L’Olocausto e la Nakba. Una nuova grammatica di trauma e storia
di GLI ASINI (Aurora Caredda)
Ripubblichiamo un articolo uscito su Gli asini nel numero Agosto-Settembre 102-103/2022 in cui è presente un focus dal titolo ISRAELE E PALESTINA: TRA SHOAH E NAKBA
L’Olocausto e la Nakba sono due tragedie storiche incommensurabili. Tuttavia, nel libro The Holocaust and the Nakba: A New Grammar of Trauma and History (C.U.P. 2021), un gruppo di studiosi di varie discipline ce ne rivela intersezioni inedite, aprendo una prospettiva di raffronto e dando voce a quello che viene definito un contro pubblico di memoria (Nadim Khoury, Holocaust/Nakba and the Counter Public of Memory) necessario per facilitare l’analisi critica e la presa di coscienza dei problemi storici delle due società, che pesano, irrisolti, ancora sul presente.
Bashir Bashir (Open University di Israele) e Amos Goldberg (Jewish University), curatori del libro, nel saggio introduttivo sostengono, infatti, che le riflessioni sulla memoria in società divise possono trasformare le rispettive narrative nazionali e sostenere l’idea di una transitional justice, alla base di un processo di riconciliazione politica.
Finora, come si è detto, sia l’Olocausto che la Nakba sono stati visti come fatti storici distanti e separati, Il solo fatto di accostarli era ed è considerato “anatema”. Per dirla con Said (in The End of Peace Process, 1997), “chi vorrebbe equiparare moralmente lo sterminio di massa con lo spossessamento di massa?”. Si tratta di avvenimenti non comparabili per natura e scala, i due studiosi tengono a ribadirlo, e tuttavia essi sono in qualche modo connessi, racchiudono una memoria traumatica dolorosa per i due popoli. Costituiscono “foundational pasts”, secondo la definizione dello storico Alon Confino.
L’Olocausto è una componente centrale dell’identità ebraica, in Israele e nel mondo. Così la Nakba per i Palestinesi, riferibile non soltanto alla pulizia etnica della Palestina che comportò l’espulsione di circa 750.000 persone, la distruzione di centinaia di villaggi e di interi quartieri urbani insieme con il tessuto sociale e politico, economico e culturale, un vero e proprio “memoricidio” e il blocco irreparabile dello sviluppo nella Palestina odierna, ma anche alle pratiche coloniali che continuano tutt’ora con l’occupazione, l’acquisizione illegale delle terre, l’evacuazione dei villaggi beduini, gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, lo sgombero delle case a Gerusalemme e l’assedio di Gaza, una prigione a cielo aperto e una nuova forma di ghetto.
C’è da aggiungere che i palestinesi non hanno nessuna responsabilità per l’Olocausto che avvenne in Europa. Il Sionismo e lo Stato di Israele, al contrario, sono responsabili della devastazione che avvenne nel ’48. L’analisi e comprensione dei fatti storici messi in evidenza dai saggi del libro (diciassette contributi divisi in quattro sezioni) sono introdotti da due concetti chiave: perturbamento empatico (empathic unsettlement), preso in prestito dallo psicoanalista Dominic LaCapra e “binazionalismo egualitario”, un concetto che rimanda, per entrambi i popoli, ai rispettivi diritti all’autodeterminazione nell’intera terra di Israele Palestina.
L’approccio che LaCapra ha elaborato (in Writing History, Writing Trauma, 2000) sottolinea il valore della dimensione affettiva nella comprensione storica, che prende varie forme nel rapporto con l’Altro, riconosciuto e rispettato come altro da sé. Si dovrebbe intendere la comprensione storica come un processo di elaborazione nel senso più ampio, anche del lutto, che comporti la critica e la revisione della storia. Il “perturbamento empatico” costituirebbe una sorta di esperienza virtuale attraverso la quale ci si mette nella posizione dell’altro, senza prenderne il posto e riconoscendo la differenza di quella posizione.
Le due narrazioni in competizione
Il tratto comune ad entrambe le narrazioni storiche è la negazione della catastrofe e della sofferenza dell’altra. Molti israeliani, forse la maggior parte, sostengono che la Nakba non sia mai esistita. Dal canto loro, molti palestinesi ignorano o negano del tutto l’Olocausto, liquidato come un’invenzione della propaganda sionista.
Nella cultura globale contemporanea, secondo lo storico Charles Maier, figurano due grandi narrative dominanti e in competizione: quella dell’Olocausto e quella post coloniale. La narrazione sionista poggia sulla metanarrativa dell’Olocausto, un’aberrazione all’interno di una storia di progresso. Gli ebrei furono le vittime principali dei nazisti e i nazisti l’incarnazione del male più radicale della storia moderna. Lo sterminio di massa degli ebrei fu il risultato dell’estremo antisemitismo, una conseguenza della lunga storia di odio degli ebrei nell’Europa cristiana, la prova della necessità di uno stato ebraico, e la effettiva giustificazione del Sionismo. L’espressione “dall’Olocausto alla rinascita” diventò infatti lo slogan costitutivo della coscienza sionista e lo è ancora oggi.
La narrazione postcoloniale, fatta propria dai palestinesi, asserisce che la catastrofe è già presente nel cuore dello stato democratico liberale e all’interno del moderno pensiero illuminista. L’Occidente in generale è stato coinvolto in violenze di massa, nello sfruttamento terribile, nell’assoggettamento coloniale, nelle politiche di repressione e tortura e nel razzismo. Il sionismo è visto esclusivamente come un movimento di colonialismo di insediamento e lo Stato di Israele come l’ultimo dei regimi coloniali che, a causa delle circostanze storiche, riuscì a evitare il processo di decolonizzazione. La Nakba dunque è un esempio ulteriore dei crimini europei.
L’obiettivo degli studiosi che hanno contribuito a questa raccolta è quello di trascendere la logica binaria e oppositiva di queste narrazioni e di prenderle in considerazione insieme in maniera non dicotomica, all’interno di un contesto sia locale che globale. Quello che essi propongono “è un altro registro di storia e memoria, che onori l’unicità di ciascun evento, le circostanze e le conseguenze così come le differenze”. Una narrazione all’interno di una cornice storica e concettuale comune, che le comprenda, basata su una nuova grammatica in cui l’Olocausto e la Nakba siano visti come traumi e memorie commensurabili e il loro rapporto come storicamente, politicamente e eticamente istruttivo.
Mettere in relazione le due narrazioni diventa, dunque, un compito imprescindibile, nella ricerca di un linguaggio di riconciliazione storica tra i due popoli, “un linguaggio binazionale etico ed egualitario” che smantelli la struttura coloniale di privilegio e dominio.
Il libro si apre con il saggio di Mark Levine, studioso di genocidio e storia ebraica, dedicato ai lasciti tossici degli etnonazionalismi in Europa. Egli inserisce le due narrazioni all’interno del violento corso della storia europea.
Mentre non è in dubbio il ruolo egemonico del nazismo nella programmazione e organizzazione della “soluzione finale”, sono rimaste invece oscurate le agende antiebraiche dei paesi della “nuova Europa” e i programmi politici volti a liberarsi delle minoranze che non rientravano nella prescrizione etnonazionalistica che queste politiche caldeggiavano. In un lungo excursus che va dalle guerre balcaniche del 1912-1913 (che culminarono nel genocidio degli Armeni) al secondo dopoguerra, Levine esamina i fenomeni di genocidio e pulizia etnica, in particolare nelle rimlands.
Levine ricorda che la Convenzione di Losanna del 1923 per la prima volta legittimò lo “scambio di popolazioni” ingigantendo le conseguenze delle deportazioni del periodo precedente. Quello del trasferimento entro “i giusti confini” nazionali stava prendendo una dimensione nuova e terrificante. La Polonia, l’Ucraina, l’Ungheria, gli Ustacha, la Romania di Antonescu, si distinsero nel trasferimento forzato, nella persecuzione e nel genocidio degli ebrei e di altri gruppi etnici tra i quali i rom. Alla fine della Seconda guerra mondiale furono gli alleati che promossero il più grande atto di pulizia etnica della storia moderna: il trasferimento forzoso di circa 12 milioni di tedeschi dall’Europa dell’est, dove vivevano da secoli. Su tale questione, David Ben Gurion si espresse nel 1941: “Nell’attuale guerra l’idea di trasferire una popolazione sta guadagnando favore come un modo pratico e sicuro per risolvere il pericoloso e doloroso problema delle minoranze”.
Eppure, la coesistenza pacifica dei popoli medio orientali nello stesso habitat era la norma prima che l’etnonazionalismo diventasse egemonico. Il programma per uno stato binazionale era stato formulato, negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, dai fondatori ebrei di Brit Shalom e successivamente dall’Ihud.
Amnon Raz-Krakotzkin, nel suo saggio dedicato a Benjamin, l’Olocausto, e la questione palestinese, sostiene che “il rapporto tra l’Olocausto e la Nakba è incontrovertibile ma complesso: lo testimoniano gli sforzi considerevoli investiti nel tentativo di confutarla. L’impatto traumatico dell’Olocausto nella società israeliana è innegabile ed è causa di un’ansia insopprimibile che preclude la distinzione “tra lì e qui, allora e adesso”. Il trauma che si tramanda tra le generazioni condiziona la percezione della realtà, ma è soprattutto la questione dei rifugiati palestinesi la causa maggiore di sgomento e ansia nonostante gli sforzi di cancellarne la memoria.
L’ansietà si manifesta nel tentativo di dissociare i due eventi e nell’obiezione a ogni tipo di raffronto. Si riflette anche sui tentativi di identificare i palestinesi con i perpetratori dell’Olocausto, come fece Benjamin Netanyahu che, nell’ottobre del 2015, arrivò ad asserire che Hitler non aveva pianificato di annientare gli ebrei ma solamente di espellerli e fu convinto ad agire diversamente proprio da Haj Amin al-Husseini, il gran Mufti di Gerusalemme. Tale affermazione, oltre che dagli storici, è confutata in questo libro da Mustafa Kabha che nel suo saggio dedicato al grande intellettuale antifascista Najati Sidqi (1905-78) sottolinea come le voci palestinesi contro l’occupazione nazista in Europa e contro le aspirazioni coloniali nell’oriente arabo siano state oscurate e come questo sia un tratto riconducibile all’ islamofobia oggi prevalente. Quanto a Sidqi, egli sosteneva una soluzione democratica in Palestina, che avrebbe protetto i diritti di ebrei e arabi residenti nel Paese.
Secondo Amnon Raz-Krakotzkin, rimarcare l’unicità dell’Olocausto diventò essenziale sia per l’Occidente cristiano, unico portatore di progresso e democrazia, che per gli ebrei, che reclamavano lo stato di eccezionalità dello Stato di Israele. Il critico più lucido all’approccio eccezionalista dell’Olocausto, secondo Raz-Krakotzkin, sarebbe stato Walter Benjamin che si opponeva alla concezione storica del tempo lineare e del progresso, Benjamin descrive la storia come una sola catastrofe, un cumulo di macerie e distruzione da redimere.
Gil Anidjar, nel suo saggio Muslims (Shoah Nakba), esamina la relazione paradossale che il “muselmanner” ha con la Shoah. Ad Auschwitz, come ha scritto Primo Levi, i “sommersi”, i destinati alla macchina della morte, venivano chiamati muselmanner, musulmani. Il Musulmano ad Auschwitz, per Anijdar, è una “stranezza retorica” che andrebbe inscritta nella più generale concezione di orientalismo, o negli studi congiunti sull’antisemitismo e sull’islamofobia e sule loro vicissitudini storiche condivise.
Secondo Raz Krakotzkin la parola tedesca Muselmanner, usata per designare le vittime della Shoah, rivela che “nel momento dello sterminio l’ebreo è annientato come un musulmano”.
Per Honaida Ghanim, la Nakba dovrebbe essere percepita come una delle ripercussioni dell’Olocausto. Come conseguenza dell’Olocausto gli ebrei lasciarono l’Europa, che era anche quello che gli antisemiti volevano, e ciò ebbe luogo attraverso l’integrazione dei migranti ebrei all’interno di un’impresa coloniale di insediamento condotta dal sionismo in Palestina. Molti dei sopravvissuti, infatti, parteciparono alla Nakba. Essi arrivarono a costituire quasi la metà delle forze combattenti sioniste, mentre tra la seconda guerra mondiale e la metà degli anni Cinquanta più di mezzo milione di ebrei arrivarono in Israele dall’Europa, per la gran parte sopravvissuti all’Olocausto.
Nel 1949, circa 150mila palestinesi rimanevano nei territori sui quali fu dichiarato lo Stato d’Israele. Paura e confusione permasero a lungo dopo che gran parte della popolazione venne espulsa, vaste aree delle metropoli demolite e i villaggi rasi al suolo. I sopravvissuti di ambo le parti scelsero il silenzio, un silenzio che venne definito come “il grande silenzio”. I due silenzi collettivi si intersecano nei primi anni Cinquanta con la differenza che mentre i sopravvissuti all’Olocausto cercarono di ricomporre le loro vite in una nuova patria i sopravvissuti alla Nakba rimasero senza speranza di un futuro abbandonati tra le macerie della loro terra. Questo il destino del protagonista della poesia L’amore e il ghetto di Rashid Hussein (1937/1977), del 1963, che Ghanim esamina, sull’impossibile rapporto tra una giovane ebrea sopravvissuta alla Shoah e un ragazzo palestinese. L’impossibilità della relazione si deve al fatto che nonostante il sentimento che li unisce, la condizione dei due sopravvissuti è comunque inconciliabile, asimmetrica: per il ragazzo non c’è avvenire perché “niente rimane della mia terra se non me stesso”.
Attraverso il poema di Hussein, Ghanim decostruisce questo catastrofico incontro tra la Nakba e l’Olocausto nella Palestina messa a ferro e fuoco, tragicamente sacrificata per redimere le vittime, in una relazione mortale e sanguinosa che rese i palestinesi “vittime delle vittime”.
Le tracce dell’intersezione e doppio trauma dell’Olocausto e della Nakba si possono rinvenire nelle opere degli scrittori, artisti e intellettuali di ambo le parti, tracce che sono state occultate e che ritornano come resti inassimilabili. Yochi Fisher prende in esame le memorie raccolte dallo scrittore palestinese Salman Natour sui rifugiati palestinesi del 1948 e i segni che la Nakba ha lasciato sul corpo e la mente della sua generazione: “Noi siamo diventati testimoni storici non perché abbiamo visto ma perché abbiamo sentito. Siamo nati dopo la guerra e perciò portiamo il suo fardello”. Per tutta la decade successiva al 1948, le connessioni tra la Shoah e la Nakba facevano parte dell’esperienza delle persone e dell’atmosfera del paese anche per via della prossimità temporale e dei luoghi. Le tracce della catastrofe che fu la Nakba sono rintracciabili nell’uso di alcuni termini che all’epoca ne descrivevano lo sconcerto: la parola ghetto, o ghetto arabo, venne usata per designare l’esclusione e l’isolamento degli arabi in zone sigillate militarmente all’indomani del grande esodo. Il termine intreccia la violenza dell’Olocausto con quella della Nakba e dei rifugiati di entrambe le catastrofi.
Tra gli scrittori ebrei che raccontano il trauma della Nakba meritano d’essere ricordati Avot Yeshurun e S. Iizhar. Il primo, in Pasqua nelle caverne, arrivò a dire che “l’Olocausto degli ebrei in Europa e l’Olocausto degli arabi nella terra di Israele sono un Olocausto del popolo ebraico. Si riflettono l’uno nell’altro”; il secondo, con il suo romanzo breve, La rabbia del vento, scritto proprio nel 1948, descrive l’espulsione di donne, bambini e vecchi. Il narratore non può fare a meno di pensare all’esilio che ha segnato la sua gente. Alle ferite traumatiche ritrovate negli scrittori, Yochi Fisher aggiunge le sue proprie, con la vicenda del padre, un sopravvissuto all’Olocausto, costretto ad occupare una casa svuotata a Jaffa dei suoi abitanti palestinesi. Questo è un modo innovativo di procedere, accostando le varie memorie e riflessioni alla propria di testimone della seconda generazione. “È tempo anche per noi – conclude la Fisher – di vedere questo per quanto sia sconvolgente”.
È questo anche il caso di Omer Bartov, che nel suo saggio mette a fuoco la storia della sua generazione, nata all’indomani della guerra, partendo da sé, dalla propria storia familiare e accademica. Egli si chiede se sia possibile costruire un’appartenenza iniziando dall’amore per la propria terra, dall’attaccamento condiviso con la generazione dei giovani arabi nati anch’essi in Israele, e ascoltarsi l’un l’altro. Avendo indagato da studioso sulle forze armate tedesche e sui genocidi (compiuti soprattutto in Galizia, terra d’origine della madre), si domanda come sia possibile per un giovane trasformarsi in assassino. Nei genocidi si assiste alla disumanizzazione dei nemici. Ciò rende il compito più facile e fornisce a chi uccide una giustificazione morale. Essendo stato ufficiale nell’esercito israeliano nei Territori e conoscendo i rischi di imbarbarimento, Bartov si interroga sul rischio che si corre a inculcare ai giovani israeliani la paura di vedere tutte le minacce come esistenziali e tutti gli oppositori come potenziali nazisti, anche gli adolescenti palestinesi armati di fionda. Nella sfera politica quello che è necessario, secondo Bartov, è “un processo di decolonizzazione che significa non soltanto porre fine all’occupazione ma anche liberarsi dalla mentalità dell’occupante depositata profondamente nella psiche degli ebrei israeliani, mentre per i palestinesi implicherebbe liberarsi non solamente dalla oppressione israeliana ma anche dalla mentalità del colonizzato”.
Come ci ricorda Jacqueline Rose nella postfazione, il legame tra l’Olocausto e la Nakba è stato messo sotto silenzio dalla storia perché percepito come “scandaloso”. L’espulsione dei palestinesi non può che essere riconosciuta come la precondizione per la trasformazione di Israele in uno stato nazione, la cui creazione venne a ridosso del genocidio nazista. La stessa parola Nakba era quasi sconosciuta agli israeliani fino al 2011, quando con la Nakba Law quasi tutti gli israeliani furono esposti alla verità storica della tragedia palestinese.
Bashir e Goldberg sostengono che “tradurre il perturbamento empatico in concetti politici produce un pensiero lungo linee bi-nazionali”. Tale processo può essere reso possibile da politiche democratiche anche antagoniste, da compromessi e alleanze, dall’attraversamento di linee etniche e nazionali che aprano la strada a un pensiero creativo sfidando i paradigmi esistenti. È da questa posizione che si potrebbe articolare una nuova grammatica e sintassi di memoria storia e politica in Israele/Palestina. Il perturbamento empatico proposto (come approccio all’indifferenza e alla paura) rompe la rigidità delle strutture politiche e discorsive generate dal trauma che si fondano sul rigetto dell’identità dell’altro e sono perciò incapaci di generare anche una limitata sfera comune. Secondo LaCapra, queste opposizioni binarie sono molto pericolose perché connesse al meccanismo del capro espiatorio. Come sostiene Jacqueline Rose in The Question of Zion, il nazionalismo è una fantasia distruttiva che deve essere controbilanciata da un’altra idea di nazione.
Il binazionalismo, secondo la lettura di Bashir e Goldberg, potrebbe prendere varie forme di governo che possano realizzare e rispettare i diritti individuali e collettivi degli arabi e degli ebrei in Palestina/Israele smantellando la struttura coloniale sottesa. Si tratta dunque di sostenere il diritto all’autodeterminazione senza che ciò si tramuti in una forma di stato etnico esclusivo. Un binazionalismo egualitario esige una coappartenenza basata su un’etica di parità e coabitazione e un progetto di decolonizzazione che rifiuta tanto i privilegi coloniali ebraici così come la richiesta di una esclusiva sovranità sulla Palestina storica.
FONTE: https://gliasinirivista.org/lolocausto-e-la-nakba-una-nuovagrammatica-di-trauma-e-storia/
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