L’ “evento spalmato”: considerazioni sull’ontologia dell’immaginario seriale
di La Fionda (Alessandro Alfieri)
A partire da Comunità seriali di Massimiliano Coviello (Meltemi 2023)
La funzione che le narrazioni seriali post-televisive hanno assunto negli ultimi anni è decisiva; esse hanno soppiantato da diversi punti di vista il cinema come motore dell’immaginario, ruolo che la settima arte aveva efficacemente e potentemente ricoperto nel corso di tutto il Novecento. È innegabile che l’orizzonte dell’immaginario contemporaneo sia segnato proprio da questa tipologia di produzioni narrative, per le quali aprire o solo sfiorare il dibattito sulla loro presunta “artisticità” risulta quanto mai improduttivo e sofistico. È chiaro ormai da diverso tempo infatti che la prerogativa spirituale di “aprire mondi” e “fondare la verità”, una volta ad appannaggio dell’arte, oggi spetta primariamente ai materiali della cultura di massa e ai contenuti audiovisivi della cultura digitale.
Altro discorso è invece concentrarsi sul valore “estetico” – e perciò stilistico, formale, espressivo – che queste produzioni seriali dimostrano. Tale valore estetico è stato “guadagnato” grazie al passaggio massmediale dalla tecnologia televisiva alle piattaforme digitali dello streaming online, per questo è necessario oggi abbandonare – seppur risulti complicato data l’abitudine linguistica – la definizione di “Serie TV”, dal momento che il passaggio televisivo (quando presente) risulta un momento sussidiario e secondario rispetto alla trasmissibilità e alla diffusione in rete. Massimo Coviello, nel suo recente Comunità seriali. Mondi narrati ed esperienze mediali nelle serie televisive, al di là dell’abitudine linguistico-terminologica approfondisce con metodo il legame tra rinnovamento della narrazione seriale e adozione delle nuove tecnologie digitali, senza dimenticare che la narrazione “a episodi” caratterizza la modernità e la cultura del consumo massivo fin dai tempi della stampa e della radio. Se, come ha messo in evidenza Francesco Ferretti, il carattere “narrativo” del cervello umano è connesso alla tendenza alla persuasione degli atteggiamenti e del linguaggi umani, ponendosi come precondizione antropologica tanto del linguaggio quanto della nostra capacità di configurazione delle esperienze che si dipanano nel tempo in maniera sensata, allora l’attuale tendenza alla narrativizzazione dettata dalla disponibilità e dalla diffusione dei nuovi media si presenta come un rilancio e un potenziamento di una nostra precondizione innata. Tik Tok, le dirette Facebook, le stories degli influencers sono tutte tecniche di impostazione narrativa degli eventi della vita, che non a caso rivendicano sempre un’intenzionalità persuasiva rivolta al prossimo (più o meno astratto e indeterminato).
Il successo delle serie post-televisive riflette tale situazione, anche perché la nuova serialità si serve esattamente degli stessi dispositivi e della stessa tecnologia mobile, avvalendosi della sua versatilità e dei database incommensurabili delle varie piattaforme. Questo passaggio risponde ad esigenze di ordine culturale e sociale legate alla trasformazione del mondo del lavoro: da un’impostazione professionale collegata alla turnistica classica di epoca “moderna”, alla quale rispondeva la griglia del palinsesto televisivo, si è passati alla “liquidità” della cultura contemporanea che ha implicato il superamento dello schema rigido del palinsesto per una fruizione più autonoma da parte dell’utente. Non avendo più a che fare con gli orari classici, ma lavorando spesso in totale autonomia, i clients hanno la possibilità di consumare le narrazioni seriali in binge watching, divorando intere serie o scegliendo e calibrando la visione rispetto alla frammentarietà della propria esistenza, fatta di relazioni, legami, vicende frammentarie e precarie. Internet ha risposto a tale esigenza di consumo massivo grazie alle piattaforme digitali. In questo passaggio, anche lo stile, le modalità di racconto, la struttura narrativa delle series sono cambiati: con l’aumento degli investimenti è aumentato anche l’interesse da parte di sceneggiatori, registi, attori e showrunner per questa tipologia di narrazione: si è abbandonato lo stile uniforme del formato televisivo per indagare in maniera sperimentale nuove soluzioni, con una ricerca di ordine estetico-creativo enorme, prelevata in buona parte alla nobile tradizione del settore cinematografico.
Se come afferma Coviello “permanenza e tendenza alla stabilità sono i caratteri distintivi del personaggio nella serie classica”, il passaggio dalla stereotipizzazione a un personaggio individualizzato ben più problematico è uno degli indici più chiari del passaggio dalla logica seriale televisiva a quella post-televisiva, un passaggio che ha determinato l’affinamento della scrittura e della definizione dei profili dei caratteri. Coviello, riprendendo la dialettica deleuziana di differenza e ripetizione, afferma che “la serialità contemporanea non fa altro che generare scarti e arborescenze a partire da un nucleo narrativo che ad ogni puntata viene richiamato e rilanciato. La messa in serie è una forma della ripetizione che riflessivamente espone le aderenze e gli scarti rispetto a se stessa, coinvolgendo lo spettatore nell’espansione trans- e inter- mediale di un mondo”. Questo significa che anche nell’epoca della piena maturità della serialità contemporanea, il personaggio in un modo o nell’altro deve mantenere un nucleo stabile di riconoscimento, seppur nel fondo della dimensione processuale e trasformativa dello stesso personaggio; ne va del riconoscimento da parte del pubblico e soprattutto dell’attrazione seduttiva garantita dalla consapevolezza di ritrovare i propri beniamini ben riconoscibili nei vari episodi, ma d’altronde l’elemento della trasformazione – spesso dettata dal cinismo smarcante che devia rispetto alle attese costruite sugli episodi precedenti – è diventato in tempi recenti il fattore più attrattivo. La dialettica di continuità e rottura, di prossimità e svolta, è la base ontologica della contorsione concettuale che pertiene alla nozione di evento, per il quale si può parlare di “assolutamente altro” che però, nel momento stesso del suo manifestarsi, rifonda e ristabilisce l’orizzonte del soggetto stabilendo anche un’appartenenza profonda.
La nuova serialità propone una dimensione partecipativa annunciata in vario modo da autori come Henry Jenkins e Jason Mittell; si tratta di un’interattività che può venire definita spesso “investigativa”, è che riguarda su livelli diversi tanto il fruitore abitudinario quanto i membri del fandom più agguerrito, sia nell’epoca della serialità classica televisiva sia in tempi recenti; “il piacere del testo seriale, già descritto da Eco, in cui convivono la rassicurante percezione della ripetizione e il desiderio di individuarne gli scarti e le variazioni, si arricchisce della cultura partecipativa promossa dai fan sulla Rete”; se a partire da ciò è vero che “il formato seriale è diventato un vasto serbatoio di racconti che alimentano il bisogno di comunità e ne ridefiniscono i significati”, è anche vero che tale bisogno, rilanciato e potenziato all’inverosimile prima con l’11 settembre poi con la pandemia di Covid-19, genera un paradosso connesso alle stesse modalità di fruizione di materiali seriali. Da un lato infatti, le pratiche di fandom, la comunicazione social, le bacheche dei social, i meme testimoniano l’esigenza di stabilire una connessione con altri utenti, fruitori della stessa serie o dello stesso genere, dall’altro però il consumo di tali materiali esclude la visione condivisa e si concentra sulla visione isolata, irriducibilmente propria specie se dedicata alla visione del piccolo schermo dello smartphone.
Forse è su un altro piano che si esprime l’efficacia partecipativa dell’immaginario seriale, un piano più spirituale perché ripropone le medesime peculiarità teoretiche che appartengono all’ “evento”: si tratta della capacità della produzione seriale di ridefinire l’orizzonte di senso, il mondo nel quale la verità si rivela, quello che Paul Ricoeur ha definito “mondo dell’agire e del patire”: “Sarebbe riduttivo confinare il ruolo delle narrazioni seriali a una forma di intrattenimento che conferma le paure e i bisogni degli spettatori. Le serie televisive sono una forma di rappresentazione che abita criticamente il contemporaneo: i processi di produzione e distribuzione, i temi che trattano e le modalità della loro ricezione restituiscono, nel loro insieme, un paesaggio grazie al quale è possibile osservare le trasformazioni delle forme di vita comunitarie”. Coviello tiene conto delle riflessioni di Ricoeur relative al rapporto tra prefigurazione dell’esperienza (Mimesis I), configurazione dell’intreccio dotato di senso (Mimesis II), rifigurazione e restituzione al mondo dell’esperienza (Mimesis III), e probabilmente è proprio sull’ultimo piano dell’argomentazione teorica che bisognerebbe concentrarsi: la nuova serialità ridefinisce il mondo che essa stessa poi si trova a raccontare, esattamente come fa la popular music a gradi e livelli differenti ed esattamente come ha fatto il cinema per molto tempo. Come afferma l’autore “la configurazione narrativa delle forme seriali complesse è uno dei principali strumenti per comprendere e rifigurare, proprio a partire dalla cooperazione continua tra universo narrativo e spettatori, il mondo frammentato e iperstimolato dell’agire e del patire contemporaneo”. Perciò si tratta di insistere sulla capacità di tali produzioni pop di fondare l’orizzonte di senso, di riplasmare e ristabilire il significato di determinati concetti e parole, o anche di rinnovare le forme di enunciazione e restituzione delle esperienze private o collettive.
Coviello fa riferimento all’ “esperienza seriale”: “fatta di appagamento e rinnovamento, di ricezione e interpretazione, di fruizione e partecipazione. Per lo spettatore seriale del nuovo millennio, seguire una storia, osservarne gli sviluppi e appassionarsi ai suoi protagonisti non è più sufficiente: occorre abitare mondi”. “Abitare mondi” nel senso di essere coinvolti in pratiche interattive e comunitarie tipiche del fandom è una concezione dell’abitare e di “mondo” probabilmente troppo riduttiva: abitare un mondo significa anche crearlo, lasciare che esso “mondeggi”, rilanciarlo perpetuamente e non limitarsi a “raccontarlo” come qualcosa di già dato e di restituibile narrativamente.
Se come stiamo affermando la nuova serialità rappresenta una delle più importanti (non l’unica ovviamente) produzioni dell’immaginario contemporaneo, il settore da cui scaturisce la dinamica di fondazione perpetua di senso, nonché i processi relazionali intersoggettivi e i principi valoriali individuali e collettivi, allora riflettere ontologicamente sulla nuova serialità significa attribuire a essa molte delle connotazioni teoriche che solitamente sono attribuite, nel dibattito filosofico contemporaneo, al concetto di “evento”. Ma se l’evento, in grado di fondare la verità, ha tra le sue caratteristiche quelle dell’unicità, dell’imprevedibilità, dell’assoluta alterità, allora è chiaro che c’è bisogno di spiegare meglio questa strana e paradossale corrispondenza, anche perché terminologicamente e concettualmente “serie” ed “evento” si presentano come antinomici. Se è vero che l’evento è un accadimento la cui unicità è tale da rifondare l’orizzonte veritativo, è anche vero però che non può darsi evento senza diffusione massmediale dello stesso. Si tratta di quella interrogazione metafisica, irrisolvibile intellettualmente, che si traduce nel quesito se a venir prima sia l’uovo o la gallina: è l’evento in sé ad avere una forza tale da catalizzare l’attenzione di media, che poi diffondono la notizia che incide profondamente nella vita e nello spirito collettivo, oppure è la diffusione massmediale a far di un accadimento un effettivo evento in grado di fondare ontologicamente la verità? Essendo un paradosso, già messo in evidenza da Gilbert Simondon e Jacques Derrida quando parlano di “rapporto transductivo” tra televisione e spettatore – ovvero un rapporto che fonda nel suo instaurarsi i termini polari del rapporto stesso – non è ovviamente possibile sbrogliarlo e risolverlo logicamente. Va però riconosciuta, in un modo o nell’altro, l’indubitabile funzione del circuito massmediale nell’evento, anche nella capacità che esso ha di retro-fondare il mondo nel quale esso stesso può manifestarsi/si è manifestato, scardinando l’ordine lineare del tempo: l’evento apre il mondo in tensione verso l’avvenire, ma è in grado di ristabilire il rapporto tra presente e passato, perciò di ridefinire il passato stesso e ciò che lo lega ad esso. Ebbene, oggi tale contorsione appartiene anche alla dinamica di molti prodotti della cultura di massa, che però all’unicità dell’evento (più assimilabile alla dimensione dello “spettacolo”) sostituiscono una narrazione che in quanto tale può dimostrarsi anche estremamente durevole e longeva. In altri termini, evento e narrazione possono considerarsi per varie ragioni in contraddizione; parlare di “serie-evento” è un ossimoro, anche perché se affermiamo che ci sarà un evento lo disinneschiamo, neutralizzando la sua stessa portata metafisica. E se la serie, come afferma Coviello, nelle sue diverse fasi storiche comunque si basa per definizione sulla ripetitività e sul ritorno – esattamente come la pratica del plugging che Theodor W. Adorno attribuiva alla circolazione delle produzioni musicali radiofoniche, in gradi di garantirsi tautologicamente il loro stesso successo e perciò la loro reiterazione – allora potremmo affermare che la cultura pop spesso si presenta come “evento spalmato”, un evento che ritorna, che si ripete, e che come l’evento strictu sensu esprime un’energia spirituale in grado di aprire mondi e stabilire il senso stesso di tale apertura.
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