La crisi ecologica e l’antica moneta della giustizia sociale
di GLI ASINI (Marino Ruzzenenti)
Da circa un decennio, si sta imponendo una visione riduzionista della questione ecologica, circoscritta alla crisi climatica e alle sole emissioni climalteranti, dunque ai fossili come fonti energetiche. Intendiamoci: il cambiamento climatico di origine antropica è un problema reale e grave, studiato scientificamente per la prima volta nel 1861 da Svante Arrhenius (1859-1927), chimico svedese premio Nobel, con predizioni che puntualmente si stanno avverando. Dunque, di tratta di un problema ecologico precocemente individuato come effetto dell’industrializzazione basata sui fossili e negarlo oggi sarebbe da idioti. Ciò che qui si vuol sottolineare è che è assurto a problema unico. Di tutto il resto non sembra interessare più nulla, neppure ai nuovi movimenti, purtroppo. Cosicché viene ignorato il fatto che i fossili siano anche materia prima per due settori portanti dell’attuale società, ma devastanti per l’ambiente, come la petrolchimica, che ci offre plastiche e fibre sintetiche, e l’agroindustria, nella sintesi dell’ammoniaca per i fertilizzanti a base di nitrati. E che i fossili si confermano ancora come due componenti insostituibili per ottenere gli altri due pilastri della società moderna, l’acciaio e il cemento armato. Come non sembrano preoccupare più nulla il depauperamento delle risorse del Pianeta (cui anche la transizione energetica contribuirà non poco, se si vuole proseguire con la crescita esponenziale dell’economia) e gli inquinanti tossici per l’ambiente naturale e per la vita umana che l’economia sversa nei territori, procurando quello che fino a qualche anno fa i movimenti definivano “ecocidio” o quella che già oltre quindici anni fa fu denominata “pandemia silenziosa”, provocata da sostanze chimiche di sintesi e isotopi radioattivi responsabili di varie forme di tumore, di mutazioni, di interferenze con il sistema endocrino, di trasmissione transplacentare di patologie per via epigenetica, del latte materno contaminato…
Questo, del riduzionismo ecologico in corso, è un tema centrale, a mio parere, da discutere e che, tra l’altro, pone qualche interrogativo anche sulla sorprendente fortuna mass-mediatica di Greta e dell’emergenza climatica. Il sistema forse ha bisogno che i governi investano enormi risorse pubbliche per la cosiddetta “transizione energetica” (Stati Uniti, Cina e in misura minore Ue. Cfr. Lucrezia Reichlin, La lezione americana all’Europa, “Corriere della Sera”, 30 luglio 2023), capace di perpetuare la crescita anche con meno fossili: perciò bene i motori elettrici, ma per lo stesso miliardo se non più di automobili. In questo quadro l’allarme climatico è un buon viatico per spingere l’opinione pubblica, quindi i governi, in questa direzione, rimuovendo ancora una volta la complessità e profondità della crisi ecologica e facendo accettare tecnologie per produrre più elettricità, come il nucleare, durevolmente devastanti per la futura vivibilità sul Pianeta.
Si tratta in sostanza di evitare il cuore del problema, ovvero che la crisi ecologica sia dovuta a una profonda frattura, intervenuta in particolare con la rivoluzione industriale e con la chimica di sintesi, tra tecnica e natura, tra economia ed ecologia, sia sul versante del prelievo smodato di risorse materiali ed energetiche, spesso non rinnovabili, sia sul versante dell’immissione dissennata nelle matrici ambientali di rifiuti, scorie, sostanze tossiche non biodegradabili e dannose ai viventi, umanità compresa.
E qui veniamo al punto decisivo del nesso inscindibile tra crisi ecologica e crisi sociale, riconducibili ad un’unica crisi che vede nell’economia capitalistica la prima fondamentale causa, ancorché non la sola, senza rimuovere la quale non è possibile avviare un processo di pacificazione prima tra gli umani e quindi con la natura.
Infatti la causa prima del problema non va individuata nel rapporto tra l’uomo e la natura ma nel rapporto tra l’uomo e l’uomo. Un’affermazione apparentemente paradossale, che l’amico Serge Latouche, da un po’ di anni tenta di declinare con una sentenza perentoria: “vi è un’incompatibilità di principio tra l’economia e l’ecologia, essendo la prima fondata sull’illimitatezza e la seconda sui limiti del pianeta Terra” (S. Latouche, Dé-consommation, dé-production, “La decroissance”, juillet-aout 2023, p. 4). E l’economia, com’è noto, è una faccenda essenzialmente umana, che gli stessi economisti pretendono di governare con calcoli monetari astratti, da loro inventati, che prescindono del tutto da quelli bio-fisici propri del funzionamento della natura. È l’insegnamento fondamentale che ci hanno lasciato Giorgio Nebbia e tanti profeti suoi coevi, ahimè inascoltati. Potrei far parlare, tra i tanti, Virginio Bettini con una citazione di una profondità e chiarezza che la rende più che mai di attualità: “La crisi: uomo contro uomo, non uomo e natura. Se si va alle origini di ogni problema ambientale si scopre una realtà fondamentale: alla radice della crisi non sta il modo in cui l’uomo interagisce con la natura, ma il modo in cui gli uomini interagiscono tra loro; cioè per risolvere i problemi ambientali dobbiamo risolvere i problemi della povertà, dell’ingiustizia razziale e della guerra. Il debito con la natura, che è la misura della crisi ambientale, non può essere pagato, persona per persona, con bottiglie riciclate o sane consuetudini ecologiche, ma con l’antica moneta della giustizia sociale; insomma, la pace tra gli uomini deve precedere la pace con la natura” (V. Bettini, B. Commoner, Ecologia e lotte sociali, Feltrinelli, Milano 1976, pp.70-71).
So bene che oggi la teoria dell’intersezionalità di marca nordamericana (Kimberle Chrensaw, 1989; Nancy Fraser, Capitalismo cannibale, 2023) ci ricorda che nella società attuale esistono tante altre contraddizioni (di genere, di etnia, di religione, di condizioni individuali svantaggiate…) che vanno accolte in una prospettiva di cambiamento dell’esistente. Però a patto che non ci si distolga da quello che a mio parere rimane il nodo principale, un sistema economico intrinsecamente ostile ad una condizione umana basata sulla pari dignità e ad una natura riconosciuta come risorsa vitale anche per tutte le generazioni che seguiranno. Insomma un sistema economico bulimico di rapina nei confronti sia dei tanti umani ricacciati in basso ed ai margini, sia delle risorse ambientali.
Va annotato che curiosamente voci di sistema stanno esplicitamente evocando la fine dell’economia dell’abbondanza, apparentemente in sintonia con quanti da decenni vedono nell’irrinunciabile tensione verso la crescita illimitata dell’economia capitalistica e ancor più del neoliberismo una delle principali cause dell’attuale crisi (Emmanuel Macron: “Noi viviamo la fine dell’abbondanza […] e una necessaria sobrietà”, discorso al Consiglio dei ministri del 24 agosto 2022; Mario Deaglio, Dall’illusione dell’abbondanza all’economia dell’abbastanza. Rapporto annuale del Centro Einaudi, Torino 2023).
È il segnale che nel mondo occidentale, in alto, vi è la consapevolezza che la prospettiva dell’unum imperium, coltivata dopo il crollo dell’Unione sovietica, di poter mettere le mani liberamente sulle risorse dell’intero Pianeta è fallita, che è in corso una ristrutturazione multipolare del mondo con una varietà di potenze (Cina, Russia, Brics) in crescita e determinate a tutelare e valorizzare le proprie risorse. Si potrebbe concludere: ottima notizia per l’Occidente, dove basta eliminare gli sprechi, ridurre i troppi consumi superflui e quindi i prelievi dalla natura, ridistribuire equamente l’eccessiva ricchezza accumulata da chi sta in alto e si realizzerebbe finalmente il sogno di tanti, “dall’abbondanza per pochi all’abbastanza per tutti”.
Ma per realizzare questo bisognerebbe fare i conti con il capitalismo che spinge ineluttabilmente in direzione esattamente opposta. Una direzione, dobbiamo saperlo, che in un contesto generale di penuria delle risorse, prevede necessariamente la guerra, ora, nel campo ucraino martoriato, con la Russia, domani, nell’altra martire designata Taiwan, con la Cina. Non dimentichiamo che, al di là delle contrapposizioni ideologiche, la seconda guerra mondiale venne scatenata per “un posto al sole” dall’Italia fascista e per “lo spazio vitale” dalla Germania nazista e che i successivi decenni di pace, almeno in Europa, furono garantiti dall’affluenza pressoché gratuita dei fossili, quindi dalla petrolchimica e dalla sintesi dell’ammoniaca che ha decuplicato la produttività agricola.
Rimane il grande problema: come fare i conti con il capitalismo e con la sua versione più distruttiva, il neoliberismo?
Personalmente sono troppo vecchio per coltivare illusioni. Ho vissuto un momento, tra fine anni Sessanta e inizi Settanta, in cui sembrava persino possibile, ma ho visto con i miei occhi corpi lacerati dalle forze possenti, spietate, furiose che si sono scatenate per impedirlo, forze che in due decenni hanno raso al suolo ogni anelito e speranza di cambiamento. Sento il dovere, tuttavia, di dire qualcosa.
Vanno bene, ovviamente, tutti i movimenti, le iniziative che dal basso cercano nei territori di attivare la partecipazione conflittuale contro le tante inutili nefandezze e di coltivare modi di convivenza tra gli umani e con la natura più dolci. È la strategia lillipuziana, praticata ormai da oltre un trentennio, con i risultati che tutti conosciamo. Mi permetto di aggiungere qualche altra considerazione. Innanzitutto non bisogna stancarsi mai di chiarire quel contesto che sopra schematicamente ho cercato di delineare. È bene conoscere in partenza le dimensioni reali del compito che dobbiamo affrontare, per non coltivare illusioni fuorvianti che alla prima difficoltà potrebbero prostrarci. In secondo luogo, se crisi ecologica e crisi sociale sono strettamente legate, non si può prescindere dal ruolo che i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali svolgono nel processo produttivo e nella società. L’ambientalismo non può limitarsi a registrarne la subalternità al sistema, ma deve porsi direttamente l’obiettivo di come superare l’attuale “solitudine operaia” che condanna questo soggetto sociale all’impotenza e al silenzio e con quali strumenti costruire con esso l’alleanza necessaria. In terzo luogo la questione della guerra deve essere assunta, soprattutto dai movimenti ambientalisti, come centrale, perché si tratta di una guerra essenzialmente “ecologica”, ovvero per il controllo delle risorse, come lo furono i due precedenti conflitti mondiali, figlia del mito della crescita illimitata.
Infine un’ultima osservazione che richiederebbe una trattazione a sé. Giorgio Nebbia, che forse più di tutti ha avuto piena consapevolezza delle complessità della crisi addirittura a partire dagli anni Settanta, è sempre stato convinto che se si ritiene il libero mercato capitalistico intrinsecamente incapace di farvi fronte, occorrono altri soggetti che delineino un percorso alternativo necessariamente lungo, ovvero quella che mezzo secolo fa veniva indicata come pianificazione, da parte di quell’autorità collettiva che istituzionalmente dovrebbe presiedere al bene comune, lo Stato.
Il neoliberismo, come è noto, si è costituito innanzitutto demolendo questo assunto, e riuscendoci a tal punto da aver convinto anche le poche forze che ad esso vorrebbero opporsi. Nebbia invece quella convinzione non l’ha mai abbandonata, cosicché poco prima di lasciarci ha voluto regalarci l’ennesima versione del suo piano per un’Italia pacificata con la natura (Giorgio Nebbia, Un piano a medio termine per l’ambiente italiano, in AA.VV., Vivere bene nel 2030, “Futuri”, n. 9, settembre 2017, pp. 22-26), una testardaggine che, mentre scrivo, trova conforto nell’uscita in italiano dell’articolo di John Bellamy Foster, Decrescita pianificata (www.decrescita.it/decrescita-pianificata/). Il paradosso è che ora il sistema con il Pnrr ha assunto la formula per decenni disprezzata del Piano, con un’importante dotazione finanziaria pubblica, mentre i movimenti continuano ad ignorare questo nuovo contesto, con il risultato che uno Stato pressoché inesistente, se non come polizia interna ed internazionale, ne appalta la gestione ancora una volta al mercato e alle grandi imprese, a partire da quelle energetiche, secondo le vecchie logiche. So bene che si tratta di un terreno impervio ed inusuale per le culture alternative, ma a mio parere non si può continuare ad ignorarlo o a ribadirne soltanto le palesi insensatezze.
FONTE:https://gliasinirivista.org/la-crisi-ecologica-e-lantica-moneta-della-giustizia-sociale/
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