Obiettivo piena e buona occupazione: quando è lo Stato a creare lavoro
di LA FIONDA (Domenico Viola)
La Repubblica democratica può e deve creare direttamente lavoro: un appello al Movimento 5 Stelle e a tutte le forze costituzionali
Il Movimento 5 Stelle ha da sempre avanzato come sua proposta cardine l’istituzione di una misura di sostegno al reddito per le persone che vivono in condizioni di povertà estrema. L’obiettivo primo non era quello di eliminare la povertà, bensì quello solamente di attenuare in via diretta le condizioni estreme di povertà assoluta della popolazione, portando chi viveva al di sotto della soglia di povertà assoluta – pari, nel 2018, a 780€ mensili per un individuo single – a sopravvivere in corrispondenza di tale soglia.
Lo spessore social-democratico e progressista della misura era, dunque, a dir poco limitato rispetto agli obiettivi programmatici che la Costituzione italiana del ’48 aveva indicato e posto a capo dell’operato della Repubblica, prevedendo, piuttosto, il compito per lo Stato di creare direttamente lavoro a condizioni dignitose per garantire effettivamente il diritto al lavoro e portare, così, le persone fuori dalla povertà.
Il sostegno al reddito fornito tramite l’istituzione del Rdc a chi viveva in condizioni di povertà estrema doveva essere, altresì, collegato a dei corsi di formazione per i percettori occupabili del sussidio e condizionato all’accettazione di una “congrua” offerta di lavoro derivante, eventualmente, dal settore delle imprese private [1].
I presupposti di base della proposta erano, dunque, diversi, ma precisi.
Presupposto 1: solo le imprese private devono creare lavoro
Da un lato, lo Stato doveva solamente limitarsi a dare un sostegno al reddito alle persone che vivevano in condizioni estreme di povertà, senza doversi impegnare a creare direttamente buoni posti di lavoro. Dall’altro lato, le imprese private for profit dovevano essere, in sostanza, le uniche istituzioni a creare lavoro ed eventualmente ad assumere i percettori occupabili del sussidio. Tutto ciò, come menzionato poc’anzi, era e rimane in antitesi con lo spirito culturale e politico della Costituzione italiana del ‘48, la quale assegna alla Repubblica democratica il compito di tutelare effettivamente il diritto al lavoro, indirizzando la spesa pubblica alla diretta creazione di buoni posti di lavoro, provvedendo così ad eliminare la povertà [2].
Presupposto 2: il problema non sarebbe nella carenza di spesa per consumi ed investimenti, ma nelle carenze formative e nell’attitudine dei disoccupati
Si riteneva che la disoccupazione fosse legata preminentemente alla carenza di formazione da parte dei lavoratori, nonché ad un’attitudine dei poveri contraria al lavoro (“pigrizia”). In particolare, si riteneva che la disoccupazione potesse essere ridotta rendendo più efficace ed efficiente l’incontro tra la domanda di lavoro da parte delle imprese e l’offerta di forza lavoro da parte dei lavoratori. Questo incontro doveva, a sua volta, essere realizzato mediante, da un lato, più formazione per i percettori occupabili del sussidio – formazione per dei posti di lavoro comunque inesistenti nella società(!) – e, dall’altro, potenziando i centri per l’impiego.
Tutto ciò veniva affermato, paradossalmente, in seguito allo scoppio della crisi finanziaria mondiale del 2007-08 e alla successiva Grande Recessione del 2009, nonché in seguito al periodo 2011-14 di recessione dell’eurozona causata dall’adozione delle politiche di austerità di “marca europeista”. In entrambi i casi, infatti, ci fu un crollo della domanda di forza lavoro e di beni e servizi, ossia un crollo della spesa per consumi ed investimenti nell’economia che, a sua volta, portò ad un aumento della disoccupazione, ad un crollo della produzione e dei redditi, nonché ad un aumento dei fallimenti di imprese e di banche [3].
Presupposto 3: la povertà come colpa individuale. Al via le “norme anti-divano”
Seguendo gli assunti di base della proposta del RdC, la povertà, invece, veniva concepita come una colpa individuale, e non come una colpa del sistema (istituzionale, sociale ed economico) nel quale viviamo. Una colpa individuale da espiare, dovuta presumibilmente al poco impegno individuale da parte delle persone povere a volersi formare e a voler “darsi da fare” per trovare un lavoro a condizioni dignitose. Di conseguenza, il sussidio doveva essere erogato a condizione che la persona povera accettasse una di non più di tre proposte “congrue” di lavoro, dimostrando, così, di non essere pigro e di non volersi adagiare sulla “comodità” data dal sussidio. E fu così, che dopo la carota del sussidio arrivava il bastone delle “norme anti-divano” di “Di Maiana” memoria, che riscontravano la loro giustificazione proprio in quel presupposto, tipico di un’ideologia classista liberal-ottocentesca, volto a moralizzare la povertà esclusivamente come una colpa dell’individuo povero e disoccupato, anziché come un male tipico del nostro tipo di società e di economia (capitalista).
Come corollario di questa ideologica e infondata colpevolizzazione dei poveri, si richiamava, altresì, quella distinzione tra “poveri meritevoli” e “poveri immeritevoli” che faceva da sfondo al dibattito sul Poverty Relief Act – varato nel 1601 dalla Regina Elisabetta I d’Inghilterra – e al dibattito sulla rispettiva riforma del 1834, la Poor Law. Infatti, ai tempi, una persona che era povera, ma allo stesso tempo abile al lavoro veniva considerata come colpevole di essere povera e, dunque, immeritevole di aiuto e di sostegno da parte della “Corona” (o meglio, da parte del sistema parrocchiale dell’epoca), in quanto persona presumibilmente pigra e piena di vizi, una persona caratterizzata, insomma, da “cattiva volontà”.
La differenza tra i 5Stelle e tutti gli altri alfieri del partito unico neoliberista (FdI, Pd, Lega, FI, IV-Azione ecc) era la seguente:
- da un lato, i primi si presentavano come dei “moralisti umani” della povertà, che intendevano dare una seconda chance anche ai poveri immeritevoli – come se, tra l’altro, il diritto al lavoro e la tutela della dignità e della libertà che ne deriva potessero essere considerati alla stregua di premi della lotteria della fortuna che i disoccupati avrebbero dovuto provare a vincere sedendosi al tavolo da gioco del già disintegrato mercato del lavoro italiano;
- dall’altro lato, in modo vile e violento – facendo leva su una guerra tra poveri ed impoveriti fomentata in un fertile contesto di crescente ed esasperante disagio sociale – gli alfieri del partito unico proponevano di irrogare sanzioni e di punire i percettori occupabili del sussidio che si rifiutavano di accettare qualsiasi condizione di lavoro, arrivando perfino a prefigurare l’abolizione del RdC (abolizione che è stata deliberata, per il 2024, alla fine dello scorso anno dall’attuale esecutivo Meloni e dalla maggioranza parlamentare).
Tutto ciò come se la disoccupazione involontaria non esistesse affatto e come se essere abili al lavoro e, allo stesso tempo, disoccupati e poveri, percependo, magari, anche un sussidio, dovesse valere, inevitabilmente, come indice di grave “colpa morale”; come segno di pigrizia socialmente parassitaria.
Ad ogni modo, il problema di fondo è che le varie forze politiche antagoniste, apparentemente così diverse tra di loro, si sono tutte omologate su quei presupposti ideologici fallaci che vedono nella povertà una colpa dell’individuo povero e non una colpa del sistema sociale in cui viviamo (i.e. il capitalismo). Detto altrimenti, il problema di fondo è pensare e accettare l’idea che esistano poveri “meritevoli” e poveri “immeritevoli” (di aiuto e sostegno statale), quando la povertà, ovvero la disoccupazione e le eccessive disuguaglianze sociali sono colpe ed esiti spontanei del tipo di società e di economia nelle quali viviamo e costituiscono, in ultimo, sempre un fallimento della politica.
La povertà e la disoccupazione sono colpe del “sistema” e fallimenti della politica, non dell’individuo povero
Nell’articolo precedente scritto in difesa dei percettori occupabili del RdC, abbiamo mostrato come, in Italia, il problema della disoccupazione involontaria, ossia della carenza cronica ed elevata di posti di lavoro sia rimasto vivo e vegeto, nonostante appunto l’introduzione del RdC.
A tre-quattro anni dall’attivazione della misura il rapporto tra posti di lavoro vacanti disponibili e disoccupati rimaneva a livelli elevati, ossia di 1 a 6 (di 1 a 40 se consideriamo anche gli inattivi, oltre ai disoccupati ufficiali); mentre solo meno di un quinto dei percettori occupabili del sussidio era riuscito a trovare un impiego.
Il RdC avrà sì conseguito il proprio obiettivo di attenuare le condizioni estreme di povertà assoluta, come le evidenze scientifiche, del resto, dimostrano [4], ma non è stato in grado di eliminare la povertà, in quanto misure come il RdC non sono ideate come dispositivi istituzionali volti ad eliminare direttamente la disoccupazione. A sua volta, il solo settore privato delle imprese (e delle banche che finanziano le prime) non è in grado di creare continuamente e sufficientemente occupazione stabile e dignitosa per tutti quelli che sono in grado e desiderano lavorare, in quanto le decisioni di investimento privato (e di finanziamento privato all’investimento) sono instabili per natura, tendono a concentrare la ricchezza in sempre più poche mani e dato che lo scopo di chi investe (e di chi finanzia l’investimento) è quello di fare profitti (e rendite monetarie), non certo quello di garantire il diritto al lavoro all’interno di una società. In altre parole, il cosiddetto “mercato” (“concorrenziale” e “competitivo”) è un soggetto inaffidabile ai fini della realizzazione di uno sviluppo economico stabile, socialmente inclusivo ed eco-sostenibile, ovvero ai fini del raggiungimento e del mantenimento nel tempo della piena occupazione e dell’eliminazione della povertà.
La disoccupazione, dunque, è prevalentemente involontaria e la povertà che ne deriva non è una colpa individuale dovuta a presunti “vizi e difetti” antropologici della persona povera (sic!), dato che la carenza complessiva di spesa ed investimenti nell’economia non dipende di certo dal singolo, ma rappresenta un “difetto naturale” o un esito spontaneo del normale funzionamento di un’economia capitalista. Per tale motivo, la disoccupazione è, in ultimo, sempre e comunque un fallimento della politica e non un fallimento individuale della persona disoccupata. Infatti, come sancito dalla Costituzione, il male della disoccupazione e della povertà che ne deriva, non deve essere espiato dal singolo povero come presunta colpa individuale, ma deve essere estirpato dalla Repubblica democratica attraverso programmi e piani di spesa pubblica volti alla diretta creazione di buoni posti di lavoro, data l’incapacità strutturale dell’economia privata for profit di garantire sempre il diritto al lavoro. Insomma, se persistono o aumentano disoccupazione e povertà è la politica ad aver fallito, e non la singola persona disoccupata o povera![5]
Che cosa abbiamo imparato dall’esperienza del RdC?
A circa quattro anni dall’introduzione del RdC, abbiamo potuto, dunque, constatare sia che il RdC non costituisce una risposta efficace al problema della povertà, in quanto non funge da rete di protezione sociale volta alla diretta creazione di buone opportunità di lavoro e sia che il settore privato delle imprese e delle istituzioni di credito, da solo, non è in grado di garantire effettivamente il diritto al lavoro ed eliminare, così, la povertà. Inoltre, a quattro anni dall’introduzione del RdC, così come negli anni precedenti, abbiamo appreso delle lezioni che, in buona parte, sono ricorrenti nella storia del capitalismo e che, a loro volta, dovrebbero appartenere oramai al senso comune. Dovremmo, infatti, sapere che all’interno di un’economia monetaria:
- la povertà è causata, prima di tutto e principalmente, dalla disoccupazione e/o da condizioni lavorative precarie e povere;
- la disoccupazione, in particolare, è spesso involontaria, ossia è una condizione causata da un inadeguato livello di spesa e di investimenti pubblici e privati nell’economia;
- lo Stato può permettersi di spendere maggiormente in deficit fintanto che ci sono risorse reali non impiegate all’interno del settore privato, in quanto in assenza di qualsiasi domanda o richiesta per l’impiego di tali risorse (si pensi, ad esempio, alle persone che rimangono disoccupate), tale maggiore spesa pubblica in disavanzo non andrebbe ad impartire spirali inflazionistiche;
- come corollario di tutto ciò, possiamo affermare che, date le decisioni di spesa per consumi delle famiglie, le decisioni di spesa per investimenti delle imprese private, e le decisioni di acquisto netto dei nostri beni da parte del resto del mondo, la disoccupazione è l’evidenza di uno Stato che non spende in deficit e non investe a sufficienza per creare direttamente lavoro;
- lo Stato deve, secondo la nostra Costituzione, garantire il diritto al lavoro creando direttamente buoni posti di lavoro e assicurando, così, un livello e una direzione della spesa nell’economia che siano adeguati a raggiungere e a mantenere nel tempo la piena e buona occupazione (con la “stabilità dei prezzi”);
Il grande merito del Movimento 5 Stelle è stato quello di rammentare a tutti noi che, laddove sussiste la volontà politica, le istituzioni dello Stato sono in grado di migliorare le condizioni di vita della popolazione, anche se si tratta solo di far transitare le persone dalla povertà estrema alla soglia di povertà assoluta. Ma se è possibile attenuare le condizioni estreme di povertà, perché mai non dovrebbe essere possibile eliminare la povertà?
Si sente spesso dire che i problemi relativi a misure (di worfkare[6]) come il RdC andrebbero ricercati nel ventaglio delle condizioni legate all’ottenimento e al mantenimento del sussidio, oltre che nella famosa e generica “carenza di controlli”. Tuttavia, in linea con quanto detto finora, la tesi qui avanzata è ben diversa, ossia che i problemi risiedono nei relativi “difetti di nascita” di misure come il RdC, legati alla mancante funzione istituzionale che preveda la creazione diretta di buoni posti di lavoro (da parte delle istituzioni dello Stato).
Il problema, come sempre, è legato alla mancanza di volontà politica. In altre parole, la disoccupazione è sempre un fallimento della politica, e non un fallimento individuale della persona disoccupata e povera. A questo punto ci si chiede come lo Stato potrebbe e dovrebbe creare direttamente lavoro, vista la disoccupazione e sotto-occupazione di massa che attanaglia il Paese.
Nell’ambito delle reti di protezione sociale e in alternativa a misure di workfare come il RdC, sarebbe auspicabile che il Movimento 5 Stelle e tutte le altre forze politiche che intendono rifarsi alla Costituzione italiana del ‘48 (come, ad esempio, Unione Popolare e Riconquistare l’Italia) includessero nella propria agenda politica la proposta di istituire in via permanente una rete di protezione sociale che offra sempre e all’occorrenza un’ opportunità di lavoro, ad un salario minimo pre-stabilito, a tutte le persone che sono in grado e desiderano lavorare, ed un lavoro non ce l’hanno. La rete di protezione sociale alla quale ci riferiamo è quella del Programma Universale di Lavoro (un programma finanziato centralmente, ma gestito localmente ed indirizzato alla produzione di beni e servizi pubblici di cura delle persone, di cura della comunità, di cura del territorio e di cura dell’ambiente).
L’implementazione di un tale programma consentirebbe la completa ed effettiva realizzazione dei principali articoli della Costituzione italiana (anti-liberista e anti-fascista) del ‘48, a partire dall’art. 1 e in aggiunta a tutte quelle disposizioni, in particolare, che disciplinano la sfera dei diritti fondamentali (artt. 1-12) la sfera dei rapporti etico-sociali (artt. 29 – 34) e quella dei rapporti economici (artt. 35 – 47).
Nel prossimo e terzo articolo parleremo, nello specifico, dei Programmi Universali di Lavoro, ne analizzeremo le molteplici caratteristiche per presentarli come una rete di protezione sociale alternativa e di gran lunga più efficace nella lotta alla povertà rispetto a misure di workfare come il RdC.
Note.
- Nella prima versione “originale” o 5Stelle del RdC, una proposta di lavoro dal settore privato delle imprese per i percettori occupabili del sussidio era considerata “congrua” se i) a tempo indeterminato e se ii) offriva un salario superiore almeno del 20% del sussidio. In aggiunta, la distanza del luogo di lavoro doveva essere, nel caso della prima proposta, non superiore a 80 km dalla residenza o raggiungibile entro 100 minuti con il trasporto pubblico. In caso di rifiuto, la seconda proposta poteva prevedere un luogo non superiore a 250 km, mentre nel caso di secondo rifiuto, la terza proposta poteva prevedere un luogo di lavoro in qualsiasi punto del territorio nazionale. I requisiti di congruità, già abbastanza onerosi per i percettori occupabili del sussidio, sono stati negli anni, soprattutto con i governi Draghi e Meloni, inaspriti ulteriormente.
- Detto altrimenti, la Costituzione italiana non prevede che lo Stato si limiti a portare le persone in grado e desiderose di lavorare sulla soglia di povertà assoluta mediante l’erogazione di un sussidio; non prevede che lo Stato imponga ai percettori occupabili di un sussidio delle condizioni ex-post di accettazione di una “congrua” proposta di lavoro; non prevede che lo Stato deleghi al solo settore privato delle imprese il compito di creare continuamente lavoro per tutti coloro i quali sono disoccupati (con sussidio o meno) e desiderano lavorare – cosa che il privato né ha interesse a fare e né è in grado di fare.
- Per la precisione, l’Italia importò la crisi finanziaria globale del 2007-08 attraverso un crollo delle esportazioni che colpì, logicamente, le aree territoriali del Paese la cui produzione dipendeva maggiormente dal traino delle esportazioni (nel nostro caso, l’area del Nord ovest e del Nord est della penisola). A sua volta, il crollo delle esportazioni generò una contrazione degli investimenti e dei consumi privati specialmente nelle aree settentrionali del Paese. D’altro canto, tra il 2011 e il 2014-15, la seconda recessione fu causata dall’adozione di non-necessarie politiche di austerità imposte dalle istituzioni europee e convalidate a livello nazionale. La crisi causata da tagli alla spesa e agli investimenti pubblici, e da aumenti di tasse colpì maggiormente le aree del Paese le cui economie dipendevano di più dalla domanda interna, piuttosto che da quella estera (vale a dire il Centro e il Sud dell’Italia). A loro volta, le politiche di austerità causarono un crollo degli investimenti e dei consumi privati, ovvero un crollo dell’occupazione, della produzione e dei redditi da lavoro e di piccola e media impresa, in tutto il Paese, ma in particolare nel Centro e Sud della penisola.
- https://eticaeconomia.it/la-capacita-di-target-territoriale-del-reddito-di-cittadinanza/ – In uno studio di recente pubblicazione, condotto sulla base di dati territoriali e di una misura di vulnerabilità multidimensionale, è stato dimostrato come il nesso tra bisogno e copertura del RdC sia abbastanza stretto. I risultati di questa ricerca smentiscono, dunque, una volta per tutte una delle principali accuse rivolta alla misura, quella secondo la quale il RdC veniva effettivamente erogato a persone non realmente povere, anziché essere, nei fatti, destinato ai “veri” poveri.
- Da un lato, il capitalismo opera in modo da creare autonomamente e spontaneamente una carenza di consumi e di investimenti privati nell’economia, ovvero in modo da mantenere determinati livelli, anche alti di disoccupazione e sotto-occupazione. Dall’altro, il sistema istituzionale e monetario dell’eurozona e dei trattati europei è strutturato in modo da tenere, per scelta politica, la disoccupazione a livelli elevati e i redditi da lavoro a livelli di povertà o rasenti le soglie di povertà. Nell’eurozona la politica istituzionalizza i mali tipici della nostra società, vale a dire disoccupazione involontaria, povertà ed elevate disuguaglianze sociali, a loro volta frutto dei difetti e delle contraddizioni di fondo di un’economia capitalista.
- Le misure di worfkare come il RdC prevedono l’erogazione di un sussidio in cambio dell’obbligo di fare “lavoretti socialmente utili a tempo parziale” nelle forme, ad esempio, come quelle organizzate attraverso i Programmi di Utilità Collettiva o altrimenti PUC.
Commenti recenti