di PIERLUIGI FAGAN
Leggevo ieri della ricerca fatta dall’European Council for Foreign Relation sul sentimento di varie opinioni pubbliche non solo occidentali, rispetto a temi di politica internazionale. La ricerca, su cui pur si possono avere riserve metodologiche, è comunque interessante e la allego nel primo commento.
Evidenzio però (in chart) questa prima fotografia di sentimento verso il futuro da cui emerge chiaramente le diverse traiettorie di stato di animo tra noi ed il resto del mondo. C’è questa differenza perché obiettivamente diverse sono le traiettorie. Noi europei ed americani siamo la parte che ha dominato il mondo negli ultimi settanta anni (in realtà gli ultimi tre secoli) e si è così assicurata tutti i vantaggi di questo dominio. Tale dominio non è più possibile quindi, volenti o nolenti, avremo una contrazione di possibilità i cui effetti ci preoccupano.
Tale contrazione di possibilità non sarà divisa equamente poiché il sistema occidentale è asimmetrico, gli US da soli, per ricchezza, popolazione, tecnologa e militare, sono in rapporto a noi come il Sole lo è con i pianeti del sistema solare. Sono quello che si chiama “Stato di potenza” e nessun altro lo è in Europa.
In più, le nostre società sono ineguali sul piano della stratificazione sociale e così il vertice cercherà di mantenere intatta la sua fetta di ricchezza e potere, scaricando in basso i rendimenti decrescenti in ogni singolo stato europeo, come ha fatto negli ultimi trenta anni.
C’è infine una questione poco conosciuta e condivisa. La nostra cultura economica ha sterilizzato il sistema economico rispetto ai contesti e si è concentrata sui suoi modi, i famosi “modi di produzione”. C’è però un problema di traiettoria storica, le nostre sono economie ipermature. Ipermaturo significa che il sistema economico ha da tempo esplorato e sfruttato il suo campo di possibilità. Tradotto, abbiamo sempre meno cose interessanti da produrre anche perché il bisogno materiale, ancorché soddisfatto in maniere asimmetriche sul piano sociale, è saturato ormai da tempo. A dire che se altrove nel mondo vendere una macchina in più dipende da quanto reddito si riesce a mettere in mano al desiderante il cui desiderio è scontato, da noi il desiderio è già soddisfatto da tempo e motivi per comprare quella nuova macchina sono sempre mano rinvenibili. Bisogna creare una situazione assai complicata in cui prima si spinge l’acquirente a sentirsi in dovere di comprare la nuova macchina per ragioni ecologico-climatiche, poi visto che questo meccanismo è poco trainante (per essenza del capitalismo basarsi sul dovere invece che sul piacere è un bel problema) tocca fare vere e proprie leggi che da un certo punto in poi ti obbligano ad avere nuove macchine con certe caratteristiche, infine tocca esser in grado di produrle. Qui poi finisci con lo scoprire che i costi di produzione sono troppo alti per avere prezzi abbordabili a livello di massa ed infine scopri che tecnicamente parlando, devi rifornirti di materie prime che non hai ed hanno i cinesi o qualcun altro. Ma i cinesi sono i nostri competitori economici e geopolitici e gli altri sono in territori, come l’Africa, in cui non hai più presenza e dominio.
Insomma, al di là che lo si chiami capitalismo o modo di produzione x o come vi pare, ci siamo dimenticati che il fare economico ha entrate (di materia, energia, capitale, idee) ed uscite (prodotti, servizi, scarti diretti ed esternalità indirette), ma il meccanismo tira fino a che deve risolvere problemi. Oggi ci sono sempre più problemi che non sono sempre o facilmente monetizzabili e molti dei problemi originari per cui s’è sviluppata la nostra forma di società economica, sono ampiamente risolti. Non così nel resto del mondo che ha davanti a sé decenni e decenni di sviluppo potenziale.
Ecco allora che il futuro c’è di default poiché il tempo scorre in avanti, sempre, ma noi non abbiamo idea di come viverlo. Troppo grande e complicata la lista delle questioni da rivedere, pratiche e teoriche.
Si inizia con che tipo di economia darci, ma soprattutto che ruolo potrà avere l’economia nell’ordinare le nostre società come ha fatto negli ultimi trecento anni. Ne consegue che tipo di società immaginare poiché la nostra società è conforme quel tipo e ruolo di economia che è al suo fine ciclo. Le due questioni, che sono intrecciate, non hanno ambiente teorico in cui poterle collocare.
Primo perché il nostro mondo teorico è fondato sulle forme del pensiero addirittura del XIX secolo quando nacque più o meno in sincronia la teoria politica moderna (liberale e social-comunista), la sociologia, la geopolitica, l’economics in luogo dell’economia politica stante, di fondo, un sostanziale dominio del mondo.
Secondo perché tutto ciò si svolge mentre la società rimane organizzata come è sempre stata organizzata nella modernità. C’è cioè un conflitto di interessi palese poiché le classi dirigenti tali sono in virtù del tipo di modello sociale ed economico che sta tramontando e non hanno alcuna voglia di pensarne un altro, nessuno pensa ad una alternativa futura della situazione che ti dà ricchezza e potere sociale oggi.
L’élite stato-cittadina dei Greci non poteva immaginare che sarebbe arrivato il tempo in cui tra Macedoni, Romani e poi musulmani sarebbe stata travolta per sempre. L’élite militare al tempo dei Romani non poteva immaginare altro che la continua espansione militare anche quando questa non era più possibile. L’élite aristocratica religiosa medioevale non poteva immaginare quale altro modo di stare al mondo fosse idoneo quando, dopo centocinquanta anni dalla Morte Nera si era ripristinata la demografia e la rivoluzione artigiana mostrava quanto meglio si poteva vivere producendo cose tra cui armi che servirono a sviluppare conflitti di conflitti che infine portarono ad addensarsi ai due primigeni nuclei dei nuovi Stati poi nazione dopo la Guerra dei Cent’Anni. Non era solo un difetto della libera immaginazione, l’immaginazione non era libera nel senso che le novità prefiguravano società diverse e complessi culturali adeguati, incompatibili con quelli in atto e in tradizione.
Questo futuro che c’è come tempo ma non c’è come immaginazione, oltre all’intrecciato assieme tra economia e società, i cui rapporti di dominio andranno probabilmente invertiti, pone la questione dello Stato-nazione. Lo pone a noi europei non ad altri. Molti hanno creduto che la narrazione sul superamento dello Stato fosse solo un requisito teorico del neoliberalismo, ma il neoliberalismo è un complesso culturale per lo più anglosassone e non risulta che alcuno, né nel Regno Unito, né negli Stati Uniti d’America abbia mai neanche accennato seriamente a questa idea senza senso per il proprio stato. Il concetto era valido per il resto del mondo ovvero minimizzare lo stato locale di modo che il sistema economico-finanziario da loro dominato potesse invaderli senza resistenze. Ci abbiamo creduto o fatto finta di crederci solo noi europei che nel frattempo abbiamo conformato una strana forma di confederazione economico-monetaria secondo questa confusa e contradditoria idea. Massimamente contradditoria perché l’intera storia del c.d. “capitalismo” è una storia di leggi, polizia ed eserciti per imporle e farle rispettare, legalità monetaria e tutto quanto altro dipende da niente di meno di uno stato. Ci fecero anche la Gloriosa rivoluzione a fine XVII secolo per avere, tramite il controllo dello stato, la possibilità di sviluppare questa idea di sistema economico e finanziario a dominio della società.
In Europa abbiamo una macedonia di stati con circa la metà della popolazione media che c’è nel mondo, nello stesso spazio geografico della Cina e degli US, loro hanno uno stato, noi una quarantina o più. Allora qualcuno pensa di far salire di un livello l’Unione europea, ma l’Unione europea è geneticamente una unione economica e non si dà affatto come logica che una unione economica possa diventare una unione politica. L’idea di un macro-stato europeo su base federale, prima che essere bella o brutta, non è tecnicamente, praticamente possibile da perseguire per tante ed ovvie ragioni che qui non possiamo dettagliare. Di contro, pensare che lo Stato-nazione di taglia europea, nato nel XVI secolo come logica, sia idonea ad un mondo di 8-10 miliardi di persone partite in 200 stati, è astorica, è astratta, non tiene conto del contesto in cui una volta erano idonee le città-Stato poi non lo furono più, come non lo furono più, belli o brutti che fossero, i principati, i granducati, le signorie e le partizioni medioevali. Lo standard adattivo lo dà il contesto non le nostre paturnie ideologiche.
Economia, società, stili di vita (tra cui una demografia che tende alla auto-dissolvenza, ad una silenziosa auto-estinzione), politica, Stato e consistenza di potenza, geopolitica, l’elenco delle cose da pensare per darci un futuro è enorme per quantità e qualità. Ma nulla di tutto ciò che dobbiamo affrontare nel pensiero sarà possibile se prima non rimettiamo in moto il pensiero e le sue forme. Il nostro pensiero, il nostro modo stesso di pensare non è altro che quello che ha riflesso la nostra storia, che però ha terminato il suo ciclo. Lo stesso terribile elenco prima sintetizzato oggi è ripartito in una decina di diverse discipline ingombre di appassionate ideologie, come possiamo pensare al futuro se pensiamo solo pezzi dell’intero scollegati gli uni dagli altri?
La diagnosi è problematica e del resto così è la realtà, a volte è in favore, altre volte no. Tuttavia, condividere una diagnosi è la precondizione per darci una prognosi. “Crisi” era il termine usato dai Greci per dire che si era ad un bivio in cui un corso di tempo poteva precipitare nel collasso finale o trovare la via per allontanarsi dal complesso di cause critiche. La cosa peggiore da fare in una crisi è negarla o sbagliare diagnosi. Il pensiero ha molto lavoro da fare, tra cui evitare di rifugiarsi per impotenza sempre e soltanto nella critica. Un modo nuovo di stare al mondo non sorgerà perché tutti quanti critichiamo quello vecchio.
Per pensare al nuovo ci vuole coraggio, il coraggio di affrontare il panico da foglio bianco.
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