[Da gennaio in Francia è in atto una grande mobilitazione sociale che si oppone alla riforma delle pensioni del governo Macron, approvata infine a marzo con il ricorso all’articolo 49.3 della Costituzione francese. Il movimento, con un forte carattere intersezionale e una massiccia presenza giovanile, ha portato alla luce numerosi punti ciechi delle democrazie liberali contemporanee: dalla condizione femminile alla crisi ecologica globale. Dell’erosione neoliberale della democrazia, del significato della legittimità democratica oggi e delle trasformazioni del discorso pubblico, parla Jean-Claude Monod in questa intervista, curata da Julie Clarini e apparsa il 30 marzo 2023 su L’OBS. La traduzione è di Claudia Terra.]
Nell’intervista concessa a TF1 il 22 marzo, Macron ha sostenuto con forza che il popolo si esprime soltanto attraverso i rappresentanti eletti in Parlamento, facendo così intendere di non dover tenere conto dei manifestanti…
Jean-Claude Monod[1]: Emmanuel Macron gioca impropriamente con una formula effettivamente contenuta nella Costituzione: “La sovranità nazionale appartiene al popolo che la esercita per mezzo dei suoi rappresentanti”. Per cominciare, bisogna però subito notare che la maggioranza parlamentare per l’approvazione della riforma delle pensioni non era stata raggiunta. E infatti il suo governo ha dovuto poi fare ricorso al 49.3.
In ogni caso, non si può ridurre l’espressione del popolo alla sua rappresentanza. Certo, l’elezione del presidente e le elezioni dei parlamentari sono due importanti fonti della legittimità democratica, ma il popolo ha altri canali di espressione. Fin dalla Rivoluzione francese, e dall’Illuminismo, sappiamo che esso si esprime anche attraverso l’opinione pubblica, grazie alla stampa, oppure oggi grazie ai sondaggi. A partire dal XIX secolo è diventata poi familiare anche l’espressione di gruppi più organizzati nella rappresentanza sindacale, in quella che viene chiamata “democrazia sociale”. Le manifestazioni fanno parte sia dell’opinione pubblica che di questa democrazia sociale.
Ricapitolando: rappresentanza parlamentare, opinione pubblica e democrazia sociale. In tutti e tre i canali registriamo un rifiuto della riforma, almeno nella sua versione attuale e in una delle sue disposizioni fondamentali, cioè l’innalzamento dell’età pensionabile a 64 anni. In questo contesto appellarsi solo al mandato presidenziale significa avere una visione alquanto limitata della rappresentanza e della legittimità democratica. E tanto più inefficace se si pensa a quanto sia debole l’impulso di questo mandato. Nell’aprile dello scorso anno fu Macron stesso a riconoscere la necessità di tenere conto delle condizioni della propria rielezione, del fatto cioè che era stato eletto in gran parte da persone che non aderivano al suo programma e di avere «degli obblighi» nei confronti di tali elettori[2]. Avrebbe perciò dovuto cercare il consenso della maggioranza della popolazione per una riforma di questa portata.
Quanto è attuale la questione del “capo” in democrazia, su cui lei ha già lavorato in passato?
A partire da Rousseau e Kant il pensiero democratico si è impegnato a fondo per cercare di dissociare la figura dell’autorità politica da quella dell’autorità paterna. Il padre non è un modello possibile per la politica, anche nel caso di un leader politico democratico. Eppure la Quinta Repubblica racchiude in sé questo lato, esemplificato da Charles de Gaulle, una sorta di sintesi tra monarca e uomo democratico, e quindi la tendenza a trattare i cittadini ancora come bambini.
Oggi, con un presidente molto giovane e senza nessuna grande esperienza storica alle spalle, la cosa non regge più. Quando Macron si presenta come l’unico nel paese capace di assumersi le proprie responsabilità, o come il solo interprete delle ragioni dell’economia, insinuando che la popolazione sia troppo irrazionale e infantile per capirle fino in fondo, la faccenda diventa decisamente insopportabile…
Come interpretare il debordare delle proteste e le violenze scatenatesi dopo l’annuncio del ricorso al 49.3?
È importante ricordare che le istituzioni democratiche dovrebbero permettere l’espressione pacifica dei conflitti. È la condizione – come pensavano tanto Raymond Aron quanto Claude Lefort – perché le lotte di classe e i conflitti sociali non sfocino nella guerra civile o in violenze fisiche, e, viceversa, perché alle critiche ai governanti e al rifiuto delle loro politiche non segua la repressione.
Penso che si possano usare due griglie di lettura abbastanza efficaci per analizzare questo momento incandescente. La prima è di matrice marxista: la violenza strutturale del tardo capitalismo, che si manifesta in particolare nel deterioramento della qualità della vita, provoca la contro-violenza della popolazione e quindi situazioni quasi insurrezionali. Un fenomeno finora molto limitato.
Un’altra interpretazione, non incompatibile con la prima, della situazione attuale si concentra invece soprattutto sull’inceppamento dei meccanismi democratici. Dato che le mobilitazioni di massa non vengono prese in considerazione, il ricorso alla violenza sembra essere il mezzo più efficace per farsi ascoltare. Le grandi mobilitazioni contro la Loi travail[3] non hanno ottenuto alcun risultato, mentre i gilet gialli sono riusciti in qualche modo a farsi sentire. Si diffonde così l’idea che l’ostinazione e la sordità dell’esecutivo su certe questioni possano essere contrastate solo mettendogli paura. C’è poco di cui rallegrarsi.
Oggi alcuni gruppi cercano di far salire la febbre insurrezionale. A ogni pur vago sentore di un indebolimento del potere segue un incoraggiamento per i movimenti violenti, sia di destra che di sinistra, la cui agenda non è tanto determinata dalle riforme in questione, quanto piuttosto dalla profezia autoavverantesi dell’insurrezione che viene. Il problema è che non è chiaro cosa dovrebbe venire dopo l’insurrezione.
In sintesi, col radicalismo di questo momento si possono sintonizzare ambo le parti, e non necessariamente in una direzione favorevole al consolidamento della democrazia.
Che cosa può fare la sinistra?
La sinistra democratica non può permettersi di scommettere su questa violenza insurrezionale, ma non può neanche ignorare l’impressione, ampiamente condivisa, dello svilimento oligarchico della democrazia. La sinistra deve attingere dalla rabbia sociale per trasformarla. Direi che ha un obbligo di radicalità, che non è la radicalità della violenza, ma quella di una messa in discussione radicale del sistema di governo, dell’orientamento generale dell’economia, della devastazione ecologica in atto…
Per il momento, ho l’impressione che non si stia ancora verificando una delegittimazione del movimento contro la riforma delle pensioni a causa delle violenze. L’ipotesi di un testa a testa tra black block e polizia, da un lato, e popolo e Macron, dall’altro, non regge. Mentre l’accusa contro il “monarca” che si sente riecheggiare nelle manifestazioni rimane carnevalesca. Al contrario di ciò che pensa Fabien Roussel, non siamo in uno stato di guerra civile: la guerra civile è un’altra cosa[4].
Che dire dell’uso vago della parola “violenza” nel dibattito pubblico?
È vero che nel racconto dei fatti spesso si perdono di vista distinzioni cruciali: far saltare le vetrine delle banche o le pensiline degli autobus è cosa ben diversa che colpire agli occhi le persone o attentare alla loro integrità. Non è la stessa violenza quella che distrugge una vetrina e quella che distrugge un volto. Lo Stato dovrebbe contenere la violenza ma anche la sua stessa violenza. È qui che possiamo iniziare a preoccuparci davvero. Come diceva Kant, le cose hanno un prezzo, ma le persone no, hanno una dignità. Il che significa, d’altro canto, che se si inizia a linciare i poliziotti si sta pure superando una soglia. Si entra in una spirale di violenza.
Gérald Darmanin reclama spesso il monopolio legittimo della violenza per la polizia, facendo appello a Max Weber[5]. È un’interpretazione corretta?
Dichiarazioni come questa rischiano di incoraggiare una condotta violenta da parte della polizia, mentre le forze dell’ordine dovrebbero agire nel quadro dello Stato di diritto. D’altra parte, si tratta di una citazione totalmente sbagliata. Max Weber ha scritto che lo Stato detiene il monopolio dell’uso legittimo della violenza nel contesto di una descrizione sociologica che si sforzava di distinguere lo Stato da altre istanze, gruppi o associazioni. È un’analisi descrittiva, non normativa. Weber non stava né approvando né condannando: per lui si trattava semplicemente di capire il funzionamento degli Stati moderni.
Potremmo aggiungere che Max Weber parla di Stato senza specificare se lo Stato in questione sia democratico o meno?
Effettivamente la sua formula funzionerebbe sia per la Cina sia per l’Iran, dove lo Stato rivendica allo stesso titolo il monopolio della violenza, anche se politicamente, ai nostri occhi, quella non è una violenza legittima.
Possiamo scivolare da uno Stato che possiede l’autorità a uno Stato autoritario?
Siamo ancora in democrazia? Il tema è nell’aria. Ma dire che siamo in una dittatura è falso dal punto di vista descrittivo: possiamo ancora esercitare il nostro diritto di critica pubblica di chi è al potere, possiamo mandare a casa i governanti per via elettorale, la giustizia garantisce un certo numero di diritti… Non siamo in Russia, in Cina o in Iran.
Nondimeno, potremmo formulare la domanda in modo diverso: siamo di fronte a un neoliberalismo autoritario? L’idea di un autoritarismo neoliberale implica, nella sostanza, il mantenimento delle libertà appena ricordate, ma anche la tendenza a reprimere i movimenti sociali o i movimenti ecologisti contrari a certi interessi. In effetti si assiste, in Francia, come in altre democrazie, a una banalizzazione delle misure eccezionali e a un rafforzamento dei meccanismi di sicurezza. Un certo numero di garanzie dello Stato di diritto sono state revocate. Le organizzazioni internazionali denunciano il declino delle libertà e l’aumento della violenza della polizia. Il termine neoliberalismo autoritario non sembra poi del tutto fuori luogo.
In ogni caso, siamo ben lontani da un avanzamento del carattere democratico della democrazia liberale. Quest’ultima dovrebbe comportare meccanismi di maggiore coinvolgimento del popolo nella deliberazione collettiva, nel processo decisionale politico, nella co-legislazione, per dirla con Kant, secondo il quale nella Repubblica il cittadino è al tempo stesso co-legislatore e suddito. Al contrario, la sensazione che si ha oggi è che lo Stato reagisca con un’inflessibilità pressoché irrazionale non appena si affrontano questioni che vanno a toccare il mercato o gli ultraricchi.
Come interpretare questa rigidità?
Ciò che mi colpisce, a dire il vero, non è tanto il desiderio di autoritarismo quanto la sordità, il rifiuto di dare credito e rilevanza all’intelligenza collettiva del popolo: ne nous emmerdez pas [non rompeteci le palle]! Ecco l’espressione di una sorta di chiusura oligarchica, di un potere che si crede illuminato perché si preoccupa dei mercati, dei meccanismi del debito, ecc., e che subordina a questi ultimi le questioni della libertà politica e della giustizia sociale. Per questo si ha quasi l’impressione che la contestazione si svolga nel vuoto.
Credo che ci troviamo in un’impasse piuttosto grave. Anzi in una duplice impasse: in Emmanuel Macron convergono verticalità e neoliberalismo. Idealmente, il neoliberalismo avrebbe dovuto prevedere una governance più elastica, meno piramidale, mentre Macron ha optato per la verticalità della Quinta Repubblica, conservando allo stesso tempo un carattere fortemente neoliberale sul piano economico. Ebbene ora la popolazione rifiuta in massa la scelta di trascurare la giustizia sociale a favore dei “primi della cordata”[6], dell’equilibrio economico e della soddisfazione dei mercati. Sebbene non coincida col problema istituzionale, le due dimensioni finiscono per convergere. Macron ha quasi portato la Quinta Repubblica a un punto di rottura.
Perché i giovani prendono parte alle manifestazioni?
Dopo il Covid, i giovani hanno riscoperto una sorta di effervescenza collettiva. Ai loro occhi questa riforma è il simbolo di una politica tanto sorda quanto ingiusta. La nuova generazione è molto sensibile alla questione della giustizia, in un senso ampio. Così come lo è agli abusi di ogni tipo: per i giovani è fondamentale non sfruttare il pianeta, le persone, i corpi, le donne… Hanno a cuore nozioni quali legame, fragilità, durata e hanno un approccio molto radicale alle questioni. E infatti, sebbene non li riguardi “da vicino”, la posta in gioco della riforma delle pensioni è proprio l’usura dei corpi nei luoghi di lavoro, lo sfruttamento, come pure la solidarietà intergenerazionale. Ed è soprattutto una questione di giustizia.
Note
[1] Jean-Claude Monod è direttore di ricerca presso il CNRS, professore all’École Normale Supérieure di Parigi e regista. È specialista di filosofia politica e filosofia tedesca. Tra le sue numerose opere: La querelle de la sécularisation. De Hegel à Blumenberg (Vrin, 2002), Qu’est-ce qu’un chef en démocratie ? Politiques du charisme (Seuil, 2012; Points, 2017) e L’Art de ne pas être trop gouverné (Seuil, 2019). In lingua italiana è da poco apparso il suo testo del 2016: Pensare il nemico, affrontare l’eccezione. Riflessioni critiche sull’attualità di Carl Schmitt (Castelvecchi, 2023). [N.d.T.]
[2] “So anche che molti dei nostri connazionali hanno votato per me oggi non per sostenere le mie idee ma per opporsi a quelle dell’estrema destra. Voglio ringraziarli e dire loro che sono consapevole che questo voto mi impone degli obblighi per i prossimi anni” (discorso di Macron in occasione della rielezione del 24 aprile 2022). [N.d.T.]
[3] Jobs act alla francese, approvato nel luglio 2016 con il ricorso al 49.3 sia in Parlamento che in Senato. [N.d.T.]
[4] Fabien Roussel, segretario nazionale del Partito Comunista Francese, in un intervento radiofonico del 25 marzo ha dichiarato che il governo potrebbe trarre vantaggio dal clima di “guerra civile” causato dal ricorso al 49.3 e dallo stesso “tracotante” intervento televisivo di Macron. Questi, dopo aver provocato i francesi, farebbe leva sulle violenze stesse, sulla radicalizzazione del movimento per delegittimare l’intera protesta. [N.d.T.]
[5] Gérald Darmanin è l’attuale Ministro dell’interno del governo guidato da Élisabeth Borne, ma ricopriva la carica già nel 2020 sotto il governo di Jean Castex. Darmanin si è richiamato a Weber nel luglio 2020 davanti alla Commissione parlamentare che lo interpellava in materia di sicurezza. Sullo sfondo, l’affaire Cédric Chouviat, rider di 42 anni, che ha perso la vita nel gennaio 2020 in circostanze poco chiare a seguito di un controllo stradale a Parigi, nel quale era stato immobilizzato a terra. Proprio nel luglio 2020 tre dei quattro agenti di polizia coinvolti sono stati rinviati a giudizio per omicidio colposo. L’argomento della “violenza legittima della polizia” è stato ribadito da Darmanin in un intervento radiofonico lo scorso 29 marzo. La questione è tornata drammaticamente di attualità non solo per via delle manifestazioni contro la riforma delle pensioni ma anche per la mobilitazione del 25 marzo a Sainte-Soline (Nuova Aquitania) contro la costruzione di un grande bacino idrico. [N.d.T.]
[6] Nell’ottobre 2017, in occasione della sua prima intervista televisiva dopo l’elezione, Macron ha utilizzato una metafora “alpinistica” per descrivere una società – quella che il suo governo promuove e favorisce – trainata da coloro che reussisent, che hanno successo. Il tutto, nel quadro di una discussione sulla riforma della tassa patrimoniale (ISF): “Io credo nella cordata: ci sono donne e uomini che hanno successo nella società perché hanno talento […] voglio che siano apprezzati […]. Ma se iniziamo a lanciare pietre contro i primi della cordata, precipitano tutti”. [N.d.T.]
[Immagine: Foto di Juan–Pablo Yáñez].
Commenti recenti