E ora, stronchiamoli tutti!
da L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Davide Brullo)
Ciclicamente, esce un articolo bello, colto, vago che denuncia l’assenza delle stroncature letterarie in un Paese di letterati leccaculo. Questa volta ci casca Mariarosa Mancuso. Tanto, non cambia nulla
Nell’ultimo numero di “Foglio Review”, Mariarosa Mancuso ha pubblicato un articolo che s’intitola E non ci stroncheremo mai. Come sempre, è un articolo bello, informato, lungo – che finge di avere le spine. La sintesi del pezzo è questa: “Le stroncature in Italia sono rare perché ci conosciamo tutti. È un genere letterario poco praticato”. Te credo, fa la Mancuso, “Siccome nessuno vagabonda cavaliere solitario nelle patrie lettere, la stroncatura inimica tutta una cordata, un gruppo editoriale o giornalistico, una corrente letteraria”.
Il resto è una variazione sul tema, abbastanza colta, decisamente vaga.
Ogni tot di anni, intendo, un giornalista che ha la fama di essere acido, irreprensibile, brillante deve firmare un pezzo in cui lamenta l’assenza di stroncature in Italia. È una specie di tagliando di garanzia. Di solito, il pezzo è come quello che ha scritto Mariarosa Mancuso: scattante, virtuoso, snob. Un urlo che si sfarina in sbadiglio. Nel giugno del 1974 Guido Piovene, per dire, scrisse un articolo analogo: solo che in quel caso il pezzo inaugurava la ‘Terza’ del “Giornale”, era una specie di manifesto, s’intitolava L’incensatura, era posseduto da una profondità ben più autorevole di uno scritto sporadico, messo lì, un po’ per caso, come una puntina sulla seggiola dell’insegnante di italiano, un ordigno infine insignificante. “L’elogio indiscriminato al buono, al mediocre e al cattivo urta ancora di più e confonde di più i valori. Possibile che a certi piaccia davvero tutto? Si direbbe di sì”, scriveva, allora, Piovene.
“Basandosi sui giornali la cultura italiana sembra vivace, ricca; sono mascherati i suoi vuoti, il suo declino, il suo sfinimento… Lo spettacolo sembra quello di una perpetua incensatura, come nelle funzioni sacre, dove si vede sempre un prete che gira con turibolo e incensa gli altri a turno”.
Piovene metteva il bisturi nel corpo corrotto della cultura italiana, lo spazio dove tutto è permesso (tanto, a chi cazzo frega di un romanzo di merda?, ne scrivono tutti…), dimostrando che “esiste un terrorismo culturale, e funziona”.
Insomma, fatto l’articolo – pulito, cartesiano, esatto – che denuncia la cronica assenza di stroncature in Italia, che cazzo succede? Nulla. La fedina giornalistica dell’articolista è pulita, la faccia nettata dalla feccia, tutto torna come prima. Il giornalismo, si sa, è il reame dei narcisisti e dei mercenari: l’avvocato del diavolo è necessario affinché il sistema culturale continui a proporre le proprie diavolerie (per dirla in gergo: chi non scoreggia in un paese di stronzi?); d’altronde, alcuni giornali tenderanno, per spirito ideologico di gruppo, a stroncare sempre alcuni libri e non altri. Ma questa, appunto, non è più l’arte arcana della stroncatura ma quella cialtrona dello stipendiato; è fare il leccaculo del padrone con la mitraglia in mano.
Quando, due anni fa, Christian Rocca mi ha cacciato da “Linkiesta”, non mi pare ci sia stata una alzata di scudi a difesa del diritto di stroncare. Secondo Rocca, la stroncatura rientrava nel genere “articoli insultanti e per me senza senso”: qualche tempo dopo ho compreso il senso profondo del concetto. Il tizio mi ha dato il benservito non tanto per una stroncatura (genere, capisco, insensato per chi ritiene il giornalismo una specie di foyer, un attico, il bordello dove si cullano alte relazioni, insomma), ma per una frase, questa:
“Eppure, sulle copertine dei giornali non è finita Maria Grazia Ciani – che per altro, velata di pudore, rifiuterebbe ogni forma di fama – ma scrittrici meno capaci di lei, dal profilo televisivo, Nadia Terranova, Veronica Raimo, Teresa Ciabatti… perché?”.
Il concetto è ancora oggi semplice, non certo insultante: il romanzo eccentrico di Maria Grazia Ciani, insigne classicista, La morte di Penelope, è più bello di altri romanzi ben più pompati dalla stampa che conta. Lo capisce anche un bambino. Quando, poco dopo la mia cacciata, a Nadia Terranova è stata affidata la direzione di “K”, “la rivista letteraria de Linkiesta”, finalmente, tutto si è fatto chiaro. La rivista, per altro, ha ospitato racconti di diversi scrittori che ho diversamente stroncato (tra l’altro, ho scritto della Terranova qui). Non c’è nulla come l’ambito letterario – ne conviene anche la Mancuso – per rifarsi l’abito culturale, ampliare il parterre delle proprie auree conoscenze, diventare amico di molti. Pubblicare un libro, semmai.
Per carità, un direttore è tale perché può fare un po’ come gli pare – più di assenza di stroncatori, dunque, parlerei di mancanza di coglioni. Ho scritto stroncature per quasi vent’anni: prima, sporadicamente, sul “Domenicale” diretto da Angelo Crespi, poi curando una rubrica su “Libero” – per grazia di Miska Ruggeri e Francesco Specchia – infine su “Linkiesta” – sia onore a Bruno Giurato e a Francesco Cancellato. Non ne scrivo più, se non per gioco, quando m’invade il ritmo dionisiaco. Perché? Beh, la condizione principale per scrivere una stroncatura è che ci sia un giornale a giudicarla: se la scrivessi sulle testate che dirigo si muterebbe nel valzer del livoroso, nel giogo delle ripicche e degli inganni, nel gioco delle oche invidiose. No. La stroncatura è giustificata da un rapporto professionale stipulato con un giornale terzo. Lo stroncatore, va da sé, è lì per mettere in difficoltà il proprio direttore, è il tasto di autodistruzione del giornale per cui lavora, è il ragazzo con la fionda che spacca le finestre di chi lo paga, è sfrenato nel suo maniaco esercizio di giustizia.
Insomma, cacciato da “Linkiesta” nessun giornale mi ha preteso tra i suoi per scrivere stroncature. Dunque, di che cosa parliamo? Vezzi al vento, peti a piroettare tra le redazioni novembrine. Certo. In tanti. Troppi. Ah, Davide, esilaranti le tue stroncature. Ah, quanto ci mancano le stroncature. Ah, dai, troviamo il modo di tornare alle stroncature. Non è successo niente. Niente. Il variopinto rimpianto dei vili; il gretto ghigno di quelli bene installati. Ora, per lo più, scrivo di morti, faccio il tombarolo. Probabilmente, le stroncature che ho scritto fanno giornalisticamente schifo. Provo a crederci. Per puro sport – l’attività giornalistica non è degna di libro – ho raccolto in volume una piccola selezione delle mie stroncature. Ho rifiutato ogni anticipo e ogni royalties. Non voglio guadagnare sui cadaveri, sui libri di merda scritti da altri. Il libro pare abbia venduto bene. Bene.
D’altronde, la stroncatura è genere troppo raffinato per la porcilaia giornalistica odierna. Chiede dedizione linguistica – un conto è stroncare Alessandro Piperno, un altro Eugenio Scalfari, un altro ancora Alberto Angela: ciascuno ha bisogno di adatta sartoria della lingua –, la perizia di chi scrive sempre come fosse l’ultima volta, un gergo che sputtana la ‘deontologia professionale’ (la morte del giornalismo), un’enfasi ingenua, da predicatore, la consapevolezza di rompere antiche amicizie per un bene superiore, la certezza di fare collezione di diffide, minacce di querela, ingiurie, la grazia autarchica del bel gesto, il barbaro narcisismo di chi ammazza anzi tutto se stesso. Lo stroncatore è il matto del villaggio, il tipo che corre nudo mentre la città fiammeggia; ha le pose del clown e dell’invasato, è bertuccia e giaguaro, è sempre fuori luogo e fuori tempo, inferiore, infausto, faustiano, insensato e impensato. Eppure, è lui il toccasana di un sistema editoriale in disfacimento, prono alla ripetizione e all’inchino. Egli spacca le terga di cristallo dei poteri iniqui, infanga gli abiti sacri, rovescia gli altari; ricorda che il livore induce alla limpidezza, che non c’è letteratura senza l’abbrivio della rabbia, la virtù dell’odio e del candore.
Dunque, direi, cara Mariarosa, basta pippe. Facciamo una fogliata di libri stroncati, una sfogliata di improperi, una rivista da nemici?
FONTE: https://www.lintellettualedissidente.it/inevidenza/stroncature-mancuso/
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