Dalla Moldavia alla Georgia: l’arco di crisi intorno all’Ucraina
di INSIDEOVER (Emanuel Pietrobon)
Le periferie di cui i tre mondi del sistema internazionale sono ripieni, dagli Stati fantoccio ai rimasugli dell’età coloniale, sono in fermento. In parte lo sono sempre state, ché già negli anni Novanta si parlava di guerra mondiale in frammenti, a causa di Somalia, Iugoslavia, Iraq e alba del Jihād globale. In parte è colpa della competizione tra grandi potenze, se nei quartieri dormitorio ai margini delle metropoli e se nei suburbi del Sud globale si respira aria di piombo.
Le periferie dei tre mondi sono in fermento, oggi molto più di ieri, a causa del crescendo di pressioni su di esse esercitate dalle architravi della sovrastruttura. Pressioni pregresse alla guerra in Ucraina. Pressioni aumentate straordinariamente a partire dal 24.2.22, che Salvatore Santangelo ha definito un “super-11 settembre”, da cui è scaturito un arco di crisi globale.
La Russosfera in subbuglio
La guerra della Russia all’Ucraina sarebbe stata vista dai popoli che compongono lo spazio postsovietico come un disturbante déjà-vu, come il remake di un film vissuto dai loro antenati intitolato Budapest ’56, destinato a produrre degli effetti perversi in lungo e in largo l’estero vicino di Mosca. Questo è ciò che veniva scritto sulle nostre colonne il day after, 25/2, preconizzando l’alba di insorgenze e instabilità nelle ex sorelle dell’Unione Sovietica. Questo è ciò che sta succedendo, da Chişinău a Tbilisi, dove fattori endogeni e trame esogene hanno dato vita ad un arco di crisi esteso dall’Europa orientale al Turkestan.
In Kazakistan, dove regna la calma dopo la tempesta del gennaio ’22, la presidenza Tokayev sta premendo freneticamente l’acceleratore sul riformismo e sulla denazarbaevizzazione, provando contemporaneamente a restare in equilibrio tra i blocchi, allo scopo di schermare la multinazione da future trame destabilizzative. Un passo falso, in una direzione o nell’altra, potrebbe esporre Astana ad antipatiche operazioni ibride.
Per la Bielorussia, l’alleato riluttante della Russia, la guerra in Ucraina è stata più una sfida che un’opportunità per Aljaksandr Lukašėnka, la cui dittatura familista è sul filo del rasoio dall’agosto 2020 e le cui linee ferroviarie, utilizzate dal Cremlino come retrovie per l’invio di rifornimenti nelle terre ucraine, sono afflitte da roghi e sabotaggi. Nell’attesa di capire quando e come colpire, giacché la Bielorussia ha dimostrato di essere uno stato di polizia a prova di cambio di regime, Polonia, Svetlana Tikhanovskaya e alleati osservano. Ma il diluvio è, in ogni caso, alle porte.
Il super-arco di crisi ha avvolto la stessa Federazione Russa, gigante dai piedi di creta e dagli arti infiammabili, in special modo quelli ciscaucasici e siberiani, dove il leviatano del separatismo sta dando segnali di risveglio dopo un lungo sonno. Il Cremlino ha ragione di temere la riaccensione dell’insorgenza nel triangolo Cecenia-Dagestan-Inguscezia, storico indicatore dello stato di salute del Caucaso settentrionale e distrattore in potenza dai teatri esteri.
I fantasmi di crisi in Moldavia
Moldavia e Georgia sono le due multinazioni in miniatura che mostrano maggiori somiglianze all’Ucraina, ovvero la presenza di conflitti congelati e Stati fantoccio al loro interno, e dove il rischio donbassizzazione è più elevato che altrove. Né Occidente né Russosfera, ma neanche votati o volenti alla multivettorialità, questi due paesi giacciono in un limbo geopolitico che li rende adatti al ruolo di teatro di guerre, ibride o stricto sensu, per procura. Prove di forza, azzardi e calcoli, ma anche schegge impazzite, potrebbero dare vita ad un super-Donbass, esteso da Chişinău a Tbilisi, via Kiev.
In Moldavia, lacerata dalla polarizzazione dell’opinione pubblica – quasi equamente divisa tra filorussi e filoccidentali – e pullulante di quinte colonne – dall’oligarchia alle istituzioni – e zone grigie – come Comrat –, il vento dell’instabilità ha portato al prepensionamento di un esecutivo, al surriscaldamento delle piazze e all’aumento del livello di allerta in Transnistria, teatro di strani incidenti e presunti atti terroristici (false flag?) suscettibili di decongelare il conflitto fra Chişinău e Tiraspol. Il vero rischio, più che un’invasione militare russa – ipotesi remota –, è la vulnerabilità delle Clădire a golpe morbidi e destituzioni dal basso apparentemente genuine.
La strana partita nel caos in Georgia
La Georgia, casa di due stati de facto sin dai primi anni Novanta – Abcasia e Ossezia del Sud –, e vittima di un blitzkrieg russo nel 2008, ha provato a fare dell’Ucraina un volano per l’ingresso nell’Unione Europea, ottenendo quale risultato imprevisto e indesiderato il prolungamento della permanenza nel limbo geopolitico. Perché la domanda di adesione all’UE non ha ricevuto il riscontro sperato da Sogno Georgiano – la prospettiva di un semaforo verde nel lontano futuro –, il che potrebbe essere interpretato dal Cremlino come un via libera alla risatellizzazione di Tbilisi. Ed è negli stati di incerto posizionamento che si scontrano le grandi potenze.
La linea non confrontazionale che Sogno Georgiano ha scelto di adottare nei confronti di Mosca, basata su una pragmatica cautela in materia di sanzioni e movimenti nei territori fuori dal controllo statale, ha alimentato la rabbia di un’opinione pubblica già disillusa e insofferente – per autoritarismo, clientelismo, corruzione e nepotismo –, che un anno e quattro giorni dopo l’invio ufficiale della domanda di adesione all’UE è scesa in strada per denunciare una legge sulle organizzazioni nongovernative di ispirazione putiniana.
Stabilire dove si trovano le cabine di regia non è mai un compito facile. Il confine tra legittima speculazione e dietrologia spicciola è labile. In Moldavia, già descritta dalla macchina propagandistica del Cremlino in termini di anti-Russia in divenire, la longa manus degli strateghi ibridi moscoviti è visibile. In Georgia, dove un governo filoccidentale è alle prese con un’insurrezione – paradossalmente – filoccidentale, la situazione è più nebulosa.
La sollevazione di Tbilisi di marzo 2023 potrebbe essere spontanea come essere un’operazione Made in Russia o Made in USA. Gli stessi mezzi, la follia delle folle e forse, un giorno, il risveglio delle repubbliche separatiste, per un fine opposto: la totale estromissione della Georgia dalla guerra in Ucraina e il congelamento del Pivot to the West se la regia fosse moscovita, la sua trasformazione in un cavallo di Troia con cui distrarre il Cremlino se la regia fosse statunitense.
Pan per focaccia. La Russia minaccia la stabilità delle Clădire in Moldavia, forte della presenza di un ampio circuito di quinte colonne in loco. La risposta degli Stati Uniti potrebbe essere un’insurrezione che incentivi il prudente Sogno Georgiano ad un cambio di rotta a 360 gradi – sanzioni a Mosca, armi a Kiev – o che miri alla sua sostituzione col più radicale Movimento Nazionale Unito, creatura di Mikheil Saak’ashvili ora guidata da Levan Khabeishvili, detrattore della riconciliazione con la Russia, favorevole all’entrata nella NATO e con orizzonte il recupero manu militari di Abcasia e Ossezia del Sud.
Perché l’arco di crisi è globale
Lo scrigno di Pandora è stato aperto, da Vladimir Putin in persona, il 24.2.22, e i mali che ivi erano contenuti adesso vanno spargendosi nei ventri molli del sistema internazionale. Le linee rosse sono cadute. I cortili di casa delle grandi potenze sono entrati nel mirino dei ladri. Il concerto è ridotto al minimo indispensabile. L’arco di crisi è globale.
Le grandi potenze fanno ciò che possono con quel che hanno. La Russia ha un insieme di spettri da agitare, dal Caucaso meridionale al Serbia-Kosovo, nel contesto della riduzione del coinvolgimento occidentale in Ucraina. Ma trattasi di armi a doppio taglio che gli Stati Uniti sarebbero bene in grado di volgere contro la Russia; che chi di separatismo ferisce, di separatismo perisce. Perciò il super-arco di crisi europeo ribolle, ma non scoppia.
La Cina vorrebbe evitare l’espansione del super-arco di crisi nelle terre dell’Asia inoltrata e nelle sue acque circostanti, ovvero l’Indo-Pacifico, ché la posta in palio – il Secolo cinese – non consente né giochi d’azzardo né passi falsi. Le mura alte, spesse e fortificate di una Grande muraglia di pace potrebbero proteggere le Nuove vie della seta dalle fortunali provenienti da Ponente.
Nella visione di Pechino, la Pax Sinica potrebbe essere la panacea ai mali liberati da Putin all’apertura dello scrigno ucraino. Perciò l’Iniziativa di Sicurezza Globale. Perciò la rivitalizzazione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Perciò il piano di pace per l’Ucraina. E perciò il sabotaggio dell’Alleanza di Abramo, un patto latentemente anti-cinese, rappacificando i due pilastri antitetici del Medio Oriente – Riad e Teheran – nel nome della Trinità dalle caratteristiche cinesi: Nuova via della seta, Iniziativa di Sicurezza Globale e Petroyuan. Orizzonte spaziotemporale la dedollarizzazione e la deoccidentalizzazione.
Nella visione di Pechino, la sponsorizzazione della Pax Sinica va di pari passo con la prevenzione delle mosse del rivale, Washington, e con la costruzione di un contro-accerchiamento. Un tit for tat dove all’aumento della temperatura nelle acque del Pacifico occidentale, in particolare quelle filippine, seguono reazioni uguali e contrarie nell’Atlantico centromeridionale, da Malabo a Ushuaia. Un tit for tat all’interno di un gioco molto più grande, la Terza guerra mondiale in frammenti, del quale il super-arco di crisi è l’ultimo parto in ordine di tempo.
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