La fine del Nagorno-Karabakh e l’instabilità ai confini russi
da PICCOLE NOTE (Davide Malacaria)
Il presidente della Repubblica Samvel Shahramanyan, con un solo decreto, ha chiuso la breve storia della repubblica del Nagorno-Karabakh, che cesserà di esistere il prossimo 1 gennaio. Una storia travagliata, dal momento che nacque dopo il dissolvimento dell’Urss, con un referendum che ne proclamava l’indipendenza, il 21 settembre 1991, ponendo una criticità che non si è più risolta, dal momento che nell’Impero sovietico era parte dell’Azerbaigian, che si era reso indipendente da Mosca il 30 agosto dello stesso anno.
L’Azerbaigian, infatti, non ha mai accettato la separazione, da cui le spinte al reintegro della regione perduta. A complicare, e di molto, le cose, la coesistenza nel Nogorno Karabah di armeni e azeri, con conflittualità antiche sfociate anche in eccidi dell’una e dell’altra parte.
E poi la frizione a più ampio raggio tra Armenia e Azerbaigian, entrambe pronte a difendere le ragioni delle rispettive etnie della piccola repubblica. Attrito sfociato in una guerra aperta tra i due Stati tra il 1992 al 1994, finita con un cessate il fuoco interrotto nell’aprile del 2016 (guerra dei quattro giorni) e ripresa con il sanguinoso conflitto del 2020 (settembre-novembre).
L’ultima guerra era terminata grazie alla mediazione di Putin, con una pace durata fino a una settimana fa, quando l’Azerbaigian ha deciso di usare nuovamente la forza.
L’ultima guerra del Nagorno-Karabakh
Un intervento di breve durata e il Nagorno-Karabakh è capitolato, con le forze di pace russe, da tempo nella regione, che hanno fatto scudo agli armeni e mediato la resa, di fatto incondizionata, evitando il temuto un bagno di sangue (peraltro, il corpo di peacekeeping russo ha subito perdite).
Le immagini delle folle di armeni in fuga dal Nagorno-Karabakh, ormai azero a tutti gli effetti, dirette verso la confinante madrepatria, hanno fatto il giro del mondo, con tanto di accuse di pulizia etnica.
Resta da capire perché si è arrivati a questo passo, dal momento che il presidente armeno, a maggio, aveva dichiarato di essere pronto a riconoscere la sovranità azera sul Nagorno-Karabakh se fosse stata garantita la sicurezza degli armeni che vi abitavano.
Insomma, Baku avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato senza la prova di forza attuale, evidentemente decisa, come nella guerra precedente, per l’esitazione della controparte a compiere passi reali in tale direzione.
La guerra, però, come altre, vede un gioco geopolitico ben più complesso che non l’antagonismo azero-armeno, essendo in gioco il destino di due Paesi caucasici di importanza strategica di livello globale perché confinanti con la Russia.
Lo spiega M. K. Bhadrakumar su Indian Punchline ricordando come negli ultimi mesi il presidente armeno Nikol Pashinyan, salito al potere grazie all’ennesima rivoluzione colorata avvenuta nei Paesi ex sovietici (la rivoluzione di velluto in Armenia), abbia dismesso i panni moderati pregressi per indossare quelli usuali dei leader instaurati attraverso tali rivolgimenti, avviando un progressivo distacco-antagonismo da Mosca.
Un distacco che si è palesato in tutta la sua plasticità nelle esercitazioni militari congiunte Usa- Armenia, avvenute poco prima dell’attacco azero, che sono state il catalizzatore dell’intervento: probabile che le autorità di Baku abbiano avuto paura che con Washington ingaggiata in Armenia, l’agognata reintegrazione del Nagorno-Karabakh sarebbe diventata una chimera.
Nuova instabilità ai confini russi
E, però, Bhadrakumar dettaglia come anche l’Azerbaigian sia da tempo coccolato dall’Occidente: “L’anno scorso l’UE ha firmato un accordo per la fornitura di gas da Baku”, mentre “la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha elogiato l’Azerbaigian come un ‘partner cruciale’ nel mitigare la crisi energetica dell’Europa”.
“L’interesse strategico dell’UE – prosegue Bhadrakumar – è che Armenia e Azerbaigian riducano al minimo l’influenza russa in Transcaucasia. Con così tanti potenti attori geopolitici coinvolti nella regione del Caucaso, la situazione è delicata. La città spagnola di Granada è il luogo da tenere d’occhio perché, tra due settimane, quasi 50 paesi europei sono attesi per un incontro della Comunità politica europea, tra cui Armenia e Azerbaigian”.
L’interpretazione di Bhadrakumar è che l’invasione del Nagorno-Karabakh, in realtà, ha risolto un problema all’Ue e agli Stati Uniti: chiusa la controversia del Nagorno-Karabakh, Armenia e Azerbaigian potrebbero essere invitati a far parte dell’Unione europea. Passo precedente a quello di un’eventuale ingresso nella NATO.
Insomma, un cammino analogo a quello percorso dall’Ucraina, che avviò il suo antagonismo con Mosca con una rivoluzione colorata che rivendicava l’ingresso nella Ue, benzina che alimentò l’incendio di piazza Maidan le cui fiamme stanno ancora divorando il Paese. Tale prospettiva ha reso le proteste occidentali per l’aggressione azera alquanto fioche, ben altro rispetto a quelle levate per l’invasione dell’Ucraina.
“Approfittando delle preoccupazioni della Russia per l’Ucraina, gli Stati Uniti e l’UE si sono inseriti in modo aggressivo nella regione del Mar Nero e nel Caucaso. L’Armenia è un frutto a portata di mano”, scrive Bhadrakumar.
Meno a portata di mano è l’Azerbaigian, dato il legame a filo doppio con la Turchia, variabile incontrollabile di questo puzzle.
Israele, l’Iran e l’Azerbaigian
Ma c’è un altro tassello di questo mosaico, tanto nascosto quanto pesante. Ne scrive l’editoriale di Haaretz: “A partire dal secondo decennio del 21° secolo, Israele ha aiutato l’Azerbaigian a commettere crimini di guerra e a sconfiggere gli armeni nel Nagorno-Karabakh”.
“Israele ha una relazione strategica con gli azeri basata sull’acquisto di armi [israeliane] per miliardi di dollari, ma anche in relazione alla guerra di Israele contro l’Iran [Tel Aviv usa l’Azerbaigian come base contro Teheran] e per l’acquisto di una parte significativa del petrolio di cui necessita dall’Azerbaigian”.
E dettaglia come “Il 6 marzo Haaretz ha riferito che, negli ultimi sette anni, 92 aerei cargo azeri sono atterrati nella base aerea di Ovda , l’unico aeroporto da cui è possibile esportare esplosivi”.
Quindi, dopo aver raccontato altre connessioni tra i due Paesi, riferisce che “il Ministero degli Esteri ha ammesso che il rifiuto di Israele di riconoscere il genocidio armeno – che definisce semplicemente una ‘tragedia’ – deriva in parte dal suo rapporto con il governo azero”.
“Quello che sta accadendo nel Nagorno-Karabakh non è il primo caso di pulizia etnica che porta le impronte digitali di Israele. La persecuzione dei Rohingya in Myanmar e dei musulmani durante la guerra in Bosnia sono solo due esempi tra tanti. Israele dovrebbe imparare dalla storia del popolo ebraico che la commistione tra enormi quantità di armi e la distorsione della storia è una ricetta sicura per provocare disastri”.
Da ultimo, c’è l’ambiguo rapporto tra Azerbaigian e Iran: se è vero che Teheran guarda al vicino con preoccupazione, restano i legami atavici più alti tra i due paesi, dati dal fatto che l’Azerbaigian è l’unica nazione sciita oltre l’Iran.
Puzzle complesso e a rischio.
FONTE: https://www.piccolenote.it/mondo/nagorno-karabakh-e-instabilita-ai-confini-russi
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