Che genere di film è?
Il film, nel cui cast troviamo una sfilza di celebrità come Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Jonah Hill, ma anche Mark Rylance, Ron Perlman, Timothée Chalamet, Ariana Grande, Scott Mescudi (alias Kid Cudi), Himesh Patel, Melanie Lynskey, Michael Chiklis e Tomer Sisley, è costato 75 milioni di dollari e racconta di una grande cometa che potrebbe colpire la Terra e annientare l’umanità.
Con queste premesse potremmo pensare che si tratti di un disaster movie che come dice il Lessico del XXI Secolo della Treccani:
è una tipologia di opera cinematografica riconducibile al genere drammatico e avventuroso che ha come nucleo narrativo fondamentale l’approssimarsi di un evento catastrofico, naturale o indotto, che attiva di conseguenza una serie di dinamiche volte a contrastare il verificarsi dell’inevitabile. Tale evento catastrofico può essere per esempio l’arrivo di un asteroide sulla Terra, un possibile disastro aereo, una sciagura marittima o il diffondersi di un virus letale. Film capostipite di questo genere è Airport (1970) il cui grande successo ha spianato la strada ad altre opere come L’avventura del Poseidon (1972), Terremoto e L’inferno di cristallo, entrambi del 1974. Solitamente interpretati nei ruoli principali da divi di Hollywood (da Paul Newman e Steve McQueen fino a Bruce Willis e George Clooney), questi film hanno sempre fatto ricorso a caratteristi di notevole bravura. Accanto a ciò l’apparato spettacolare è sempre stato assicurato dal ricorso a tecniche di computer grafica costantemente all’avanguardia e da effetti speciali sorprendenti.
A sentire i nomi del cast, ci si potrebbe aspettare una trama che, grazie alla bravura degli attori, agli effetti speciali mozzafiato e alla narrazione avvincente, tolga il fiato allo spettatore.
In realtà in Don’t look up non c’è niente di tutto questo. All’annuncio del disastro imminente scoperto da due scienziati di una università secondaria – questo nel modello culturale statunitense è molto significativo – si riscontra un generale disinteresse di chi dovrebbe provare a prevenire il disastro. Il film sembra appartenere più alla satira che non ad altri generi. Forse proprio questa precomprensione del genere è il motivo di reazioni tanto discordanti tra la critica e il pubblico.
Il film stato candidato a quattro Golden Globe e nei suoi primi tre giorni su Netflix ha accumulato un totale di oltre 111 milioni di ore di visione. Secondo siti come IMDb e Rotten Tomatoes, che aggregano decine di recensioni professionali e voti di semplici appassionati, il voto medio dato dagli spettatori che hanno valutato il film è intorno al 7, mentre quello dei critici si aggira intorno al 5. Su Repubblica, in un articolo dal titolo “Capolavoro o pasticcio, l’importante è parlare di Don’t Look Up”, Antonio Dipollina ha riassunto le opinioni discordanti: «piace, il film (definizioni anche come “Capolavoro” o “Descrizione perfetta del nostro tempo”) e parimenti viene detestato per un didascalismo invero irritante, ha dentro una ventina di temi possibili su cui dividere quel mondo che discute di tutto quello che passa davanti, ha un cast eccezionale e assai corretto (DiCaprio è un attivista totale su questioni ambientali), sobilla quelli di un paio di generazioni e sconvolge, per il sobillare altrui, quelli di un altro paio».
Satira di cosa?
La satira è un genere della letteratura, delle arti e, più in generale, di comunicazione molto antico. Il nome stesso deriva dal latino: satura lanx era il nome del vassoio vuoto riempito di primizie in offerta agli dei. Gli elementi della satira sono l’attenzione critica ai vari aspetti della società. Chi fa satira vuole mostrare le contraddizioni del vivere sociale e, contemporaneamente, vuole promuovere un cambiamento. Lo stile della satira condivide con lo stile comico la volontà di far ridere ma unisce una critica prendendo di mira i personaggi e deridendoli su temi politici, sociali e morali. Infatti la comicità di solito non ha come oggetto fatti rilevanti del vivere pubblico e non propone un punto di vista specifico, vuole solo intrattenere facendo ridere. Sin dal suo utilizzo nell’Antica Grecia, la satira ha avuto una impronta politica: si occupava degli eventi di stretta attualità della polis, e ha avuto una notevole influenza sull’opinione pubblica ateniese, proprio a ridosso delle elezioni.
Allora se guardiamo il film da questa prospettiva possiamo vedere una prospettiva satirica a più livelli. Ad un primo fondamentalissimo livello l’attacco satirico colpisce una società perbenista dell’apparire che mostra in ogni occasione la sua superficialità e una doppia vita. Inoltre Adam McKay usa la metafora della cometa e del suo effetto catastrofico per mostrare come diversi gruppi di persone reagiscono a questa notizia:
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gli scienziati: la comunità scientifica rappresentata nel film da Michael Mann, questi sacerdoti di un sapere fatto di rigore e certezze, se inserita nel circuito dei media sembra corrompersi, la fama trasforma il rigore della scienza in una sorta di perbenismo mediatico che mira ad apparire sexy e mainstream lasciando in ciascuno la domanda di dove finisca la scienza e inizi il narcisismo (come non pensare a le interviste a virologi, medici e scienziati in tempo di pandemia?). La scienza è pura ricerca e verità dimostrabili o è un gruppo di scienziati che se posso trarre vantaggi personali da questa di fatto ne approfittano?
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i politici: la presidente Janie Orlean è politicamente indefinibile, sembra Donald Trump donna, venendo dal business e dallo spettacolo e indossando un cappellino analogo a quello dell’ex presidente. Non sembra mai competente dei temi trattati ma intuisce sempre cosa la gente vuole sentire. Sembrerebbe una silhouette repubblicana ma sulla scrivania dello Studio Ovale tiene una foto che la ritrae abbracciata a Clinton: la satira è su tutta la classe politica di Washington che sembra più preoccupata di recitare un ruolo che non cercare il bene del paese. Tra e il suo braccio destro, che è il figlio – sembra essere una copia ancora più maldestra di Ivanka – e lo scandalo sessuale dell’aver mandato foto intime al suo partner, che ha candidato alla Corte Suprema, sembra anch’essa maggiormente interessata a se stessa che non al ruolo che ricopre.
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i membri dell’apparato governativo: fedeli servitori dello stato usque ad sanguinem o approfittatori che rivendono le merendine gratuite della Casa Bianca per trarne piccoli vantaggi personali?
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i guru della tecnica: portatori di un nuovo sapere e benessere, un nuovo rinascimento, o persone che recitano anch’essi una parte fatta di buonismo e interesse per il bene dei consumatori ma che in realtà sono interessati solo ai loro interessi? Come nota Cazzullo sul Corriere della Sera “Il vero malvagio del film è Peter Isherwell, terzo uomo più ricco al mondo, re dei telefonini Bash, racchiuso in una battuta meravigliosa: «È quello che ha comprato la Bibbia di Gutenberg e poi l’ha persa». Isherwell è insomma uno Steve Jobs redivivo, con una spruzzata di Bill Gates (le Bibbie di Gutenberg sono in realtà decine, mentre il Codice Leicester di Leonardo è uno solo, ed è suo) e di Elon Musk: non a caso Isherwell ha già pronta la navicella spaziale per sfuggire alla catastrofe, alla ricerca di un pianeta dove trapiantare la vita umana, a cominciare ovviamente dalla propria. Come i veri padroni della Rete, Isherwell sa tutto di noi, compreso il modo in cui moriremo. Sa che pure chi si crede idealista in realtà non fa altro che sfuggire il dolore e inseguire il piacere. Ed è l’unico a capire fin da subito che il pericolo è davvero serio; ma non al punto da rinunciare a trarne profitto. Anche perché la presidente è cera nelle sue mani di finanziatore e manipolatore”. La sua figura, che mette in crisi il sapere della scienza in nome di una tecnica che sembra offrire risultati prodigiosi come se fosse una nuova versione della magia, è satira di tutto quel mondo che promette di realizzare prodotti per il bene di tutti ma che fin ora ha realizzato il bene di pochissimi a spese dei consumatori. Come non rileggere quello che le grandi platform e i giganti dell’IT hanno fatto all’economia americana: Bezos con Amazon ai piccoli retailer e Uber ai tassisti riducendo il salario medio di un guidatore sotto la soglia di povertà in nome dell’essere imprenditori di se stessi.
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i media: un regno della superficialità e dell’apparire dove tutto diventa vuoto e soft. Non si può essere radicali né estremi anche se quello che si dice è estremo di suo come la fine dell’umanità. Inoltre questi sono schiavi di metriche digitali e impact factor. Non conta più la qualità della notizia ma quanto questa “muova” in termini di reazioni della sfera digitale: il like vince su tutto. La rete prende la notizia e la trasforma in un match senza fine tra schieramenti opposti carichi di odio e pieni di leoni da tastiera. A seguire partono i complottismi e le teorie cospirative cui la pandemia ci ha tristemente abituato. Una domanda rimane allo spettatore: qual è il ruolo e la funzione dei media in una società iperconnessa? Anche qui rimangono figure che vivono un ruolo cercando dei vantaggi personali.
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i gruppi controculturali e la middle class: silente e sullo sfondo la società di massa americana sembra essere non più quel gruppo di persone per bene, i biondi e forti cow boys, ma un ventre molle che ha perso ogni spinta propulsiva. Martin Luther King aveva già detto: “Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti”. Ora però rimane solo il silenzio. Anche i gruppi controculturali, artefici delle denunce degli abusi del governo negli anni ruggenti della contestazione, o capaci di dare vita alla rivoluzione digitale nei garage dei suburbs americani sembrano estinti e quello che rimane è solo un piccolo e bieco cercare di trarre profitto per se da piccoli crimini come rubare degli alcolici in un supermercato.
L’assoluta banalità del male
Quello che secondo me produce un malessere diffuso nello spettatore e che induce qualcuno a interrompere la visione prima della fine del film però è il palesarsi di quello che Hanna Arendt ha definito come l’assoluta banalità del male.
Antropologi come Joseph Campbell, i cui lavori stanno dietro a saghe che hanno affascinato miliardi di spettatori come Guerre stellari, ci insegnano che abbiamo bisogno di eroi e antieroi per far rivivere nelle nostre narrazioni qualcosa di profondo che abita in ciascuno di noi. Campbell nota che nella letteratura esiste una struttura narrativa molto diffusa: il viaggio dell’eroe, o monomito. Campbell la descrive nel suo libro “L’Eroe dai Mille Volti”. L’opera, pubblicata per la prima volta nel 1949, esamina moltissimi archetipi e tratti comuni nei racconti e le mitologie di tutto il mondo e dalla sua uscita è stata di ispirazione per diversi autori e registi. Tra questi, c’è proprio George Lucas, che ha sempre dichiarato esplicitamente di essersi ispirato alle teorie di Campbell.
Lucas incontrò Campbell di persona solo nel 1984, quando già la trilogia originale di Star Wars era conclusa. Un amico comune fece le presentazioni; dopo un po’ di freddezza iniziale da parte di Campbell, i due divennero buoni amici. Campbell non aveva visto nessuno dei film di Star Wars, ma rimediò e li apprezzò. I due rimasero amici fino alla morte di Campbell, nel 1987. Al di là di questo dettaglio quello che importa è che in Don’t look up non c’è nessuno stile narrativo alla Campbell: mancano tanto gli eroi – sono tutti demoliti dalla satira – quanto gli antieroi. Questo ci disturba. Non è la trama lenta o la narrazione banale a produrre una sorta di insopportabilità del film in alcuni ma l’assenza non solo degli eroi ma almeno di un cattivo con cui prendersela.
Possiamo capire che non ci sia un eroe ma il complottista che abita in ciascuno di noi non sopporta che non ci sia un male grande e ben identificabile su cui scagliare il nostro malessere. Anche questo ci è tolto. Come è possibile che allora le cose vadano così?
Dobbiamo tornare a leggere Hanna Arendt. Cinquant’anni fa, l’11 aprile del 1961, ebbe inizio, a Tel Aviv, il processo contro Adolf Eichmann, il «commesso viaggiatore» dalla Shoa. Esattamente un anno prima, in Argentina, i servizi segreti israeliani avevano rapito il sedicente Arturo Klement, altoatesino di nascita – così era scritto nel passaporto di Eichmann – per trasportarlo clandestinamente in Israele. Il processo durò quasi un anno e si concluse con la condanna a morte e l’impiccagione del colonnello delle SS, incarnazione – per Hannah Arendt, presente alle 120 udienze del processo, successivamente trascritte e commentate in un volume ormai divenuto un classico – di una sconcertante «banalità del male». L’«affare Eichmann» diventò, da subito, una sorta di certificazione storica dell’esistenza e della forza, anche comunicativa, dello Stato di Israele, deciso a non delegare più a nessuno non solo la propria difesa, ma anche l’espiazione retrospettiva dei soprusi antisemiti. Ma accanto a questo significato ci fu un dramma collettivo, originato dalla confessione, per la prima volta pubblica, delle persecuzioni subite dai sopravvissuti. Questo dramma, seguito dalla stampa internazionale, diventò anche il punto di partenza per una progressiva elaborazione pubblica e racconto della Shoa, fino ad allora inesistente. E appunto, prima che la Arendt coniasse la sua celebre definizione, giudici, magistrati e soprattutto giornalisti, si stupirono del basso profilo dell’imputato, certo non costruito artificialmente, visto che Eichmann non rinnegherà niente. Giorgio Bocca, ad esempio, inviato del «Giorno», scriverà un articolo – dal titolo significativo («Eccolo! Sembra un istitutore un po’ timido») su questo straordinario contrasto tra la lista dei crimini efferati snocciolati dal pubblico accusatore e la pacata e serena compostezza di colui che per cinque anni aveva rifornito di «morituri» i campi di sterminio di buona parte dell’Europa.
Don’t look up parla di catastrofi che non sono il frutto di una mente superiore e cattiva ma dell’indifferenza di molti anzi del piccolo ed egoista privilegio di sé che ciascuno di noi mette nelle sue scelte di fronte al vivere pubblico. Quello che infastidisce di questo film è la denuncia satirica e precisa del fatto che la colpa di questa decadenza è anche mia e di ciascuno di noi. Il consumarsi della società e delle istituzioni parte dalle mie piccole scelte egoiste che rafforzano e danno potere a un criterio generale e diffuso in cui le cose che vale la pena fare sono solo quelle che portano a un vantaggio personale. Ci siamo ammalati di un egoismo ipocrita, un egoismo che potremmo definire avveduto nel senso che non si manifesta in maniera crassa e ignorante: faccio quello che voglio io e basta. L’egoismo che alimenta l’assoluta banalità del male, fino alla catastrofe planetaria, è fatto di un mi conviene. Osservo le regole e i costumi se mi conviene ma non credo in nulla scelgo solo quello che mi porta un vantaggio. Vediamo solo il nostro interesse e questo rende invisibile e insostenibile il bene comune. Quello che ha animato una stagione di grande impegno collettivo, gli anni Sessanta e Settanta, non è solo cancellato dall’edonismo degli anni Ottanta ma irriso dal benessere ad ogni costo di questi ruggenti anni venti come li chiamerebbe Alec Ross che, appunto nelle riflessioni dell’autore, erodono ogni forma di contratto sociale. Al cospirazionismo Don’t look up risponde in un modo geniale e inaspettato: semplicemente mostra come non esiste un male grande e segreto che muove il mondo, per buona pace di Q-anon, ma semplicemente una serie di piccoli e meschini interessi personali. Gocce di egoismo che formano oceani di distruzione a livello planetario.
Un gioco di parole
Non possiamo non notare un gioco di parole nel titolo del film. Look up infatti significa guardare su ma anche cercare: si allude secondo me anche al complesso fenomeno dell’infodemia: la seconda “epidemia” causata dalla Covid-19. In tempi non sospetti David J. Rothkopf, giornalista del Washington Post, aveva lanciato questo neologismo destinato a diventare molto attuale ai giorni nostri. In un suo articolo di commento sulla SARS, scritto nel 2003 e dal titolo “When the Buzz Bites Back”, Rothkopf ha coniato la parola “infodemic” per descrivere la patologia che affligge chi viene sommerso da una quantità troppo alta di informazioni tanto da andare incontro ad una vera e propria indigestione mediatica. La moltitudine di notizie nella quale si trovano mischiate la buona informazione e le fake news porta alla disinformazione. Niente di più attuale se pensiamo alla difficoltà riscontrate negli ultimi due anni di pandemia nel districarsi con le informazioni relative alla Covid-19.
In questo calderone però occorre chiarire che la disinformazione è un concetto complesso che racchiude in sé diverse sfumature. Esiste infatti la disinformazione vera e propria, intesa come intento consapevole di gettare fumo negli occhi, dando notizie false allo scopo di avvalorare le proprie tesi, ma anche la “malinformazione” e la “misinformazione”. Nel primo caso notizie vere che avrebbero dovuto restare nella sfera privata vengono diffuse per creare un danno a qualcuno. Viceversa, la misinformazione avviene quando si diffondono informazioni false senza il reale intento di disinformare ma solo perché si crede di essere in possesso della verità certificata. Quest’ultimo caso è senz’altro quello che una buona comunicazione politico-istituzionale, coordinata da esperti comunicatori e non improvvisata, può prevenire al fine di offrire ai propri cittadini le informazioni corrette a proposito dei temi legati alla salute e non solo. Se la malinformazione è certamente la prima sorgente di disinformazione, i social media ne sono il suo mezzo principale. Secondo una ricerca a campione del Reuters Institute for the Study of Journalism, i social media sono infatti la fonte dell’88% della misinformazione circolante. Mentre sta emergendo sempre di più il grande ruolo di responsabilità di aziende come Facebook o Twitter, e in generale delle altre piattaforme social, nel veicolare e dare spazio a messaggi potenzialmente pericolosi perché falsi o ideologici, anche i sistemi di messaggistica individuale, come Whatsapp o Facebook Messenger, sono spesso veicolo di contenuti che sfuggono al controllo indiretto di terzi o dell’opinione pubblica in generale e quindi si prestano molto bene a diffondere notizie non verificate a vantaggio di questa o quella tesi.
Algoritmi progettati per consigliare informazioni e prodotti in linea con le presunte preferenze individuali possono creare feedback incontrollati in cui sia le preferenze sulle informazioni dell’utente che la successiva esposizione ai contenuti diventano più estreme nel tempo (le cosiddette bolle). Tali dipendenze dal percorso possono avere effetti trasformativi, modificando le preferenze e i valori degli utenti stessi e portando alla radicalizzazione. Ma il problema è più generale. In breve, stiamo scaricando i nostri processi evoluti di ricerca di informazioni su algoritmi. Ma questi algoritmi sono in genere progettati per massimizzare la redditività, con incentivi spesso insufficienti a promuovere una società informata, giusta, sana e sostenibile. L’avanzata del virus è andata di pari passo con uno tsunami di disinformazione che ancora oggi, fra no-vax, negazionisti e fieri oppositori delle misure precauzionali necessarie per evitare l’aumento dei contagi, contribuisce a creare sfiducia e preoccupazione fra i cittadini. Don’t look up è una feroce satira su cosa fa oggi la verità: il soggetto che cerca e trova cose in cui gli piace credere è l’arbitro ultimo di una verità diventata mera emozione capace di convincermi.
Qual è il messaggio di questo film?
Il finale del film forse rappresenta la chiave di lettura dell’opera e la prospettiva dell’autore che fa di questa pellicola (termine desueto nel mondo digitale ma ancora pieno di fascino) una vera e propria satira. L’indifferenza dei singoli e delle istituzioni di fronte a una catastrofe imminente è quello che si è rivelato fatale. La banalità del male è quello che porta, tra un piano che avrebbe potuto salvare tutti, e un piano che avrebbe potuto arricchire pochi ma sicuramente meno sicuro del primo, a scegliere la seconda opzione.
I protagonisti, dopo aver attraversato la bufera di fake news, ignoranza, schieramenti e disinteresse da parte della politica, hanno capito che tutto sarebbe finito. Avvistata la cometa, si riuniscono tutti per un’ultima grande cena “di famiglia”, in cui decidono di spegnere la TV e di passare semplicemente del tempo insieme. Tutto questo mentre l’operazione messa a punto dai ricchi e dai politici per salvare la terra e guadagnarci su sta andando a rotoli, e pian piano questi ultimi stanno lasciando la base per rifugiarsi in un’astronave e prendere posto in una serie serie di capsule criogeniche che li riporteranno (in vita) su un pianeta abitabile quando sarà nuovamente possibile: circa 22740 anni dopo. Lo schianto avviene, e la terra vede la sua fine. Tuttavia, poco prima, mentre i protagonisti continuano a conversare come se nulla fosse quando l’impatto è ormai imminente, il personaggio di Di Caprio dice una semplice frase, ma che fa comprendere molto: “Il fatto è che avevamo davvero tutto, non è così?“.
[grazie alla segnalazione di un lettore aggiungo una nota: Di Caprio nel film usa il presente “abbiamo”, l’imperfetto sembra sia nello script originale del film ma l’attore ha cambiato la battuta modificando così il senso del monito e facendone un’avviso a noi che ancora possiamo decidere…]
Secondo Jennifer Lawrence questo momento è uno “schiaffo in faccia” allo spettatore, e lo mette decisamente di fronte alla cruda realtà. Si tratta sicuramente di un discorso molto vicino a DiCaprio, molto interessato alle tematiche ambientaliste. Secondo lui, infatti, da un punto di vista metaforico il film parla proprio di questo: del mancato intervento delle istituzioni di fronte al cambiamento climatico, qualcosa che sta accadendo e che possiamo vedere con i nostri occhi, ma per cui non possiamo fare molto in quanto singoli cittadini se non c’è un impegno a livello nazionale e mondiale. Dunque al centro c’è proprio questo senso di impotenza. Tuttavia sembrerebbe anche che ci sia qualche riferimento anche alla pandemia in corso, con tutte le teorie, gli schieramenti, l’ignoranza dilagante, chi sceglie di credere e chi sceglie di non credere, le fake news e così via.
Insomma, un vero riassunto del nostro oggi.
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