Rinvio sulla Cina e niente accordo sull’Africa: l’incontro Meloni-Biden è un buco nell’acqua
di STRISCIA ROSSA (Paolo Soldini)
Una visita di stato che non passerà alla storia. L’incontro di Giorgia Meloni con Joe Biden è scivolato un po’ sull’ovvio: il totale e totalmente scontato allineamento del governo di Roma sulla linea americana in merito alla guerra in Ucraina, e un po’ sul non detto: l’attitudine italiana sui rapporti economici con la Cina e le fumosissime iniziative nei confronti dell’Africa che Meloni ha intitolato “piano (o piani) Mattei” e più recentemente, dopo il modesto risultato della conferenza internazionale su sviluppo (?) e migrazioni, ribattezzato come “processo di Roma”.
Lo sgarbo ai giornalisti
La cronaca dell’evento, perciò, è piuttosto povera, tanto da aver messo al centro dell’attenzione dei media, a un certo punto, un dettaglio: la decisione della presidente del Consiglio italiana di tenere una sua conferenza stampa in proprio in ambasciata, evitando il consueto scenario dell’incontro congiunto col presidente davanti ai giornalisti. La cosa avrebbe potuto rappresentare anche uno sgarbo nei confronti dell’anfitrione, ma niente paura: nessun incidente diplomatico col capo della Casa Bianca. Lo sgarbo c’è stato piuttosto ai danni dei giornalisti americani che Meloni, secondo un suo (mal)costume consolidato, ha preferito evitare, probabilmente per non essere infastidita da domande imbarazzanti sull’attitudine del governo italiano e della sua parte politica nei confronti delle tematiche LGBTQI+, questioni molto sentite di questi tempi nell’opinione pubblica d’oltreatlantico.
Scontata l’identità di vedute sull’Ucraina, appena screziata dal distinguo italiano sulla fornitura americana di bombe a grappolo alle forze di Kiev sulla quale i due hanno disinvoltamente soprasseduto, i temi sui quali c’era qualche attesa erano due.
L’imbarazzo di Meloni sulla Cina
Il primo: la richiesta americana che l’Italia disdica la cosiddetta “via della seta”, ovvero il sistema di accordi sottoscritti dal primo governo Conte (ministro degli Esteri Di Maio e vicepremier Salvini) con Pechino per la creazione e lo sviluppo di infrastrutture cofinanziate dalla Cina per incrementare il livello degli scambi commerciali. Per quella che con il senno di poi può essere considerata una leggerezza del governo di allora, l’accordo, se non venisse disdetto formalmente, si rinnoverebbe automaticamente all’inizio dell’anno prossimo ed è ampiamente noto che Washington preme perché l’Italia si sottragga a quello che considera né più né meno che un patto col diavolo. Meloni si è trovata nella difficile situazione di dover da un lato dar ragione all’interlocutore americano sulla inopportunità di stringere legami con quello che dall’altra parte dell’Atlantico viene considerato il nemico strategico numero uno, dall’altro evitare che le prevedibilissime reazioni cinesi a un gesto di rottura formale di un accordo sottoscritto portino a considerevoli danni economici e facciano retrocedere drammaticamente l’Italia nella classifica europea degli scambi con la Cina.
L’imbarazzo era evidente e l’italiana se l’è cavata con una formula un po’ vaga: non ha annunciato la disdetta dell’accordo (ci sono ancora cinque mesi per trovare una via d’uscita), ma ha assicurato che anche su questa questione l’amministrazione americana ha “piena comprensione” per la politica italiana di non rottura, e anzi di incremento degli accordi, con i cinesi. Ferma restando l’adesione a una comune posizione sulla necessità che il commercio internazionale si basi sulla correttezza e sulla tutela degli interessi strategici occidentali. È su queste basi – ha annunciato Meloni – che la diplomazia italiana sta già lavorando a una sua prossima visita a Pechino.
Piano Mattei: manca l’assenso di Biden
Ancora più vaghi gli esiti del colloquio su quello che la presidente del Consiglio italiana considerava un tema importante sul quale strappare qualche risultato: l’iniziativa (se così vogliamo chiamarla) italiana nei confronti dell’Africa. Nella sua conferenza stampa solo per italiani Meloni ha sostenuto di aver trovato non solo comprensione ma anche appoggio da Biden sull’idea di programmare investimenti italiani ed europei nei paesi africani, a cominciare da quelli relativi alle infrastrutture energetiche.
In realtà è tutto da vedere quale sia in realtà l’atteggiamento di Washington – almeno dell’amministrazione attuale – verso l’aspetto centrale di quella che viene preannunciata come l’iniziativa italiana. Che è, come tutti hanno capito e la stessa Meloni non manca di ammettere ella stessa, l’obiettivo di premiare le classi dirigenti dei paesi africani che si impegnano a bloccare la partenza di profughi verso l’Europa e soprattutto l’Italia. Gli americani – almeno, ripetiamo, l’amministrazione Biden – hanno un’altra visione sul modo in cui l’occidente deve impostare la questione degli aiuti allo sviluppo dei paesi economicamente più arretrati, soprattutto africani: il rispetto dei diritti umani e delle forme della democrazia così come la intendiamo in Occidente. Va da sé che questi princìpi cozzano inevitabilmente con il cinismo con cui Meloni (e non solo lei in Europa) sorvola allegramente sulla natura dispotica e repressiva dei regimi cui chiede collaborazione per bloccare il flusso dei migranti. Che è, in tutta evidenza, l’unico obiettivo che ha in testa e ossessivamente persegue.
È molto probabile, perciò, che non abbia ottenuto a Washington uno degli obiettivi, forse il più importante, che perseguiva. Nonostante una generica espressione di consenso all’attenzione che l’Italia dedica all’Africa c’è da supporre che l’italiana non sia riuscita ad ottenere un qualche ammorbidimento di Biden neppure sulla questione più delicata, quella della concessione del prestito del FMI alla Tunisia bloccata soprattutto dal peso del no statunitense finché il governo del paese maghrebino non dimostrerà di voler attuare almeno un minimo di riforme in senso democratico e civile. Il fatto che Meloni sia arrivata a Washington mentre i media, anche americani, mostravano le immagini dei profughi respinti dalla polizia tunisina a morire nel deserto non l’hanno certo aiutata. Ed è giusto così.
Come ha detto Kissinger, essere nemici degli USA è pericoloso, MA ESSERE AMICI È FATALE.