Sono ormai trascorsi tre mesi, da quando è iniziata la controffensiva ucraina, che avrebbe dovuto raggiungere Melitopol e spezzare il corridoio terrestre che unisce la Crimea alle nuove regioni russe dell’ex-Ucraina meridionale. Su questa controffensiva, sui suoi (possibili) risultati, si basava la scommessa dell’occidente collettivo di poter ribaltare – almeno in parte – l’andamento della guerra, consentendo così l’avvio di un processo negoziale, se non da posizioni di forza, quanto meno in condizioni un po’ più riequilibrate. Non a caso, su questa chance gli stati maggiori della NATO e dell’Ucraina hanno lavorato per mesi e per l’occasione i vari paesi membri dell’Alleanza hanno fatto un ultimo, significativo sforzo in termini di forniture militari.
Pur tuttavia, appare francamente incredibile che – nelle segrete stanze ove si pianificavano le operazioni – qualcuno ritenesse davvero possibile raggiungere, non dico Melitopol ed il mar d’Azov, ma anche soltanto superare le tre linee fortificate russe.
Nonostante l’invio di centinaia di carri MBT e corazzati vari, nonostante l’addestramento di migliaia di ucraini in occidente, nonostante l’intensificazione del supporto di intelligence della NATO, l’iniziativa nasceva infatti già inficiata da più di un problema.
Innanzitutto, la decisione di contrattaccare – e di farlo in quel settore del fronte ed in quella direzione – nasceva da un’esigenza politica e non da un’opportunità militare. Considerate poi le forze in campo, gli ucraini non soltanto partivano svantaggiati sul piano numerico (sarebbero stati necessari almeno 200.000 uomini), e con personale diversamente [1] e/o scarsamente addestrato, ma soprattutto con una netta inferiorità in due fattori chiave per una operazione offensiva: fuoco di artiglieria e dominio dell’aria.
L’esito, quindi, era in buona misura una vera e propria scommessa. Come è poi via via emerso, tutti davano per scontato un elevato numero di perdite, ma gli alti comandi NATO credevano (speravano?) che la determinazione ucraina potesse almeno in parte sopperire ai deficit militari e consentisse, quindi, di realizzare una più incisiva penetrazione.
D’altra parte, i vertici militari ucraini erano a loro volta consapevoli che fosse necessario pagare un prezzo pesante ma, evidentemente, avevano creduto ai loro colleghi di Washington e Bruxelles e pensavano possibile ottenere comunque risultati significativi. Una volta resisi conto che ciò era impossibile – e che il modello tattico impostato dai generali NATO non poteva attuarsi – hanno cominciato a riconsiderare il rapporto costi-risultati, decidendo sostanzialmente di abbandonare le linee guida concordate con gli alleati e fare di testa propria, cercando di ridurre le perdite a fronte dei risultati effettivamente raggiungibili.
Ciò, a sua volta, ha determinato un incrinarsi dei rapporti e, di conseguenza, un certo raffreddamento anche sul piano politico. È partito, insomma, lo scaricabarile: gli ucraini a lamentare (come da loro abitudine) la scarsità degli aiuti e il ritardo con cui sono arrivati, gli occidentali ad attribuire il fallimento all’incapacità dei comandi di Kiev.
Al di là di un certo gioco delle parti, la dialettica tra i comandi NATO e quelli ucraini risente di una certa incomprensione reciproca. I secondi pensano, non senza una certa fondatezza, che tutto sommato sono loro che stanno combattendo i russi da 18 mesi. E questo dà loro l’autorevolezza dell’esperienza. I primi sono profondamente intrisi del senso di superiorità occidentale e, di conseguenza, di quella delle proprie dottrine militari. Oltretutto, gli USA guardano all’Europa – e a maggior ragione all’Ucraina – come a una colonia. In un certo senso, adottano l’approccio mentale classico del colonialismo europeo, come descritto da Edward Said [2], ovvero si convincono che gli altri siano realmente come essi li pensano. E, poiché la loro idea degli ucraini è che siano capaci, disciplinati e riconoscenti, si aspettano che si adeguino ai propri desiderata senza troppo discutere.
Ragion per cui, alti funzionari dell’Alleanza hanno incontrato il Comandante dell’esercito ucraino Zaluzhny un paio di settimane fa, per “reimpostare la strategia militare dell’Ucraina”.
In fondo, chi paga comanda.
Il punto, naturalmente, è che la NATO non sembra comprendere del tutto i propri limiti, dottrinali e strutturali, e rifiuta di accettare l’idea che la Russia (considerata poco più che una potenza regionale) possa essere in grado di batterli sul piano militare [3]. Mentre, infatti, tutte le ipotesi pubbliche su una possibile escalation del conflitto danno per scontato che sarebbe la Russia a ricorrere alle armi nucleari, la realtà è che è assai più probabile – qualora si arrivasse davvero ad un confronto diretto NATO-Russia – che sarebbe proprio la NATO a dovervi ricorrere. E questo per il semplice motivo che “dalle notizie emerse in questi ultimi 18 mesi, nessun esercito europeo avrebbe a disposizione il numero di truppe, armi pesanti e soprattutto munizioni per tenere 800 chilometri di fronte contro i russi neppure qualche settimana” [4]. Questa sottovalutazione del nemico, unita alla sopravvalutazione di sé stessi [5], potrebbe essere esiziale per la NATO – ma anche, appunto, ed in senso letterale, per l’intera Europa.
In ogni caso, dopo aver sacrificato decine di migliaia di uomini e centinaia di mezzi, il comando ucraino ha poi deciso di cambiare tattica, risparmiando soprattutto mezzi corazzati. Ben consapevoli che c’è ben poco da sperare per il futuro quanto a nuove forniture occidentali, hanno quindi deciso di operare sul terreno in modo diverso dagli schemi NATO [6]. In particolare, hanno lanciato in battaglia – nel settore oggetto della ormai lunga controffensiva – anche le riserve, il cui ruolo avrebbe dovuto essere quello di penetrare nelle linee russe dopo lo sfondamento. A questo punto, infatti, non c’è alcuna speranza di poter effettuare una penetrazione in profondità, superando la linea Surovikin, quindi tanto vale impegnare al massimo le risorse per cercare quantomeno di arrivare alla prima delle linee fortificate che la costituiscono [7].
In particolare, le forze ucraine si sono concentrate sul villaggio di Rabotino, la cui parte meridionale si trova a cavallo della prima linea difensiva.
Rabotino è un piccolo centro abitato (contava circa 500 abitanti), che nel corso dei sanguinosi scontri è stato praticamente raso al suolo. Su questa spianata di macerie russi e ucraini si contendono sanguinosamente ogni metro; al momento, sia pure a prezzo di grandi perdite, le forze di Kiev sono giunte quasi ai margini sud del villaggio, posizione sulla quale sono però inchiodati da giorni dal fuoco dell’artiglieria russa [8]. La situazione, quindi, vede una leggera penetrazione degli ucraini, che sono riusciti a raggiungere la prima linea trincerata russa, creando di fatto un saliente, incuneato nella linea del fronte. Si tratta, ovviamente, di un sia pur piccolo successo, che consente agli alti comandi di Kiev di rivendicare la bontà delle proprie scelte tattiche, più in generale alla propaganda NATO, di alimentare ancora il mito della possibile vittoria. Il problema, ovviamente, è che si tratta di una penetrazione superficiale, relativa solo alla prima delle linee difensive, ed assai circoscritta in ampiezza. Considerato che Kiev non ha praticamente più riserve da mettere in campo in quel settore, rischia di essere un successo di breve durata – e di alto costo.
All’inizio del quarto mese, le forze armate ucraine hanno recuperato circa 100 Km quadrati in totale, a fronte dei 50.000 sotto controllo russo. Nel saliente di Rabotino, dove appunto si è realizzata la maggiore penetrazione, la profondità del cuneo ucraino è di 6/7 Km e la base del cuneo stesso raggiunge circa una eguale ampiezza. In pratica, sono avanzati più o meno di 70 metri al giorno, ad un costo umano di 7 KIA al metro.
Ma non solo questo risultato è straordinariamente limitato, soprattutto se paragonato al tempo impiegato ed alle perdite subite, ma con buona probabilità non porterà niente di buono. Le forze ucraine, infatti, per conseguirlo hanno impiegato anche le riserve e non hanno più brigate disponibili né per spingersi più oltre, né per cercare di allargare il cuneo. Viceversa, i russi hanno forti riserve dietro le linee fortificate, e non le hanno ancora impegnate. Nel momento in cui la spinta ucraina si esaurirà, il saliente creato si troverà a dover reggere l’urto delle forze russe, che non solo sono avvantaggiate dalla natura orografica del terreno (le posizioni russe sono su alture, quelle ucraine in pianura), ma possono colpire il nemico a breve distanza da tre lati.
Al momento, lo sforzo maggiore delle forze ucraine è in direzione Verbovoye, leggermente ad est di Rabotino. Qui viene impiegata l’82^ brigata, che era il reparto più importante delle riserve, nel tentativo di sfondare in questa direzione, per raggiungere anche qui la linea fortificata e cercare eventualmente di aggirare le forze russe che fronteggiano l’avanzata su Rabotino. Complessivamente, Kiev schiera in questo settore circa 35.000-40.000 uomini. Le truppe ucraine sono composte da un gruppo di sette brigate meccanizzate (14^, 15^, 47^, 65^, 116^, 117^, 118^), due brigate d’assalto aereo (46^ e 82^ ODShBr), oltre le forze della 3^ brigata operativa della NSU, molti mercenari stranieri e battaglioni ausiliari, comprese forze speciali. Attualmente, più di 20 grandi formazioni ucraine sono concentrate nelle pianure del settore Rabotino-Verbovoye, il che le espone al fuoco dell’artiglieria e dell’aviazione russe, che possono operare nel modo più efficiente possibile. Mancano ancora alcuni km alla prima linea con fossati, denti di drago e nuovi campi minati.
Secondo quanto riferito da canali filo-ucraini, il Quartier Generale di Kiev ha dichiarato l’impossibilità di prendere Tokmak, che era la prima città obiettivo della controffensiva che, nei piani ukro-NATO, doveva essere presa in 72/96 ore. Attualmente l’obiettivo è stato ridimensionato ed è quello di espandere la testa di ponte intorno a Rabotino prima della fine della stagione. Il villaggio è al momento del tutto in mano ucraina, ma sotto il costante fuoco russo, mentre l’AFU è riuscita ad espandere la testa di ponte tra Novoprokopovka e Verbovoye.
Le perdite rimangono comunque assai elevate. Solo nell’ultima settimana quasi 1000 militari ucraini, 24 veicoli corazzati, 28 veicoli e 45 pezzi di artiglieria da campo sono andati perduti. Sebbene gli ucraini stiano cercando di economizzare sui mezzi corazzati, preferendo mandare avanti la fanteria, le perdite di mezzi restano comunque alte e di sempre più difficile sostituzione. In questo quadro, quasi inevitabilmente si accentua l’utilizzo della carne da cannone.
Questo è naturalmente il materiale di consumo di più facile sostituzione, anche se diventa sempre più complicato sia mobilitare che addestrare. I rastrellamenti strada per strada, ampiamente documentati da video di fonte ucraina, non sono più sufficienti. Quindi, si allargano le maglie: una serie di patologie, anche mentali, che prima costituivano motivo sufficiente per l’esonero, adesso non lo sono più; ai maschi dai 16 anni in su è fatto divieto di espatrio; le donne che studiano o sono laureate in medicina e farmacia saranno mobilitate per la sanità militare; gli uomini in età di mobilitazione, che attualmente si trovano rifugiati in altri paesi europei, saranno estradati verso Kiev (solo la Polonia, si appresta ad inviarne più di 160.000).
In tutto questo, però, permane una forte discriminazione etnica e di classe. Mentre le mobilitazioni si concentrano nelle aree russofone ancora sotto controllo ucraino, o nelle aree abitate dalle minoranze ungherese e rumena, a Kiev e Lviv (ed in generale nelle regioni più occidentali del paese) centinaia di giovani continuano a divertirsi in discoteca. Quelle, infatti, sono le aree dove risiede la borghesia legata al regime, che si guarda bene dal mandare al fronte i suoi figli.
Al di là del fatto che questa controffensiva è stata esageratamente gonfiata di aspettative da ben prima che iniziasse, cosa che si è poi ritorta contro come un boomerang, è fin troppo evidente lo scarto enorme tra le ambizioni iniziali ed i risultati finali. Il fatto è che l’intera conduzione della guerra, da parte ukro-NATO, sembra essere improntata ad una linea strategica molto più mediatica – volta ad essere spendibile sui media occidentali – che non militare – attenta a conseguire risultati sul campo. Che questa, almeno da un certo punto in poi, fosse divenuta l’esigenza primaria della NATO, è abbastanza comprensibile; che a questo si sia piegato anche il comando ucraino, che per altri versi è stato sicuramente migliore di quello occidentale, è più difficile da comprendere.
Mentre ogni azione bellica russa mira chiaramente all’obiettivo – distruggere il potenziale militare ucraino, intaccare pesantemente quello NATO, portare il nemico alla capitolazione – al contrario le azioni ucraine hanno come obiettivo principale i TG occidentali.
Non solo la controffensiva è stata lanciata nel settore meglio difeso dai russi, nonostante i rapporti di forza sfavorevoli, ma l’intera gamma delle operazioni ucraine è finalizzata ai media.
Laddove può (Donetsk) l’artiglieria colpisce più i civili nelle città e nei villaggi, piuttosto che le retrovie militari; le azioni contro la Crimea sono esclusivamente simboliche, o comunque di scarso impatto militare; gli attacchi in territorio russo – siano essi compiuti da reparti DRG, da sabotatori o con l’uso di droni – sono chiaramente punture di spillo, il cui impatto è tutt’al più psicologico.
Ovviamente è vero che per Kiev è molto più facile colpire in Russia (un territorio comunque sterminato, e non certo militarizzato) piuttosto che in Ucraina, dove le difese aeree russe sono assolutamente insormontabili; ma, dal punto di vista strategico, la cosa più sensata che avrebbero dovuto fare gli ucraini, almeno a partire dalla scorsa estate, era arroccarsi in difesa. Creare ovunque linee fortificate in profondità, come ha fatto Surovikin (l’unica veramente efficiente è quella Sloviansk-Kramatorsk, costruita durante gli anni della guerra civile nel Donbass). Costringere i russi ad attaccare, pagando un prezzo assai più elevato.
Ma Zelensky, così come i suoi uomini nei comandi militari, hanno preferito assecondare le esigenze politiche dei propri sponsor occidentali. Non che l’Ucraina abbia mai avuto speranze, nel confronto con la Russia, ma certamente avrebbe potuto giocarsi molto meglio le sue carte.
Ma c’è una lezione che in tanti si ostinano a non imparare: accodarsi all’impero americano significa votarsi, prima o poi, a fare l’agnello sacrificale.
1 – L’esercito ucraino schiera infatti sia unità addestrate nei paesi NATO, ed in base alle dottrine operative atlantiche, sia unità di fresco reclutamento e sommariamente addestrate in patria (in base agli standard ucraini, che sono un ibrido tra quelli ex-sovietici e quelli NATO), sia unità di mercenari, che vengono tutti più o meno da una formazione di tipo occidentale, ma comunque disomogenea.
2 – Edward Wadie Sa’id, traslitterato anche Said, è stato uno scrittore statunitense, di padre americano (di origini palestinesi) e di madre palestinese. In proposito, cfr. “Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente”, Gamberetti Editrice
3 – Questa idea inossidabile della superiorità occidentale permane fortemente anche in ambito militare, nonostante gli USA e la NATO abbiano accumulato clamorose sconfitte – da ultimo, in Afghanistan. In un recente articolo apparso sul sito del Centre for New American Security a firma di Robert O. Work (Distinguished Senior Fellow per la Difesa e la Sicurezza Nazionale presso il Center for a New American Security), in cui vengono esaminate le esigenze e le prospettive di sviluppo delle forze armate statunitensi, viene reiteratamente ribadito il concetto che il nemico da fronteggiare sarà “quasi pari”. Cfr. “A Joint Warfighting Concept for Systems Warfare”, Robert O. Work, cnas.org
4 – Cfr. “Gli ucraini non sfondano: in Occidente inizia lo scaricabarile?”, Gianandrea Gaiani, Analisi Difesa
5 – “Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia”, Sun Tzu, “L’arte della guerra”, Sugarco
6 – Secondo quanto riportato dal Kyiv Independent, il personale militare delle Forze armate ucraine lamenta il fatto che “gli istruttori della NATO non comprendano affatto le specificità delle operazioni militari nel Paese e le preparano in modo inefficiente”.
7 – La linea Surovikin è articolata a sua volta su tre linee difensive; una prima, basata su trinceramenti, si trova sul limitare russo della grey zone (ovvero quella terra di nessuno che si trova tra le opposte posizioni russe ed ucraine), una seconda (fortificata e protetta, oltre che da campi minati come la precedente, anche da vasti schieramenti di denti di drago e fossati anticarro), ed infine una terza più arretrata (anch’essa fortificata e protetta come la seconda).
8 – “Anche se l’Ucraina fosse in grado di risolvere tutti questi problemi tattici, farebbe comunque fatica a superare le difese russe senza un maggiore equipaggiamento per lo sminamento, una difesa aerea a corto raggio, una potenza aerea e un vantaggio significativo rispetto alla Russia nelle scorte di munizioni d’artiglieria”. Cfr “Franz-Stefan Gady and Michael Kofman on what Ukraine must do to break through Russian defences”, Franz-Stefan Gady and Michael Kofman, cnas.org
FONTE:https://giubberosse.news/2023/09/05/la-battaglia-di-rabotino/
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