Dai gilet gialli alla rivolta contro la polizia: perché la Francia brucia
di INSIDE OVER (Francesca Salvatore)
Le chiacchiere da bar prive di contestualizzazione, in questi giorni, plaudono alla Francia e alla sua capacità di mettere a ferro e fuoco le città quando le cose non vanno bene. Una sorta di sempiterna eredità della Rivoluzione francese, pronta a riesplodere a tempo debito. Ma questa tendenza, in realtà, ha costantemente diversi padri e differenti obiettivi, sebbene prenda sempre di mira le medesime piazze francesi. Accanto a questa rabbia latente con differenti eziologie, un enorme fardello che dal 2015 ha gettato una pesante ombra sulla Francia: quella del terrorismo di matrice islamista. Da Charlie Hebdo in poi, l’Europa si è a lungo interrogata sul perché la Francia sia stata presa di mira in maniera così spietata e quanto la vita delle banlieue sia concausa dell’alto numero di attentato negli ultimi otto anni.
I gilet gialli
Ma se questo è lo sfondo di tensione che accomuna tutti i francesi, è dal 2018 che il Paese è sotto i riflettori per l’esplosione della rabbia piccolo-borghese e dei suoi gilet gialli nell’autunno del 2018. Nato come movimento di protesta organizzato nell’agorà virtuale, scagliatosi contro il caro vita e l’aumento del costo del carburante, ha finito per cavalcare il risentimento delle aree rurali e suburbane.
La fase più aspra delle proteste, quella durata fino alla primavera del 2019, riportò nelle piazze francesi anche la violenza, con tanto di scontri fra i manifestanti e la polizia, blocchi stradali e atti vandalici. Il movimento finì per cumulare la rabbia di un gruppo sempre più eterogeneo di individui, all’insegna dei meccanismi tipici del populismo contemporaneo: non solo più gli indipendenti costretti a vivere e lavorare sulle proprie auto, ma anche dipendenti precari, pensionati, piccoli imprenditori delusi dalle tante promesse sociali del macronismo. Proprio quest’ultimo è, infatti, un dettaglio che accomuna l’escalation di violenza nel Paese: molto spesso, infatti, le piazze francesi tornando a popolarsi, per una ragione o per l’altra, ma sempre per via di un fallimento di Emmanuel Macron–il tecnocrate, la giovane promessa europea che ha tradito la petit France dei sobborghi.
La pandemia da Covid-19
Su queste tensioni è giunta poi la pandemia, soffiando sulle diseguaglianze e sul malcontento strisciante dei mesi precedenti. Dapprima, fu la rivolta del sobborgo parigino di Vielleneuve-la-Garenne, nell’aprile 2020, a divampare tra le famiglie di immigrati, costrette a interrompere le attività lavorative e a dover convivere in lockdown all’interno di edifici malandati e iper-affollati nei quartieri popolari. Fu poi la volta di Haut-de-Seine, e poi Tolosa, Lione e Strasburgo.
Se nel 2020 erano state le restrizioni sanitarie a far esplodere alcuni angoli di Francia, un anno dopo fu il famigerato green pass, annunciato dal presidente Macron nel luglio 2021 come misura per ritornare alla socialità ma, soprattutto, a lavoro: il 31 luglio 200mila persone in Place de la Bastille a Parigi manifestavano contro Macron-il dittatore. Era l’inizio di un effetto domino in tutto il Paese, che sarebbe andato scemando solo due mesi dopo, a settembre. Ad accomunare le proteste, non solo la presunta minaccia “esistenziale” alle libertà personali alla stregua del segregazionismo, ma anche la rabbia degli strati culturali medio bassi e delle banlieue, ove le imposizioni sanitarie sono andate a mescolarsi alla disinformazione, all’oscurantismo religioso, all’idea della frode globale, al sospetto che Parigi stesse utilizzando il Covid-19 per fare piazza pulita dei dimenticati.
La riforma delle pensioni
Non è stata, invece, la pandemia a riportare in piazza, nel marzo scorso, i francesi. Bensì una riforma delle pensioni, anche questa vergata da Macron. Sciopero generale, cortei, rivendicazioni pacifiche frammiste al vandalismo dei black bloc. Un’onda lunga che ha portato in piazza i più giovani per i loro padri: fiamme in quel di Parigi, il portone del municipio di Bordeaux dato alle fiamme, l’assalto al tribunale amministrativo di Nantes.
Scene molto simili a quelle di queste ore, sebbene legate ad una popolazione molto più variegata, sia anagraficamente che da un punto di vista della classe sociale. Capobastone della rivolta, un leader che non le manda di certo a dire: Olivier Mateu, profeta del “sindacalismo da combattimento”, l’uomo che lo scorso autunno, in occasione delle proteste contro il caro-vita minacciava così l’ordine costituito: “siamo andati a incontrare il prefetto. E gli abbiamo detto: ‘Alla prima precettazione, scatta la guerra. Se toccate un compagno in una raffineria, diamo fuoco al dipartimento. Ma non nel senso che ci innervosiamo. Incendiamo veramente tutto, con le fiamme vere”. C’era da credergli.
La Francia di queste ore
Qualche mese dopo, Parigi è di nuovo in fiamme. Non è la benzina né le pensioni, tantomeno il Covid, a sconquassare le piazze. Ma una generazione rimasta indietro, età media 17 anni, che non si è mai sentita francese, al di là delle condizioni di vita in cui vive. Perché, come ha ricordato, Annie Fourcaut, studiosa delle banlieue alla Sorbonne, le proteste di oggi sono molto differenti da quelle del 2005, che ebbero come epicentro i quartieri poveri. L’incendio di questi giorni, invece, è assolutamente trasversale. Era prevedibile, secondo la studiosa, il circolo vizioso fatto di cronaca-rivolte-dispiegamento di polizia: si ripete fin dal 2005 e non ha mai trovato una soluzione a questo magma di risentimento.
La studiosa tuttavia, scagiona parzialmente le politiche pubbliche che, a suo dire, “non possono far tutto”. Nanterre, dove è stato ucciso dalla polizia il giovane Nahel è un’area in forte rinnovamento urbano ma che, tuttavia, è stata gravemente colpita dalla de-industrializzazione che ha lasciato a casa intere famiglie, radendo al suolo le prospettive dei giovani. Se quel rinnovamento urbano, tuttavia, è stato pensato da chi di società e migrazioni si intende o da un pettinato progettista nel suo studio patinato, tuttavia, non è dato sapere. Ma probabilmente il problema è anche lì. Nella pretesa di francesizzazione, un cappello infilato a forza e che segna definitivamente il de profundis del modello assimilazionista francese.
Il fallimento dell’assimilazionismo
La crociata macronista per la laicità ha avuto senso come corollario dei ripetuti attentati che hanno colpito la Francia negli ultimi anni, ma ha finito poi per trasformarsi in ossessione per qualsiasi riferimento culturale estraneo al corpo della République. Così come il pugno duro nelle banlieue a spizzichi e bocconi non ha di certo risanato questi vasi di pandora del risentimento antifrancese. Tantomeno i suoi scivoloni sul periodo coloniale, in patria come all’estero, hanno contribuito alla pacificazione interna. Perché bandire il velo integrale ha un suo senso nel solco del rispetto della dignità umana e della pubblica sicurezza, ma disquisire sull’eventuale bando di copricapo e di taluni abbigliamenti (vedasi il qamis), a lavoro come a scuola, è sintomo di cultura del sospetto: quella che cerca di risolvere il problema dell’eversione dei ghetti con la “bianchizzazione” dei “francesi col trattino” come il giovane Nahel.
Lo stesso errore che in America, a inizio Novecento, rappresentò il mito del melting pot, un invito all’ “americanizzazione” e all’uniformazione delle culture di immigrazione a quella dominante. Furono i teorici del pluralismo culturale a chiedere a gran voce che quel concetto andasse messo da parte a favore di un’articolazione capace di riconoscere le diversità (vedasi il caso del Regno Unito). Proprio come cento anni fa in America, la pretesa di franco-conformità torna in Francia in un momento di grande crisi e pericolo: l’instabilità economica, i fenomeni migratori, il terrorismo, l’incubo di una pandemia (proprio come nel 1918) hanno riacceso quei fantasmi che rimettono in discussione la definizione stessa d’identità nazionale. Se a questo si aggiunge il background di una nazione che non è riuscita a fare i conti con il proprio passato coloniale e all’interno della quale è un tabù perfino parlare di razzismo, le barricate sono presto spiegate.
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