Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo
di LE PAROLE E LE COSE (Stefano Brugnolo)
[Quello che segue è un paragrafo tratto dal volume uscito da poco di Stefano Brugnolo, Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo (Quodlibet). Come dice la quarta di copertina “il libro esamina attraverso alcuni casi emblematici come la letteratura ha rappresentato l’evento rivoluzionario (accaduto, atteso, temuto) dall’epoca della Riforma protestante fino al ’68 e oltre”. La Rivoluzione è intesa nel libro latamente come “possibilità di sollevazione di massa e trasformazione “catastrofica” del mondo, è considerata come una specie di grande metafora con cui l’Occidente moderno si è concepito nei termini di un progetto pericolosamente aperto sul futuro.”. Si comincia con Machiavelli passando attraverso Milton, Būchner, Hugo, Manzoni, Zola, Nievo, Verga, fino ad arrivare a Malaparte, Pasolini, Calvino e tanti altri, anche saggisti (da Galileo a Gramsci). Al centro ci sono soprattutto gli autori italiani perché essi sono ritornati tante volte sulla Rivoluzione come occasione mancata.
Il testo che riportiamo è ricavato dalla quinta parte del volume e riguarda i Piccoli maestri di Luigi Meneghello che vengono presi in esame perché in quel romanzo la Resistenza viene appunto raccontata come una delle tante rivoluzioni mancate che hanno punteggiato la storia italiana].
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I piccoli maestri di Meneghello: l’intellettuale autoironico a scuola del popolo partigiano
Vale la pena esaminare adesso un altro capolavoro della letteratura partigiana: I piccoli maestri (1964) di Luigi Meneghello. E intendo farlo perché in esso ancora più che nel romanzo di Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno) è centrale il problema del rapporto tra avanguardie intellettuali e politiche e popolo, anche se viene affrontato in modo del tutto diverso. Basti prendere un passo come questo, relativo ai giorni che seguirono la caduta del fascismo:
C’era un moto generale di rivolta […]. Ce l’avevano contro la guerra, e implicitamente, confusamente, contro il sistema che prima l’aveva voluta cominciare, e poi l’aveva grottescamente perduta per forfè.
Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l’intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni: c’era un po’ di antifascismo esplicito e tecnico (non molto), un po’ di rabbia verso i tedeschi spaccatutto, un po’ di patriottismo popolare, e una bella dose dell’eterno particulare italiano, gli interessi locali, parrocchiali. […]
[…] e così qualunque iniziativa, anche la più moderata conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d’occhio. Gli istituti non c’erano più, li avremmo potuti rifare noi, di sana pianta; era ora. [191]
Ritroviamo dunque fin dall’apertura del romanzo quelle moltitudini senza capi e direzione di cui già parlava Machiavelli, così come ritroviamo la tentazione del “particulare” diagnosticata da Guicciardini; ma questa volta c’è qualcosa di nuovo, la sensazione che il moto spontaneo delle masse aspiri dal profondo a realizzare finalmente un cambiamento. Quel che prima di tutto Meneghello segnala è una sensazione che coglie intorno a sé e che potremmo descrivere con le parole che Auerbach dedica alla rappresentazione evangelica dei cambiamenti prodotti negli «strati profondi» del popolo dalle prediche di Gesù, un mondo «scosso nelle sue fondamenta, moventesi e rinnovantesi sotto i nostri occhi»[192]. È proprio questa sensazione di un mondo «moventesi e rinnovantesi» sotto i suoi occhi che ci restituisce Meneghello:
Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento collettivo; era l’esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante. Si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale.
Ma guarda un po’, dicevamo con Lelio; vien fuori che c’è per davvero, la volontà popolare [193].
Il punto di vista è ancora una volta quello delle élite giacobine, come ci segnala la meraviglia provata nel constatare che a un concetto libresco quale “volontà popolare” poteva corrispondere qualcosa di «vero». Ma appunto qui si opera un ribaltamento rispetto alla tradizione letteraria italiana: a essere valorizzata è proprio la spontaneità «inebriante» di quel movimento. Non è tanto che Meneghello si richiami a una specifica concezione politica di tipo spontaneista, la sua è una visione anti-ideologica, opposta per partito preso a quella del fascismo e delle grandi dittature novecentesche che puntavano invece a una mobilitazione e manipolazione dall’alto delle masse. E se c’è qualcosa che l’autore rimpiange un po’ irrealisticamente è di non aver contribuito a promuovere un’insurrezione «subito», cioè subito dopo la caduta del fascismo, che sfruttasse quelle energie «esplosive»: «Si doveva proclamare l’insurrezione, subito. Non la resistenza, ma l’insurrezione: il fondo della situazione, la sua carica esplosiva era politica, non convenzionalmente militare. Bisognava impostare subito una guerra politica e popolare, non una resistenza generale e attesistica; agire, non prepararsi»194. Va da sé che nella disordinata spontaneità c’era anche il limite di questo grande (e incipiente) moto rivoluzionario italiano come Meneghello, con spirito disincantato, non smetterà mai di constatare, per esempio quando a un certo punto affermerà: «che casino che è il paese reale!»195. Eppure, anche in questa affermazione c’è una componente di curiosità e ammirazione per l’imprevedibilità della sua gente. Meneghello non mitizza il popolo, ma noi possiamo sentire che c’è sintonia tra lui e il Nievo che nelle Confessioni ci segnalava che, anche se in forme disorganizzate, «Balzava da terra se non armata certo arrogante e presuntuosa una nuova potenza», che è appunto quella del popolo. E in effetti Luigi in quei primi moti seguenti alla caduta del fascismo si rivela essere un originalissimo epigono di Carlino (ma naturalmente anche del Michele di Lando machiavelliano), come dimostra il brano in cui viene delegata a lui, come già al protagonista di Nievo («parli il signor Carlino!»), la responsabilità di parlare e guidare la protesta:
C’erano popolani e borghesi, militari e civili; c’erano studentini giovani, c’erano riformati, commercianti, qualche storpio, gente di chiesa, ladri, maestri; c’erano tutti.
Mi vergognavo un po’ di trovarmi a parlare troppo spesso, come sdottorando, e tutti che mi ascoltavano; parlavo fitto e pulito, come un libro stampato. […] Fatto sta che avvertivo il disagio di sentirmi giudicato idoneo a dirigere perché capace di parlare. Parlare mi era facile: bastava aprire la bocca, e venivano fuori idee, iniziative, programmi, e una volta venuti fuori parevano autorevoli: è un bel vantaggio l’educazione umanistica. Chi sa parlare, comanda. Ma io ce l’avevo con questa educazione umanistica; me ne aveva fatte di sporche. Non volevo comandare; però parlavo. Dicevo: «Non fatevi influenzare da nessuno, e tanto meno da me; fate quello che vi pare giusto»; e tutti dicevano:
«Bravo, ostia: facciamo come dice lui» [196].
C’erano tutti!… è raro trovare nella letteratura italiana la rappresentazione di un moto collettivo di rivolta da cui si deduca un tale senso di partecipazione unanime, capace di coinvolgere i borghesi e il popolo, compresi gli strati più marginali. E però Meneghello ci mette davanti alla solita aporia: l’impreparazione di coloro che improvvisamente si trovano a dover guidare la protesta. C’è già tutta qui la cifra ironica che caratterizza il trattamento della materia partigiana da parte di Meneghello: il protagonista arringa la folla per suggerire che ognuno potrebbe o dovrebbe fare come meglio crede! Il che sta certo dalla parte di una critica delle componenti dottrinarie di un certo antifascismo, ma dall’altra testimonia ancora una volta della sprovvedutezza delle giovani élite che avrebbero dovuto mettersi alla testa del movimento. Durante tutto il romanzo Meneghello parlerà del suo gruppo (che aderiva a Giustizia e Libertà) come di «quattro gatti», e però è difficile decidere se questa definizione testimoni di una consapevolezza autocritica o anche di un orgoglio: l’orgoglio di non pretendere alla funzione di guida, di non arrogarsi il ruolo di dirigere il popolo.
Il romanzo di Meneghello sta sotto questo segno: pur con tutta la sua ammirazione per i comunisti e le loro capacità organizzative e di mobilitazione, lui e i suoi amici rifiutano l’idea di farsi carico di un progetto “organico” di trasformazione della nazione, che pure sente così necessario e urgente, e di cui alla fine depreca il fallimento. Questa intrinseca contraddittorietà dell’esperienza partigiana vissuta dal protagonista è ben resa da questo passo: «C’erano insomma due aspetti contraddittori nel nostro implicito concetto della banda: uno era che volevamo combattere il mondo […] l’altro che volevamo sfuggirlo, ritirarci da esso come in preghiera. Oggi si vede bene che volevamo soprattutto punirci. […] Era come se dovessimo portare noi il peso dell’Italia e dei suoi guai» [197]. Viene qui suggerita un’interpretazione della guerra partigiana come atto collettivo di automortificazione per le proprie colpe di intellettuali borghesi: «Gli ultimi vent’anni in Italia sono […] opera di noi borghesi» [198]. L’impreparazione, l’improvvisazione, il rifiuto di farsi dirigente non sono solo un dato caratteriale e accidentale, corrispondono anche a una visione poetica e politica del mondo, distantissima da quella dell’intellettuale organico teorizzata da Gramsci. In fondo il protagonista di Piccoli maestri è un epigono dell’Amleto shakespeariano, è un intellettuale disorganico, un intellettuale critico, problematico, dubbioso che agisce (o non agisce) nel bel mezzo di un processo rivoluzionario, quando cioè a contare sono o dovrebbero essere le decisioni rapide e le azioni conseguenti. La differenza con l’eroe shakespeariano e le figure che da quello discendevano, come Adelchi, è che Luigi non si astiene dall’azione e tenta avventurosamente, allegramente di partecipare, pur con tutti i suoi dubbi e le sue incertezze, al grande moto sociale e politico in atto. È forse uno dei rari casi, e comunque degli ultimi, in cui uno scrittore italiano ci racconta di un intellettuale coinvolto in una grande azione collettiva (quella che Manzoni chiamava «vortice» e temeva) senza esserne del tutto risucchiato, ma certo accettando di farne parte, scommettendo comunque su di essa. Resta che anche alla fine del libro, a liberazione avvenuta, ritroveremo la stessa ritrosia, lo stesso imbarazzo dell’inizio a parlare “a nome” degli altri, allorché si chiede a lui e a un suo amico di scrivere un fondo giornalistico:
Io domandai: «Cosa volete dire in questo fondo?»
«Arrangiatevi voi» disse l’uomo.
«Io e Marietto qui, siamo diseducati» dissi.
«Cosa siete?»
«Diseducati, politicamente diseducati. Non abbiamo niente da dire a nessuno. Non possiamo educarci per iscritto a spese del pubblico. Questa è roba per una persona matura».
L’uomo invece di arrabbiarsi si rattristò.
«Ma sono cosa da dire in un momento come questo?» mormorò [199].
Non è che in questo modo Meneghello manifesti una sfiducia preconcetta per ogni azione sistematica e programmatica di partito e di governo, ma certo manifesta diffidenza per quello che secondo lui è il difetto principale degli italiani, o meglio delle classi dirigenti italiane: la retorica. La parola retorica nel mondo di Meneghello sta a significare proprio questo: la storica frattura che si è creata nella nazione tra l’esperienza comune, diretta, empirica e insomma “popolare” del mondo, e la sua espressione o rappresentazione linguistica, a livello scolastico, letterario, politico. Si prenda un passo emblematico come questo:
Volevo anche informarmi un po’ sul loro ethos, ma naturalmente c’è lo svantaggio che in dialetto un termine così è sconosciuto. Non si può domandare:
«Ciò, che ethos gavìo vialtri?». Non è che manchi una parola per caso, per una svista dei nostri progenitori che hanno fabbricato il dialetto. Tu puoi voltarlo e girarlo, quel concetto lì, volendolo dire in dialetto, non troverai mai un modo di dirlo che non significhi qualcosa di tutto diverso; anzi mi viene in mente che la deficienza non sta nel dialetto ma proprio nell’ethos, che è una gran bella parola per fare dei discorsi profondi, ma cosa voglia dire di preciso non si sa, e forse la sua funzione è proprio questa, di non dir niente, ma in modo profondo [200].
Non è solo una questione linguistica, è che la lingua che parlano i ceti intellettuali e anche le élite politiche non pare capace di afferrare e rendere l’esperienza morale e pratica che fanno del mondo gli uomini comuni. Si direbbe anche che qui fa capolino un sentimento di vergogna e di invidia nei confronti del popolo in quanto gente che ha un accesso più diretto e onesto alla realtà. Tale sentimento non ha niente a che fare con le relazioni complesse e contorte che gli intellettuali comunisti potevano avere con il proletariato. Il popolo che Meneghello ha in mente è tutt’altra cosa, e comprende più i contadini e gli artigiani che gli operai, ma ricomprende anche i sottoproletari e comunque gli irregolari, gli strani. Per esempio, quando Meneghello parla di comunisti ha in mente anche e proprio questo tipo di gente. È emblematico il caso del Tar:
Erano bande abbastanza numerose, ottimamente comandate da capi come il Tar, il Tigre, il Negro; teoricamente inquadrate in grosse formazioni riconosciute, ma in realtà largamente autonome. […] Questo Tar, il principe dei monti alle nostre spalle […]. Venne a trovarci con Aquila, uno dei suoi luogotenenti, che era Rino; c’erano molte Aquile su pel monte, alcune semplici, altre Bianche o Nere. […] Il Tar era uno splendore; aveva le basette più lunghe e più folte del suo luogotenente; era armato poco o nulla, una pistola vecchiotta, infallibile, negligentemente appesa alla cintura. Portava i calzoni corti, i gambali, e questo elmetto coloniale. Tutto splendeva in lui, il viso colorito, gli occhi di morbido velluto, i denti bianchi, i tratti preziosi del viso, i gesti eleganti [201].
Come si vede c’è qualcosa di favoloso in queste descrizioni e ciò dipende anche dalla spregiudicatezza e in definitiva dalla libertà e anzi inventività di cui questi partigiani comunisti davano prova. Niente di più distante dal militante obbediente esecutore degli ordini di partito. C’è anzi un’aura anarchica che circonda questi personaggi e le loro azioni. Ed è questa che fa simpatia a Meneghello. Come già con Calvino finalmente quella demofobia che in fondo affliggeva Manzoni e Verga è superata senza per questo ricorrere a una mitizzazione ideologica, a un’idealizzazione morale del popolo, bensì sulla base di una simpatia del tutto spontanea e irriverente tra l’intellettuale in fuga dai ranghi del suo ceto e questa gente recalcitrante a qualunque educazione politica e di partito. A rendere ammirevole questo popolo meneghelliano non è la coscienza di cui esso si dimostra capace ma qualcosa di più e di meno della coscienza, qualcosa che ha che fare con la “grazia”, con una spontanea capacità di agire, di incidere sulla realtà, di modificarla. Va intesa anche in questo senso una distinzione che Meneghello pone tra una mira naturale e una mira acquisita:
Questo tipo di mira è caratteristica in quei popolani che hanno mira. Anch’io ho mira, ma è tutta un’altra cosa; la mia è mira mirata, cioè acquisita. La natura della mira è duplice, si può quasi dire che ci sono due mire, acquisita e infusa. Una è fatta di pazienza e disciplina, l’altra pare venga direttamente dallo Spirito Santo … Chi ha la mira infusa non sta a mirare, perché tutto ciò che spara è già premiato in cielo [202].
E va da sé che è quasi sempre gente come il Tar a essere dotata di quel tipo di mira “naturale”, a essere infuso di grazia. Ma si potrebbe quasi parlare per questi capi popolari di una sorta di sprezzatura degna di Castiglione nel fare la guerra partigiana, di una loro disinvoltura ed eleganza, anche nello sparare e nell’uccidere. Sprezzatura che in fondo deriva dall’allergia naturale che quelli provano per tutti i discorsi ideologici e cioè retorici. Per esempio:
Si muovevano, provvedevano ai propri bisogni improvvisando, improvvisavano tutto; non avevano nessun piano prestabilito, e facevano la guerra un giorno qua un giorno là. Eravamo annichiliti di ammirazione; si sentiva di colpo, al solo vederli, che la guerra partigiana si fa così [203].
Non c’è dubbio che in Piccoli maestri il protagonista va a scuola dal popolo – ma si dovrebbe dire dalle avanguardie del popolo – in un modo che però non ha nulla di idillico e moralistico. Da loro cerca infatti di imparare a relazionarsi con il mondo in modo il più possibile sobrio, empirico, pratico. Da questa gente si può imparare a emanciparsi dalla verbosità ma anche dalla troppa teoria. Si prenda l’episodio in cui parla con un capo partigiano, il Castagna:
No, è inutile pensavo: una comune cultura non c’è. Cosa valgano questi qui si vede ora che si organizzano da sé. Fanno le cose più facilmente di noi, con meno fisime; sbagliano anche, ma in modo pratico e rimediabile, sbagliano per eccesso, non per difetto. […]
[…] Parlai al Castagna dei nostri piani di guerra. […] Non aveva teorie preconcette […] Ogni volta che venissero i tedeschi, contavano di cavarsela; non occorrevano piani. «I piani confondono», mi disse il Castagna. «Vedremo in pratica». Brillante empirismo, pensai. […]
Domandai quindi al Castagna: «Perché siete qua voialtri?» Il Castagna disse: «Come perché?»
«Come mai che vi siete decisi a venire qua?»
«E dove volevi che andassimo?» disse il Castagna. Questo chiuse questa parte dell’indagine [204].
Mi sembra che anche qui faccia capolino il Tolstoj dei dialoghi tra Pierre Bezuchov e Platon Karatàjev, e sia pure con un pizzico di ironia in più: «Forse avevo dei pregiudizi in favore di questi popolani; tutto quello che facevano mi pareva giusto» [205]. E d’altra parte il riferimento a Tolstoj non mi pare peregrino se è vero che poi la strategia di Castagna ci ricorda quella del generale Kutúzov. Resta però che si tratta di un rapporto problematico, che c’è qualcosa di irraggiungibile in loro, in quei loro modi di fare e di essere, che sembrano preclusi agli intellettuali borghesi, quali di fatto sono Luigi e i suoi compagni più intimi. E se questa intesa era diventata impossibile era perché in Italia qualcosa si era rotto, almeno a partire da quella prima grande rivoluzione mancata che fu quella concepita da Machiavelli, nonché dalla sconfitta della Riforma. Il romanzo di Meneghello ritorna su quella mancata rivoluzione, su quella mancata alleanza tra classi che altre nazioni seppero realizzare (i paesi nordici con la Riforma protestante, la Francia con il ciclo rivoluzionario tra il 1789 e il 1848). E lo fa in un modo straordinariamente inventivo, lontanissimo da schemi ideologici, quali quelli per esempio gramsciani, in modo spi- ritoso. E tuttavia anche malinconico perché, pur con tutta la simpatia che prova, Meneghello si sente estraneo rispetto a quella gente, uno dei tanti «robespierrini» che hanno tentato di muovere il popolo alla rivoluzione sulla base di idee astratte – non a caso a un certo punto scrive «Tornammo a consultare La rivoluzione napoletana del Cuoco per attingervi saggezza rivoluzionaria […]» [206] – e dispera che si possa mai dare una qualche sintonia profonda tra quelli come lui – intellettuali borghesi democratici – e quelli come il Tar e soprattutto la grande massa dei «popolani».
E tuttavia il romanzo non sarebbe quello che è se non contenesse momenti in cui, sempre in una chiave ironica, la possibilità di un rapporto di reciprocità felice, felicemente pratico, si dà; come per esempio qui: «Che bellezza, studenti e popolani armati, in marcia per questi magnifici greppi; noi gli portiamo un grano di radicalismo, loro hanno tesori di sapienza pragmatica. Questa si chiama un’azione, stiamo agendo» [207]. E in altre occasioni Meneghello sfiora un leopardiano idillio politico allorché ci rappresenta un popolo, ma si direbbe anche un paesaggio, che custodisce i “suoi” partigiani:
La guardia non la facciamo perché non ce n’è bisogno; la fa la gente per noi, i contadini, la popolazione. Siamo così mescolati con loro, qui in mezzo alla vegetazione e alle colture, che non occorre nemmeno scomodare le staffette, le notizie arrivano di bocca in bocca. Ai piedi della collina e su in costa ci sono cascine isolate, agricoltori e contadini, alcuni più prosperi, altri più poveri, tutti amici nostri; per loro la vita continua più o meno come sempre, è uno schema che dura da secoli, salvo che ora c’è la guerra […] e ora, negli ultimi mesi, ci sono inoltre, qui attorno, questi ragazzi partigiani. Le donne cucinano spesso qualcosa anche per noi, le famiglie ci ricevono liberamente in casa. Alla festa ci mandano un fiasco di vino [208].
Ho parlato di idillio, ma avrei potuto parlare di utopia politica mezza conservatrice e mezza progressista, perché questo si evince dal passo sopra citato: la possibilità di un’intesa di lontana ascendenza rousseauiana, e comunque pre-industriale e pre-urbana, tra avanguardie politiche giovani, “leggere” e di poche pretese, uscite in fondo da quello stesso mondo, e un popolo sostanzialmente contadino e benevolente, che chiede di poter continuare a lavorare e vivere «più o meno come sempre», anche se magari con meno fatica e ingiustizie. Che si tratti di una prospettiva poco realistica o meglio irrealistica, non la rende meno suggestiva e meno capace di costituirsi come modello ideale di un’altra politica, di un’altra società, rispetto a quella che si imporrà alla fine della guerra. Quando arrivano gli alleati a liberare la città c’è certo euforia ma anche malinconia perché non c’è stato il tempo per portare a compimento una vera rivoluzione culturale, politica, morale. Gli alleati che entrano in città portano la liberazione, certo, ma anche preludono a una sconfitta, quella di un progetto che dovrà essere lasciato a metà:
Com’e strana la vita, pensavo. Sono arrivati gli inglesi. Benvenuti. Questi carri sono i nostri alleati. Con queste loro gobbe, con questi orli di grandi borchie ribattute, questi sferragliamenti, queste canne, vogliono quello che vogliamo noi. L’Europa è tutta piena di questi nostri enormi alleati; che figura da nulla dobbiamo fare noialtri visti da sopra uno di questi carri! Branchi di straccioni; bande. Banditi. Certo siamo ancora la cosa più decente che è restata in Italia; non lo hanno sempre pensato gli stranieri che questo è un paese di banditi? [209]
Gli «enormi alleati» stranieri prendono in consegna un’altra rivoluzione italiana rimasta incompiuta, trasformandola da attiva in passiva. Sarà infatti sotto la tutela di questi stranieri e soprattutto degli Americani che avverrà la trasformazione democratica del paese. Se alla domanda dell’inglese curioso che lo ospita nel suo carro armato («E chi sareste voialtri?») risponde dapprima «fuking bandits» e solo dopo, per rispetto della giovane partigiana che lo accompagna, «siamo i Volontari della Libertà»210, se lo fa è sia per riconoscere la marginalità a cui tra poco saranno ridotti i partigiani nella nascente democrazia, ma anche per rivendicare la sua fedeltà a un’esperienza di vita troppo originale e strana nella storia italiana per essere appiattita dentro discorsi patriottici convenzionali. È dunque per riconoscere una sconfitta ma anche per testimoniare di una vittoria ottenuta contro i costumi nazionali della prudenza e della convenienza, è per restare fedele a quella «onda della volontà generale», a quel «moto generale di rivolta» dentro cui a un certo punto «c’erano tutti», che invece che presentarsi come un volontario della libertà Luigi Meneghello si presenta come un fuking bandit.
Note
189 Ivi, pp. 328-329.
190 Ivi, p. 329.
191 Luigi Meneghello, I piccoli maestri (1964), in Id., Opere scelte, a cura di Giulio Lepeschy, Mondadori, Milano 2006, pp. 370-371.
192 Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, vol. I, cit., p. 51.
193 Meneghello, I piccoli maestri cit., p. 371
194 Ivi, p. 380.
195 Ivi, p. 462.
196 Ivi, p. 365.
197 Ivi, p. 457.
198 Ivi, p. 420.
199 Ivi, p. 608.
200 Ivi, p. 423.
201 Ivi, p. 554.
202 Ivi, p. 419.
203 Ivi, p. 406.
204 Ivi, pp. 420-423.
205 Ivi, p. 421.
206 Ivi, p. 595.
207 Ivi, p. 439.
208 Ivi, pp. 539-540.
209 Ivi, p. 611.
FONTE:https://www.leparoleelecose.it/?p=48100
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