Dobbiamo smettere di insegnare l’economia neoclassica, come si sono chiesti Rochon e Rossi in un recente intervento su queste pagine? È una domanda retorica e forse inutile, sebbene lecita. Non appena si affaccia una sconfitta delle idee più o meno socialiste, ci domandiamo se la scienza mainstream debba avere ancora diritto di cittadinanza1. In realtà, sarebbe più comprensibile questa domanda: siamo all’altezza delle grandi sfide sociali, culturali, scientifiche, economiche e teoriche che attendono l’umanità?
La ricerca economica è pervasa da troppi cliché, dalla necessità di pubblicare su riviste di classe A, da un bisogno spasmodico di penetrare ogni intercapedine della produzione di sapere. Tanto che, siamo onesti, si è persa la voglia di capire e comprendere il suo vero oggetto: la società. Perché non riprendiamo a studiare il mondo per come funziona realmente? Perché non ci facciamo più le domande di senso? Perché l’economia è uscita dal suo alveo naturale di scienza sociale?
Spesso mi sono posto domande su concetti come il Pil potenziale, la domanda effettiva e il tasso naturale di interesse. Ho cercato la risposta leggendo gli autori che, a torto o ragione, consideriamo autorevoli da entrambi i lati della “barricata”. Ma se mettiamo in una stanza dieci di questi autori, sono altrettanto certo che possiamo uscirne con più di dieci ipotesi di lavoro o proposte di soluzioni.
Che cosa si nasconde dietro questa incertezza? Il capitalismo è un modo di essere delle società che non si distrugge nelle crisi, ma evidentemente si trasforma e, una volta trasformato, dà luogo a una nuova cultura capitalistica e a nuovi rapporti tra il capitale, lo Stato e gli stessi capitalisti2. La ricchezza delle idee e della cultura è innanzitutto la possibilità e la capacità di costruire ipotesi di ricerca e di lavoro feconde e, soprattutto, atte a dare delle soluzioni di buon senso al benessere di uomini e donne. Viene in mente la solitudine del riformista di Caffè3.
Il Pil potenziale, questo sconosciuto
Il nodo su cui vale la pena spendere del tempo (almeno è questa la mia convinzione) è il concetto di Pil potenziale, la cui declinazione si presta a troppi equivoci rispetto alle grandi sfide di struttura che attendono l’umanità.
Il Pil potenziale neoclassico è associato al livello massimo di produzione reale che un’economia può realizzare mantenendo stabile il tasso di inflazione. Sarebbe il livello di produzione che un’economia può raggiungere quando opera a piena capacità con tutte le risorse disponibili, come lavoro e capitale, utilizzati in modo efficiente. Ciò ha indotto i neoclassici a pensare che, quando “il Pil effettivo è inferiore al Pil potenziale” (cioè l’economia sta operando al di sotto della sua capacità), sia possibile adottare delle politiche economiche attive senza che ciò generi un’inflazione eccessiva. D’altro canto, se il Pil effettivo supera il Pil potenziale, ciò può indicare un surriscaldamento dell’economia, che potrebbe portare a pressioni inflazionistiche.
Tra i fattori che possono influenzare il Pil potenziale vi sono le variazioni delle dimensioni della forza lavoro, i miglioramenti della produttività del lavoro e le variazioni della quantità e della qualità del capitale. Anche le politiche economiche, i progressi tecnologici e le tendenze demografiche possono influenzare il Pil potenziale nel tempo. Il Pil potenziale è quindi una proiezione “matematica” di quello che si potrebbe realizzare senza generare turbolenze.
Ma questa narrazione alla Olivier Blanchard (o alla Larry Summers, se preferite) non permette di catturare cosa si cela dietro lo sviluppo economico e sociale. L’intervento pubblico è piegato esclusivamente a chiudere la forbice tra il Pil potenziale (calcolato secondo le metodologie neoclassiche) e il Pil effettivo. L’economista si riduce a un idraulico che deve correggere il flusso di “moneta” o di “spesa pubblica” per riequilibrare il Pil.
In realtà, il potenziale di crescita non dovrebbe mai essere associato alla sola disponibilità dei fattori di produzione. C’è sempre un nuovo bisogno che possiamo soddisfare. Più precisamente, il Pil potenziale non è (pienamente) rappresentabile perché esso si sposta assieme al mutamento quali-quantitativo dei consumi e degli investimenti, che evolvono nel tempo.
Una sicumera poco “naturale”
In economia è spesso utilizzato anche il termine “naturale”. Adam Smith fu tra i primi a parlare di un “prezzo naturale”. Tale concetto, però, non andrebbe inteso come un equilibrio di lungo periodo in cui emerge un’armonia perpetua. Esso, piuttosto, andrebbe visto come un punto di riferimento mutevole, da interpretare tenendo conto della specifica fase dello sviluppo economico.
D’altronde, i tassi di profitto, interesse e investimento in realtà non convergono mai, ma variano da settore a settore. Se ogni settore ha un proprio tasso di profitto, d’interesse e d’investimento, a rigor di logica non dovrebbe esistere un tasso naturale di riferimento del profitto e, tanto meno, dell’interesse. Il concetto di tasso naturale (o tasso di riferimento) non è altro che una convenzione che misura le diverse aspettative dei settori produttivi.
Riprendendo un appunto di Keynes sottolineato da Rochon e Rossi, “ci siamo cacciati in un pasticcio colossale: abbiamo preso un abbaglio nel tentare di controllare una macchina delicata, di cui non comprendiamo il funzionamento. Il risultato è che le nostre possibilità di ricchezza potrebbero andare sprecate per un po’ di tempo, forse per molto tempo”4. Forse, dovremmo riconoscere più chiaramente non solo che l’economia è una materia delicata, ma anche che, privata dello status di scienza sociale, diventa una materia sostanzialmente inutile.
John Maynard Keynes.
In effetti, la definizione di saggio “naturale” di profitto o rendimento del capitale incontra un limite nella stessa dinamica dello sviluppo capitalistico. Ne consegue che non si può parlare di un livello naturale dei profitti: essi tendono a non convergere e variano da settore a settore. Infatti, lavoro e capitale non sono beni come tutti gli altri, e con il passare del tempo il lavoro cambia natura e contenuto, quanto e come il capitale. Il capitale e il lavoro al tempo 1 sono diversi da lavoro e capitale al tempo 0.
In altri termini, si potrebbe dire che la domanda effettiva è la domanda attesa (potenziale) delle imprese, cioè il lavoro necessario che permette di generare i profitti desiderati. Se la domanda aumenta e muta contemporaneamente l’offerta, la conseguente domanda effettiva genera sviluppo, crescita e lavoro. La domanda effettiva e potenziale vista da Keynes era una medaglia fatta di due facce (capitolo tre della Teoria Generale)5. Si pensi al concetto di “socializzazione degli investimenti”6.
Un orizzonte troppo stretto
La questione fondamentale, in qualche modo sottesa all’articolo di Rochon e Rossi, può essere formulata a partire da un contributo dell’amico Salvatore Biasco, da poco purtroppo scomparso: “Finché un nuovo orizzonte politico e intellettuale, di principi, di governo della società, di creazione della ricchezza, di concezione dei rapporti sociali rimarrà inarticolato e non riuscirà a generare una mobilitazione di massa, l’imprinting farà riapparire le idee neo liberali come unica saggezza convenzionale che l’opinione pubblica ha più facilità a percepire e a cui finisce per aggrapparsi”7.
Tale questione è tanto più urgente se consideriamo che la minore crescita dopo gli anni Duemila ha sollevato tante domande, e nessuna di queste domande ha trovato una risposta. In effetti, la seconda rivoluzione industriale, relativa all’elettricità, al motore a combustione interna e all’acqua corrente con gli impianti idraulici nelle case (1870-1900), ha impiegato un arco di tempo molto lungo prima di dispiegare tutte le intrinseche potenzialità, sostenendo una domanda di nuovi beni e servizi, mentre la terza rivoluzione industriale (che comprende anche internet e computer) non sembra aver modificato la struttura economica tanto quanto sarebbe stato necessario per alimentare una nuova domanda1. Forse ha concorso il cosiddetto “morbo di Baumol”2.
In effetti, nella generalità dei Paesi, la dinamica della produttività è stata superiore alla media del rispettivo sistema per lo più nei settori manifatturieri, mentre il contrario si è riscontrato nei settori dei servizi. D’altro canto, la quota di valore aggiunto rispetto al Pil è diminuita per la generalità dei settori manifatturieri ed è aumentata per la generalità dei servizi. La maggiore espansione settoriale dei servizi si è verificata anche per l’occupazione. Cioè, domanda e produzione nel settore con minor dinamica di produttività (i servizi) sono addirittura aumentate rispetto a quelle nel settore più dinamico (la manifattura).
Che cosa si nasconde dietro il “velo” di questo brusco rallentamento della crescita, particolarmente visibile nel Pil pro-capite? La politica economica dopo il Duemila, soprattutto in Europa, ha associato la domanda effettiva alla domanda potenziale. Così, ha confuso l’analisi descrittiva dell’economia con l’analisi prescrittiva, limitando drasticamente i margini dell’azione dei decisori e le possibilità di plasmare il sistema economico. Il Pil potenziale è stato schiacciato sulla sua visione neoclassica: è stato visto solo come reddito “realizzabile”, non come reddito che muta quali-quantitativamente i consumi e gli investimenti i quali, a loro volta, evolvono nel tempo secondo i cambiamenti tecnici3.
Possiamo certamente discutere di Pil potenziale, domanda effettiva e domanda naturale, ma dietro queste definizioni si celano variabili indipendenti che non sono valide per tutte le stagioni. A volte servono maggiori investimenti, altre volte è necessario un aumento della forza lavoro, altre volte ancora servono degli sforzi tecnologici importanti. In realtà, il Pil potenziale (o desiderabile) potrebbe anche essere associato, nel senso etimologico del termine, a tutto quello che desideriamo fare e pensiamo che non sia ancora possibile realizzare. In fondo, è proprio la natura dell’uomo che dovrebbe essere liberata.
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