucca quanto più latte possibile, ma farla morire non converrebbe.
Ma uno spread a 300 – ha proseguito Pedone – almeno fino alle elezioni europee conviene anche al nostro governo, per alimentare la polemica e tenere alta la tensione contro “il nemico esterno” in modo da compattare i ranghi degli elettori. E quanto ai zigzag, che c’è di meglio per tutti gli operatori finanziari di attività che si muovono in continuazione, ma restando all’interno di una certa fascia? Poco rischio e possibilità di lauti guadagni. Insomma, uno spread così sembra convenire a tutti e quindi probabilmente così continuerà. E però, ha proseguito l’economista, per l’Italia è come tirare avanti con la febbre alta: non si muore, ma se resta su quei livelli troppo a lungo ci si debilita.
Pedone ha esposto questa tesi in occasione della presentazione del Rapporto Cer (il 3/2018) dedicato alla manovra del governo. Il giudizio del Cer è decisamente negativo, ma con motivazioni diverse e ben più articolate di quelle della Commissione europea. Bisogna ricordare che il Cer è stato il primo a demolire la metodologia utilizzata dalla Commissione, e anche in questo rapporto ribadisce le sue critiche, riportando le conclusioni di uno studio di Fantacone, Garalova e Milani. In quello studio si evidenziano “i molti limiti delle misurazioni proposte dalla Commissione, che risultano scarsamente significative in termini econometrici, troppo mutevoli nel tempo e fortemente condizionate dallo stato del ciclo economico. Una cattiva tecnica ha in tal modo imposto ad alcuni paesi dell’Eurozona, tra cui l’Italia, elevate perdite di prodotto e alti costi sociali”.
L’analisi del Cer non si basa dunque sugli arzigogoli arbitrari del Pil potenziale e dell’output gap tanto cari ai tecnocrati di Bruxelles. Ma non per questo le conclusioni sono meno negative. La frase chiave è questa: Per avere efficacia, l’espansione del bilancio pubblico deve realizzarsi in un contesto di limitato rialzo dei tassi e di non deterioramento della fiducia degli operatori. Solo in questo caso l’aumento del deficit può configurare un recupero di autonomia decisionale della politica economica. L’esito è altrimenti opposto, con un aumento del grado di dipendenza del sistema economico dalle valutazioni dei mercati finanziari”. E questa manovra, fatta per due terzi di aumento della spesa corrente finanziata in deficit, non è certo di quelle che piacciono agli operatori finanziari.
Tanto più che negli stessi documenti governativi è scritto che la produttività stimata dal quadro tendenziale (DEF) con la manovra (NADEF) ottiene aumenti insignificanti.
Ma allora non si doveva intervenire contro la povertà e la disoccupazione, non si dovevano toccare le norme sulle pensioni? E’ del tutto legittimo, osserva il rapporto, che il governo voglia perseguire modifiche del sistema di welfare, ma queste misure “dovrebbero trovare il proprio finanziamento all’interno del processo distributivo”: in altre parole, se si vogliono aiutare alcune categorie di cittadini in difficoltà, le risorse bisogna prenderle da qualche altra categoria che sia in condizioni più prospere.
Insomma, non si può dar torto all’economista Claudio De Vincenti, ministro nel governo Gentiloni e sottosegretario nei tre precedenti, chiamato anch’egli a commentare la manovra. “Il problema – ha detto – è che questo governo non sembra avere una linea di politica economica”. Il che dipende anche dal fatto che gli eventi hanno fatto coalizzare due forze politiche non omogenee, che per giunta avevano preso impegni elettorali costosi promettendo insieme (almeno la Lega con la flat tax) di ridurre le tasse. Ma le politiche di austerità e poi quella delle mance non hanno fatto meno danni.
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