Beirut, 1985: una “strage di Bologna” libanese
di INSIDE OVER (Emanuel Pietrobon)
Libano, la Svizzera del Medioriente che, ironia della sorte, la storia ha condannato ad un processo di balcanizzazione senza fine. Lembo di terra che, a partire dal secondo dopoguerra, è stato prima al centro delle guerre israelo-palestinesi e poi, con l’entrata in scena dell’Iran khomeinista, di quelle irano-israeliane.
Libano, un crocevia in cui si intersecano gli interessi divergenti di potenze contrapposte, della regione e non, che lo stato di semi-guerra permanente ha trasformato in un’enorme zona grigia. Israeliani contro palestinesi. Israeliani contro iraniani. Turchi contro sauditi. Statunitensi contro i rivali di Israele. Terroristi contro tutti.
Nel corso degli anni Ottanta, il grande decennio buio del Libano, qui ebbero luogo alcuni degli attentati più sanguinosi del Medioriente, tra i quali gli attacchi suicidi all’ambasciata americana di Beirut del 1983 e del 1984. Ma il più misterioso, equivalente libanese della strage di Bologna, ebbe luogo l’8 marzo 1985.
Beirut, la città più pericolosa per gli americani
Beirut, 8 marzo 1985. La guerra civile divampa, il confronto irano-israeliano sta sperimentando un crescendo escalatorio e gli Stati Uniti di Ronald Reagan stanno studiando una risposta alla campagna terroristica di Hezbollah, Jihad Islamica e al-Fatḥ, che nel solo attentato alle caserme franco-americane del 1983 ha cagionato la morte di 307 persone e il ferimento di 150.
Tre attentati suicidi, compiuti dai proxy iraniani a Beirut fra il 1983 e il 1984, rischiano di costare alla presidenza Reagan la credibilità: 327 cittadini hanno perso la vita. Alle stragi sono seguite delle rappresaglie aeree, ma alcuni elementi di Langley e Pentagono chiedono una risposta più muscolare.
L’amministrazione Reagan, nel 1985, si convince a seguire i suggerimenti della Central Intelligence Agency, che vorrebbe uccidere una figura-chiave del khomeiniverso in Libano, il chierico Muḥammad Husayn Faḍlallāh, tanto come rappresaglia per il passato quanto come deterrente per il futuro. Quella che avrebbe dovuto essere un’eliminazione chirurgica, però, avrebbe provocato una strage di innocenti.
La mattanza involontaria
L’8 marzo 1985, dopo mesi di preparazione, si materializzava la ritorsione per la pioggia di attentati antiamericani del 1983-84. Un’automobile era stata parcheggiata nei pressi della dimora dello sceicco Faḍlallāh, dopo essere stata imbottita di esplosivo – duecento chili di dinamite –, e gli agenti, un’unità a composizione libanese rispondente alla Cia, erano in attesa di farla esplodere al momento opportuno.
Faḍlallāh, all’improvviso, esce allo scoperto. Qualche istante dopo i fedeli iniziano ad uscire in massa dalla moschea adiacente, nella quale è appena terminato il servizio del venerdì. Ma è troppo tardi per fermare la detonazione: il bottone è già stato premuto. Una strage. Una strage aggravata dal fatto che gli agenti avrebbero presto scoperto di avere preso un abbaglio: l’uomo che avevano visto non era Faḍlallāh, che si trovava comunque nei pressi del luogo dell’attentato, a pregare in un’altra moschea.
Il boato è tanto rumoroso che l’attentato verrà sentito dall’altra parte della città. L’onda d’urto dell’esplosione è tanto violenta che più isolati del quartiere, Bir al-Abed, riporteranno danni agli edifici, al manto stradale e alle autovetture in sosta. Vetri rotti. Sangue ovunque. Due edifici di sette piani e un cinema crollati. 80 morti e 200 feriti: tutti civili, in larga parte donne.
La “strage di Bologna” libanese
Tre mesi dopo l’attentato che ha sconvolto la parte più tranquilla di Beirut, mentre Faḍlallāh si è dato alla macchia, negli Stati Uniti succede qualcosa. Una gola profonda, forse scioccata dall’accaduto, decide di parlare col Washington Post dell’8/3. Le rivelazioni sono esplosive: la strage sarebbe stata consumata da alcuni assetti locali della Cia, libanesi e di altre nazionalità, agenti, però, senza la sua approvazione.
Nello stesso mese, giugno, lo scoop del Washington Post arriva alla Camera del Congresso, dove viene installato un comitato per risalire alla verità. La Cia è sotto processo, alla sbarra per aver presumibilmente avuto un ruolo nell’uccisione di decine di civili di un paese straniero.
Langley nega ogni coinvolgimento. Negheranno tutti, incluso l’allora direttore William J. Casey, mentre altri preferiranno il silenzio stampa. La versione univoca e definitiva, più fonte di domande che di risposte, vuole che la Cia abbia addestrato gli attentatori, la cui identità non viene rivelata, ma che sia poi stata mantenuta all’oscuro dei loro propositi. Langley non poteva sapere che i loro assetti avrebbero utilizzato l’expertise ricevuta per uccidere dei civili – perché gli era stato vietato di condurre simili operazioni. La Cia era una vittima, non un carnefice.
Il processo alla Cia si conclude con l’assoluzione degli imputati: prosciolti dalle accuse per non aver commesso il fatto. Giubilo. Ma per Casey sarà, in ogni caso, l’inizio della fine. Non fa in tempo a chiudersi l’affare Beirut che, invero, scoppia lo scandalo Iran-Contra.
Il peso psicologico della sequela di scandali è forte: Casey non è Atlante. Ha un esaurimento, aggravato dalla scoperta di un tumore, che lo porta a rassegnare le dimissioni. La sabbia nella clessidra sta finendo. La sensazione che gli rimanga poco tempo da vivere lo spinge a confessare i più terribili segreti della sua carriera a Bob Woodward, che dai dialoghi col morente Casey produrrà il caso editoriale Veil: The Secret Wars of the CIA 1981–1987. L’ultima delle confidenze, pochi istanti prima di morire, riguarderà proprio l’attentato di Beirut: fu un’opera della Cia, voluta e pagata da Riad.
FONTE:https://it.insideover.com/terrorismo/beirut-1985-una-strage-di-bologna-libanese.html
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