Un po’ di storia per ricordare la reale natura dell’Ue
da LA CITTA’ FUTURA (Renato Caputo)
Nel processo di unificazione europea ogni rilevante decisione strutturale è stata sistematicamente sottratta a ogni forma di controllo popolare. Alla base dell’Unione europea vi è, in effetti, il dogma monetarista secondo il quale, per garantire il libero sviluppo del dio mercato bisogna considerare non eretiche le sole politiche macroeconomiche volte al pareggio del bilancio.
Il progetto sciovinista di un esercito dell’Unione europea è – per così dire – bipartisan, cioè pienamente condiviso tanto dal centrodestra quanto dal sedicente centrosinistra. Così, gli scopi dell’esercito europeo erano già chiariti da M. Minniti – che passerà dallo svolgere funzioni importanti di governo, al consiglio di amministrazione di Leonardo, la principale industria bellica italiana – in un intervento volto a esporre alle élites militari la politica relativa alla difesa d’un futuro governo di “centrosinistra”. Si tratta di dar vita a un “nuovo ordine mondiale!”, “promuovere la diffusione della democrazia”, “stabilire le regole entro le quali l’uso della forza può essere legittimo”, comporre “una forza di sicurezza e di mantenimento della pace che accompagni la stabilizzazione per un periodo, parliamoci chiaramente, anche non breve”; completare il “progetto di difesa europea” per essere “alleato serio ed affidabile degli Stati Uniti”; “a corollario” dar vita a “una forza europea di gendarmeria (…) che avrà status militare e sarà utilizzabile in scenari operativi di intervento rapido a maggior rischio al fine di garantire servizi di sicurezza e di ordine pubblico”.
È, dunque, “una risorsa strategica prima ancora che un fornitore indispensabile di beni e servizi destinati alla sicurezza nazionale”. Confermando nella sua analisi, inconsapevolmente, il nesso marxista fra crisi di sovrapproduzione e guerra (imperialista), Minniti vede nel keynesismo militare, seguendo il modello statunitense, la migliore soluzione alla crisi che affligge il paese e, aggiungiamo, noi il continente: “l’industria della difesa deve essere sostenuta dalla committenza pubblica e da una politica industriale che le consenta un adeguato sviluppo” [1].
Del resto, Minniti, accusando il precedente governo di non aver aumentato in modo adeguato le spese belliche, sostiene che non si tratta d’una questione meramente militare, ma di un problema di politica industriale: l’“industria della difesa è l’unico settore ad alta tecnologia potenzialmente competitivo nel nostro paese”. Minniti omette, nell’accusa al governo precedente di non aver aumentato a sufficienza le spese militari, che in realtà erano aumentate del 22%, a fronte di tagli sostanziali alle spese sociali, giustificate dalla necessità di rispettare i vincoli del patto di stabilità. La “sinistra” moderata, che si è fatta paladina di un più rigido rispetto dei vincoli europei alla spesa pubblica, dovrebbe chiarire allora dove intenderebbe prendere tali risorse atte ad aumentare le spese belliche, necessarie oggi in funzione dell’escalation militare per interposta Ucraina ai danni della Federazione russa.
Le strutture militari di cui si sta dotando l’Ue sono, dunque, funzionali a un’economia a capitalismo avanzato in crisi di sovrapproduzione, che tende necessariamente alla conquista o al controllo di mercati e materie prime nel Terzo mondo. Il monopolio della violenza, di cui godrebbe l’Ue, sarebbe dovuto essere vincolato a un Trattato costituzionale che implica, per i paesi firmatari, l’uso legittimo della forza di fronte a ogni “minaccia” all’“economia di libero mercato” su cui si fonda, sia nel caso tale minaccia sia costituita da movimenti insorgenti, sia da processi di transizione a un’economia pianificata. Più in generale, il Trattato prevedeva la ristrutturazione degli apparati militari dei paesi membri per renderli funzionali a operazioni militari offensive anche a migliaia di chilometri dalle sue frontiere.
Altrettanto allarmanti sono le restrizioni degli spazi di democrazia formale borghese causati dal Trattato costituzionale europeo sin dal suo concepimento. Certo il Trattato è stato sonoramente bocciato negli unici referendum popolari tenutisi, ma come sappiano è stato poi fatto passare, senza dare nell’occhio, un pezzo alla volta, per essere infine, di fatto, sussunto nel trattato di Lisbona. Il Trattato costituzionale è stato redatto da una Convenzione composta da membri scelti dai differenti governi che neppure sapevano che dai lavori di tale organismo, sottratti ad orecchi indiscreti – cioè la pubblica opinione – sarebbero stati stabiliti i fondamenti della Costituzione europea. Questa subirà una ulteriore elaborazione in senso radicalmente liberista dal Consiglio europeo, composto dai rappresentanti dei governi. Inutile ricordare che tutto quel che si è deciso in tale assise è stato reso pubblico solo a cose fatte, tanto che non pochi sostenitori della Costituzione continuavano a difenderla sulla base d’un testo oramai privo di valore.
Si tratta evidentemente di una Costituzione imposta oligarchicamente da un gruppo di tecnocrati ai popoli europei che non hanno potuto eleggere né una Assemblea costituente, né sono stati informati e tanto meno coinvolti nel processo di definizione delle leggi. Da un trattato si è preteso di derivare una costituzione da imporre mediante voti parlamentari a masse del tutto passivizzate, nei casi in cui le legislazioni nazionali non imponessero il passaggio referendario. Ci voleva il coraggio dell’allora presidente della Commissione europea Prodi per affermare che: “il Trattato costituzionale è nato da un vero dibattito democratico” [2], offrendo così un’anticipazione del modello di democrazia cui si sarebbe richiamato il suo governo di “centrosinistra”.
Dunque, sin dal suo tormentato parto, il Trattato costituzionale revoca il diritto di sovranità dei popoli, conquistato a partire dalla Rivoluzione Francese, del tutto a vantaggio dei nuovi oligarchi, i proprietari monopolisti dei grandi mezzi di produzione. Nessun membro elettivo di un parlamento dei paesi europei potrà giurare d’essere fedele alla propria Costituzione senza esser cosciente di dover violare necessariamente la sua promessa. Le diverse costituzioni degli stati membri, spesso nate dal sangue e dalle lotte della Resistenza, sono nullificate da un Trattato improntato al liberismo di matrice statunitense o, peggio, cilena.
Del resto, pur lasciando da parte la Costituzione, nel processo di unificazione europea qualsivoglia importante decisione strutturale è stata sistematicamente sottratta a ogni forma di controllo delle masse. Alla base dell’Unione europea vi è, in effetti, il dogma monetarista secondo il quale, per garantire il libero sviluppo del “dio mercato” bisogna considerare non eretiche le sole politiche macroeconomiche volte al pareggio del bilancio. Da ciò deriva la sacrale autonomia della Banca Centrale Europea, cittadella proibita per gli intoccabili rappresentanti eletti della politica. Il Trattato di Maastricht, vero e proprio credo della Costituzione europea, in sostanza ripreso e sviluppato nel Trattato di Lisbona, sottrae alla legittimazione popolare le leve principali del governo dell’economia.
Al Parlamento europeo, del resto sempre più composto di professionisti al servizio delle multinazionali, viene lasciato il governo di una sovrastruttura, la cui ideologia è stata sancita alle sue spalle dalla Commissione, mentre la struttura rimane saldamente nelle mani di tecnici, banchieri, economisti e manager. D’altra parte, al di là delle menzogne degli apologeti della Costituzione, lo stesso Trattato costituzionale sottrae al Parlamento, insieme al controllo sulle risorse economiche, il potere legislativo. L’Articolo I-26, 2 parla chiaro: “un atto legislativo dell’Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione”. La Commissione e il Consiglio dei Ministri, organismi non eletti dai popoli europei, conservano nelle proprie mani il potere di fare leggi e applicarle, mentre al Parlamento è sottratto qualsiasi potere di governo e di controllo in materia monetaria e commerciale.
La Costituzione europea, del resto, avrebbe dato unicamente la spallata finale per far crollare le legislazioni nazionali più avanzate dal punto di vista sociale e politico. I precedenti trattati, che vincolavano i diversi governi, avevano già assestato un duro colpo alle conquiste del movimento dei lavoratori in materia di sicurezza sociale. Il dogma liberista, che rifiuta sdegnosamente ogni politica di regolazione economica alla base della Costituzione, non fa che sancire una lunga serie di sconfitte di classe da parte dei lavoratori. Che i padroni trionfanti non intendessero fare prigionieri pare evidente dal confronto fra Trattato costituzionale e Costituzione italiana. Se quest’ultima ancora pretende, bolscevicamente sosteneva Berlusconi, di subordinare il governo dell’economia a “fini sociali” [3], nel Trattato europeo sono i poteri pubblici a essere ridotti a mere appendici del principio di sussidiarietà. L’amministrazione pubblica ha oramai una funzione residuale, di supplenza alle “forze del mercato”, nel caso in cui i privati non fossero ancora in grado di trarre un consistente profitto da una qualche attività o servizio sociale.
Essendo le grandi decisioni assunte sempre più lontano dai lavoratori e dalla loro possibilità di reazione, essi sono vieppiù passivizzati, anche a causa del senso d’impotenza, per cui finiscono non di rado per reputare maggiormente utile occuparsi di microproblemi individuali, perdendo di vista quei macroproblemi che ne sono la causa. Tuttavia questi ultimi, risolvibili almeno parzialmente con una tassazione generalizzata dei grandi patrimoni o con l’assicurazione d’un salario minimo, non trovano soluzione neppure a livello europeo. La Costituzione rappresenta un sostanziale regresso rispetto alla maggior parte delle legislazioni nazionali. Il diritto di sciopero è posto sullo stesso piano del diritto padronale alla serrata; il “diritto al lavoro” è sostituito con il “diritto di lavorare e di cercarsi un lavoro”, mentre non vi è neppure un cenno al diritto alla pensione, ai sussidi di disoccupazione, a un minimo di salario, all’abitazione, all’aborto ecc.
Con buona pace di tante anime belle della sinistra, che si illudono di poter volgere in senso progressivo l’unificazione europea, va osservato che la borghesia ha prevenuto tale possibilità imponendo l’unanimità degli Stati membri per la legislazione sociale e fiscale. Dunque, se non si sarà in grado di mettere in campo un livello di conflitto sociale in tutti gli Stati membri, tale da rovesciare gli attuali rapporti di forza del tutto sfavorevoli, non potrà essere stilata alcuna legge quadro europea che riduca gli attuali livelli di sfruttamento. L’unanimità attualmente prevista implica necessariamente la paralisi di ogni legislazione sociale.
Note:
[1] Le citazioni sono tratte dall’intervento di M. Minniti al convegno su Le nuove sfide della Difesa italiana, promosso dalla maggiore forza del centrosinistra a Roma. Per ascoltare l’intervento clicca qui.
[2] Prodi, Romano, Il progetto della nuova Europa, in «la Repubblica» del 11 gennaio 2005.
[3] Gli articoli della Carta Costituzionale da ricordare a tale proposito sono l’art. 3 (comma 2), l’art. 41 e l’art. 46.
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