Abbagliato dai miraggi della tecnica regala alla tecnocrazia dello spettacolo ogni vana speranza di comprensione.
La visione del film Oppenheimer, le relative ricerche sulle questioni evocate dal film, l’articolo che ho scritto in merito, insieme a varie conversazioni intessute con amici, mi porta a condividere alcune riflessioni di ordine generale.
La storia del pensiero nella modernità ci dice che l’uomo ha definitivamente ceduto alla “separazione dei saperi”, per entrare sempre più nell’era della “specializzazione”, che però pretende di essere inglobata in una visione “olistica”, in realtà del tutto impropria perché delimitata entro una concezione materialistica della realtà e dell’esistenza.
Questa era di “competentismo” è caratterizzata, con tutta evidenza, dalla parallela e “necessaria” “atrofizzazione” della capacità del pensiero di tracciare un disegno globale della realtà e della “volontà” insita in essa, se non in senso materialistico: un’effettiva incapacità autoindotta di comprendere il quadro generale della realtà stessa e della vita per spiegarne le fondamenta, la vera essenza, l’origine dell’universo e il rapporto di “pensiero” e “logos” con tutto il resto.
La “profondità” del passato, che spesso si elevava a grandi altezze, si è tramutata in senso fisico, letterale: profondità nella materia e nel tessuto del creato.
L’uomo pensante si è così impegnato ad aggiungere veli su veli: dalla psicologia alla sociologia, dall’economia alla finanza, dalle neuroscienze alla fisica quantistica, tutti pronti a descrivere i mega meccanismi sistemici di cui l’uomo sarebbe in qualche modo un ingranaggio, perciò impossibilitato a far qualcosa che non sia una sostanziale accettazione di questi “veli”.
Ovviamente, la prima questione destinata a soccombere in tutto ciò è stata la speranza, condizione sulla quale si potrebbero riannodare i fili dell’essere e del logos, anche se, ovviamente, qualsiasi tentativo in tal senso corre come sempre il rischio di rivelarsi meccanismo di potere.
La speranza in un perdono divino a patto di riuscire in qualche modo a non farsi deviare dalla necessaria devozione era ormai inattuale?
Allora niente speranza!
Per gli “uomini pensanti” l’uomo è così diventato, definitivamente, un ente totalmente materiale, un essere “materializzato” che farebbe parte di una realtà più grande di lui, destinato a scatenare forze e meccanismi che lo soverchiano e sulle quali gli intellettuali possono giocare all’infinito, chi più emotivamente, chi più “razionalmente”, comunque proni a sottoscrivere la resa dell’uomo ad una realtà considerata, definitivamente, “più grande” e inaccessibile per l’uomo stesso.
Tutto ciò nella totale dimenticanza, o non considerazione, che l’uomo è in effetti, “semplicemente” e al contrario di quanto siamo sempre più portati a pensare, l’unico ente che pensa, misura e modifica la realtà stessa.
Perdiamo quindi l’idea che è l’uomo a far tutto, in quanto essere fondamentalmente spirituale calato in modo sempre più “scoordinato” nell’universo materiale, e finiamo per pensare di non essere altro che un “prodotto” della realtà.
Perdiamo anche un’altra idea, descritta storicamente in vari modi, quella che considera come in effetti l’uomo stia da sempre cercando di ritrovare la “coordinazione” con la realtà, come primo passo per il recupero del logos e del destino.
Perdiamo e neghiamo questa ricerca di senso pensando e addirittura facendo di tutto per impedirci intellettualmente e spiritualmente di sapere realmente qualcosa in merito alla dualità fra spirito e materia, negandola, smarrendo così l’idea che potremmo ancora, in un attimo, riprendere in mano le fila della storia e di tutto il resto.
E così perdiamo tutti.
Da questo punto di vista, e al contrario di ciò che si potrebbe pensare guardando alla bomba atomica, in effetti non abbiamo perso il controllo di una potenza che abbiamo scatenato ma, ancor prima, abbiamo perso il controllo della responsabilità, un’attitudine SOLO umana, spirituale e personale, una predilezione che collettivamente diventa politica.
Abbacinati dalla nostra stessa “tecnica”, abbiamo così imparato che è difficile, se non impossibile “centellinarla”, dato che viviamo in un universo materiale e proprio la tecnica sembra il modo più comodo per “giocare” con la realtà.
Quindi, mentre l’uomo si “trastulla” con la tecnica non riesce più a considerare che tale impegno potrebbe significare, in effetti, una ricerca di senso, un tentativo di ritorno, più o meno inconscio, alla condizione primaria come esseri spirituali che hanno creato l’universo, prima di finire nella dimenticanza a furia di incarnarsi nei corpi.
Commenti recenti