Mariangela Pira: «La politica dovrebbe tornare a prevalere sull’economia»
di DIARIO DEL WEB (Fabrizio Corgnati)
La giornalista Mariangela Pira, noto volto di SkyTg24, racconta al DiariodelWeb.it gli argomenti del suo ultimo libro «Effetto domino», edito da Chiarelettere
Come hanno influito gli eventi della pandemia e della guerra in Ucraina sul nostro mondo globalizzato? E come influiscono le grandi dinamiche della macroeconomia sui piccoli gesti della nostra vita quotidiana? Di questi temi tratta «Effetto domino», edito da Chiarelettere: l’ultimo libro della giornalista Mariangela Pira, noto volto di SkyTg24, voce del podcast 3Fattori e molto seguita online e sui social. Come sua abitudine spiega, con linguaggio semplice e accessibile anche ai profani, argomenti tecnici e complessi, ma che toccano la realtà di tutti noi. Il DiariodelWeb.it l’ha raggiunta in quest’intervista.
Mariangela Pira, dopo due eventi epocali come la pandemia e la guerra, che cosa abbiamo capito di più del nostro mondo contemporaneo?
Io sicuramente ho capito che il mondo cambia molto, molto rapidamente. Gli economisti basavano la loro analisi su quello che dicevano la Banca centrale europea, il Fondo monetario, la Banca mondiale. Oggi questi stessi economisti inseriscono un «rischio guerra», che fino a poco tempo fa nessuno di noi immaginava. Lo davamo per scontato che eravamo in pace. Tutto questo cambia profondamente lo scenario.
In che modo?
L’altro giorno parlavo con un’azienda, di quelle che ho intervistato nel libro. Mi diceva che oggi diamo per scontato che il prezzo del gas sia diminuito di dieci volte rispetto allo scorso agosto: tra un po’ l’effetto lo vedremo anche sulle nostre bollette, che scenderanno di circa il 15%. Ma la domanda è: che cosa accadrà il prossimo inverno? Lei me lo sa dire?
Io sicuramente no.
Nemmeno io. Sarà più rigido? Ci basteranno le scorte? Se la Russia ci ha chiuso i battenti, da chi ci approvvigioneremo? E quindi il prezzo del gas che fine farà?
Ottime domande.
Nel libro prendo ad esempio il caffè: nessuno se lo immagina, ma per la tostatura, il raffreddamento, l’acquisto della materia prima, ci sono spese altissime, che si fatica a sostenere mantenendo invariati prezzi. E, soprattutto, la situazione varia da un giorno all’altro. E tutti, comprese le banche centrali che facevano le prime della classe, devono tenerne conto nelle proprie decisioni.
In altre parole, quelle certezze stabili che ci illudevamo di avere sono venute meno. E quindi in quest’incertezza come si può navigare?
Pensiamo all’incipit di crisi economica che abbiamo appena vissuto, partita dalle banche americane. Quegli stessi Stati Uniti che di solito ci impartiscono lezioni: ora, non dico che siano degli scappati di casa, ma un po’ ancora sì. Hai voglia a mettere le regole, se poi arriva Trump e le toglie. L’Europa, invece, le ha mantenute e guarda caso il patatrac bancario da noi non c’è stato. Ci criticano sempre per le troppe regole, però queste stesse regole ci hanno consentito di non far scappare i buoi dalla stalla.
Intende dire che abbiamo imparato la lezione dalla crisi del 2008?
Se non ci fosse stato il caso Lehman Brothers, oggi probabilmente staremmo affrontando un’altra crisi finanziaria. Quando ti sei già scottato e il problema si ripropone, sai trovare una soluzione. Lo stesso vale per la pandemia: dovesse riproporsi il futuro, stavolta sapremmo come comportarci. E se l’Europa ha saputo affrontarla velocemente è perché questo problema aveva colpito tutti e quindi ci siamo uniti, non ci siamo dovuti inchinare a Germania o Austria. Questa è la prima ricetta, che ci deriva dai disastri precedenti.
E la seconda?
La comunicazione. L’unico modo per attutire il danno è essere informati, sulla base di dati e analisi, non di presupposizioni o di catene di Sant’Antonio. E le aziende devono socializzare queste informazioni al loro interno il più possibile.
Insomma, i momenti difficili, di sofferenza, quando li abbiamo superati non ci indeboliscono, ma anzi ci rafforzano. Questo dovrebbe impararlo anche l’informazione, a presentarci le crisi come occasioni di crescita, non solo come minacce da cui fuggire, non crede?
Assolutamente sì. Non è vera la diceria secondo cui in Cina c’è un ideogramma che significa sia crisi che opportunità, però a me quest’idea piace comunque. Ognuno di noi ha affrontato momenti di crisi e non credo che oggi affrontiamo un momento di difficoltà nello stesso modo in cui avremmo risposto dieci anni fa.
Io no.
Nemmeno io. Questo vale per la nostra vita privata, per quella lavorativa e anche per le situazioni di crisi globale. Detto questo, noi italiani non siamo così capaci di imparare dai nostri errori. Spesso li ripetiamo in modo quasi autolesionistico.
Su questo punto non posso darle torto.
Faccio un esempio banale: siamo i peggiori a spendere i fondi europei e, invece di creare competenze, riusciremo a non spendere anche i 19 miliardi della rata di Pnrr.
Questo ci ricollega a un altro punto del suo libro che mi ha colpito: il ruolo della politica, che è stato per troppi anni succube dell’economia. Non si può basare le scelte solo sul costo o sulla convenienza nel bilancio di quest’anno.
Secondo me è proprio così. Di questo tema ho discusso con il professor Floridi e quello che mi ha detto è così importante che l’ho messo nell’introduzione e nella conclusione. Lui sostiene che l’economia è uno strumento, a disposizione di un disegno politico. Il problema nasce se manca la pianificazione.
Non c’è nessuno a definire le priorità.
I cinesi pianificano a cinque anni. Noi non dobbiamo prendere ad esempio un Paese comunista, perché siamo una democrazia liberale. Ma darsi quel genere di obiettivi pluriennali è determinante e noi non abbiamo imparato a farlo. Così arriva qualcuno che vede una nostra società in difficoltà, ci offre qualche miliardo per acquistarla e noi, che ne abbiamo bisogno, gliela vendiamo senza chiederci chi stiamo invitando alla cena di Natale.
Questo vale anche per il Pnrr che citava poco fa.
Ci si perde in tantissimi progettini, a tal punto che è persino difficile da seguire. Un governo, e non mi riferisco in particolare a questo, avrebbe dovuto investire nella scuola, aumentando gli stipendi degli insegnanti, nelle infrastrutture, per permettere al Sud di muoversi come al Nord, nella sanità, magari nella ricerca sul cancro. Basterebbero tre obiettivi chiari e tutto il resto verrebbe di conseguenza.
Platone chiamava la politica «basilikè téchne», ovvero «tecnica regia», proprio perché era la sovrana di tutte le altre tecniche, le governa e le orienta.
Esatto. Questo esempio è nobilissimo. Loro non avevano i nostri strumenti, ma dal punto di vista degli obiettivi erano anni luce avanti rispetto a noi.
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