Prigozhin, o la scelta tra Putin e l’ignoto
di TERMOMETRO GEOPOLITICO (Fulvio Scaglione)
Bisogna sempre stare molto attenti a ciò che si desidera, perché a volte i desideri si avverano. Così ieri, per qualche ora, l’Occidente ha provato il brivido di ciò che da anni evoca e auspica: un tentativo di eliminare Vladimir Putin o, almeno, di condizionare e riorientare il suo potere. Così anche Evgenyj Prigozhin, per lungo tempo descritto come un satana mercenario e sanguinoso al servizio del Cremlino (perché ora c’è il Prigozhin leader di soldati ma prima c’era il Prigozhin leader degli hacker), ha goduto di un quarto d’ora di celebrità e di stima dalle nostre parti. Il suo abbozzo di marcia su Mosca ha brevemente destato un certo tifo e qualcuno ha pure cercato di vendere il dietrofront finale come un atto di saggezza quando, palesemente, si è trattato di una resa: in nessun modo l’avrebbero lasciato arrivare alla capitale, e i suoi mezzi allineati in autostrada sarebbero stati un facile bersaglio per i caccia.
A nulla è servito, ovviamente, l’avviso che molti avevano dato già in passato, anche prima che Prigozhin cominciasse ad attaccare il ministro della Difesa Shoigu, il capo di stato maggiore Gerasimov e i loro generali; quando era palese che il Cremlino, che ha usato il Gruppo Wagner in tante delicate (eufemismo) missioni estere (dalla Libia all’Africa profonda), evitava lo scontro dando qualche soddisfazione a Prigozhin e rimuovendo i generali più invisi ai Wagner; quando anche il leader ceceno Ramzan Kadyrov sparava con Prigozhin sui vertici della Difesa, salvo defilarsi e rasentare nei ranghi al momento buono. Tanto che ieri, secondo i media russi, 3 mila soldati ceceni sono stati velocemente trasferiti a Mosca nel caso si dovesse difendere la città. E l’avviso era: attenti, un golpe a Mosca arriverebbe da “destra” (per usare i nostri punti cardinali politici), non certo da “sinistra”. Niente. Molti sono passati dalla stima per Navalny al tifo per Prigozhin senza neppure accorgersi dello slittamento. E senza ricordare che in Russia i golpe armati (vedi 1991 contro Gorbaciov, vedi 1993 contro Eltsin) non hanno mai avuta molta fortuna.
Ma si diceva dei desideri. Ieri, di colpo, passato il primo entusiasmo, si è cominciato a ragionare. A ipotizzare che Prigozhin ce la facesse, a immaginare una Russia sbandata e nel caos (nessuno credeva davvero che il capo del Gruppo Wagner avesse la statura per certi compiti), a intravvedere una potenza piena di bomba atomiche senza una guida certa e magari disgregata. E il tifo si è spento. È finita come doveva finire. Prigozhin ha preso il suo Suv ed è scomparso, diretto forse verso la Bielorussia. I suoi soldati finiranno per arruolarsi nelle forze regolari russe, un po’ perché combattere è il loro mestiere, un po’ per via delle nuove leggi volute da Shoigu e approvate da Putin, che impongono alla milizie private di firmare un accordo con le Forze Armate regolari (cosa che, per tornare a Kadyrov), il corpo ceceno Akhmat ha subito fatto), leggi che sono probabilmente una delle ragioni del colpo di mano tentato da Prigozhin. Resta da vedere che cosa sarà del Gruppo Wagner, sia sul fronte ucraino sia all’estero. Nell’una come nell’altra situazione i mercenari di Prigozhin hanno avuto un ruolo troppo importante per sparire anche loro così, da un giorno all’altro.
Alla fin fine, quindi, il mondo che ancora ragiona ha dovuto chiedersi: oggi, meglio una Russia con Putin o senza Putin? E molto a malincuore si è rassegnato a rispondere che Putin è ancora meglio dell’ignoto. Di certo meglio Putin del “cuoco di Putin”, come Prigozhin è stato soprannominato. Tutto questo, comunque, non deve far sottostimare la fulminea ma profonda crisi vissuta dal sistema di potere putiniano. D’altra parte, l’allarme decretato a Mosca, dove le autorità hanno attivato il “regime speciale antiterrorismo”, dimostra che il Cremlino per primo ha preso molto sul serio gli eventi. È stato palese che alle forze armate regolari era stato dato ordine di non reagire, sia perché non era garantito che lo facessero (i Wagner hanno combattuto a lungo e valorosamente in Ucraina, e le critiche ai generali sono sempre bene accette dalla truppa) sia perché un vero scontro armato avrebbe potuto fare da innesco a una piccola o grande guerra civile che Putin avrebbe faticato a vincere, a gestire e anche a giustificare, visto che i Wagner erano trattati da eroi (si veda la presa di Bakhmut) fino a poche ore prima. Non a caso tre giorni prima che Prigozhin decidesse di occupare Rostov sul Don, le autorità della regione di Donetsk avevano coperto lui e i suoi di medaglie al valore.
Prigozhin, vecchio amico fin dai tempi di San Pietroburgo, e il Gruppo Wagner sono stati creature di Putin. Che a rivoltarsi siano stati proprio loro dimostra che qualcosa è cambiato nella cerchia ristretta del Presidente e che, in ogni caso, la durezza dei tempi attuali e la radicalità delle scelte da compiere (o Shoigu o Prigozhin, o le forze armate regolari o i corpi mercenari), può aprire crepe insidiose nel suo sistema di potere. Il tutto con una guerra in corso, un quadro internazionale sempre più complesso e un’elezione presidenziale che si approssima. Da riconsiderare, inoltre, il ruolo del leader bielorusso Lukashenko. Nel 2020 fu la collaborazione della Russia a salvarlo dalla contestazione interna e dato sprofondo economico. Sembrava un junior partner ma negli ultimi tempi, tra il dispiegamento delle armi nucleari russe in Bielorussia e la mediazione per disinnescare Prigozhin, ha accumulato crediti che il Cremlino, prima o poi, dovrà riconoscergli.
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Fonte: https://letteradamosca.eu/2023/06/25/prigozhin-o-la-scelta-tra-putin-e-lignoto/
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