La Palestina e l’anomalia irlandese
di GLI ASINI (Giovanni Pillonca)
Nei due mesi segnati dalla devastante risposta di Israele all’atroce massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre, l’Irlanda ha continuato a mantenere con coerenza la sua posizione di sostegno alla causa della libertà palestinese e della pace nella regione chiedendo – insieme alla Spagna e al Lussemburgo – un cessate il fuoco e attenendosi così a un atteggiamento critico e indipendente rispetto agli altri partner europei che hanno invece dato carta bianca a Israele nell’esercizio del suo diritto alla difesa. Il Primo ministro, Leo Varadkar, ha bensì affermato che Israele ha il diritto di difendersi ma ha anche soggiunto che non ha il diritto di infliggere una punizione collettiva agli abitanti della Striscia. Si tratta di un attacco – già definito sproporzionato dal Ministro degli Esteri, Micheál Martin – che per Varadkar “assomiglia alla vendetta”. I politici dell’opposizione sono andati ben oltre, definendolo massacro. Vale la pena di ricordare che l’Irlanda è stato il primo paese europeo a riconoscere lo stato palestinese nel 1980 e a rimarcare nel 2017 i 50 anni di occupazione della Cisgiordania issando la bandiera palestinese sulla City Hall, il municipio di Dublino.
Sul Guardian, due articoli provano a spiegare questa anomalia irlandese (Ireland’s criticism of Israel e Ireland Palestine ceasefire Gaza) individuandone tre ragioni: lo storico passato coloniale sotto la Gran Bretagna, la violenza settaria nelle guerre civili e nel conflitto nordirlandese, il successivo cessate il fuoco e la pace. Tutto questo ha generato un senso di empatia con solide basi storiche verso quanti hanno le esistenze dimidiate o del tutto soffocate dall’occupazione e dalla violenza. Nessuno degli articolisti cita la posizione di indipendenza dell’Irlanda derivante dalla sua neutralità e dal non essere membro della Nato. Mentre si intensificavano i bombardamenti su Gaza, il Presidente irlandese Michael D. Higgins, in visita a Roma, diceva ai giornalisti: “Annunciare in anticipo che si infrangerà il diritto internazionale e farlo nei confronti di una popolazione innocente riduce a carta straccia tutta la legislazione sulla protezione dei civili in vigore dalla seconda guerra mondiale”.
Non sorprende quindi che sia uno storico irlandese, Fintan O’Toole, sulla New York Review of Books ad approfondire le ragioni di questa specificità indicando quello che è il principio cardine soggiacente al fenomeno coloniale, quello che tutto consente, vale a dire, la distinzione, anzi il discrimine funzionale tra popoli civilizzati e popoli barbari.
O’Toole cita John Stuart Mill, il teorico liberale inglese dell’Ottocento, che in “A Few Words on Non-Intervention” scriveva: un “governo civilizzato” che ha “vicini barbari” si trova obbligato o a conquistarli completamente o ad “affermare una così forte autorità su di loro da spezzarne lo spirito”. In questo processo, insisteva Mill, il governo illuminato non ha bisogno di rispettare le regole morali o legali. “Supporre – scriveva – che le stesse regole di moralità internazionale possano esistere tra una nazione civilizzata e un’altra, e tra nazioni civili e barbari, è un grave errore, un errore in cui nessun uomo di Stato può incorrere”. Questa, sostiene O’Toole, è, per quanto riguarda la politica estera, a partire dal Seicento, la dottrina più importante dell’Impero britannico, l’organizzazione statuale da cui Israele stessa è emersa.
Gli irlandesi nel corso del Novecento hanno avuto modo di riflettere sul retaggio di un passato segnato da un assoggettamento coloniale di più di tre secoli. Le definizioni di barbari se le sono viste assegnate in varie modalità sin dall’inizio della conquista elisabettiana. Ed è proprio in quel tempo che la dottrina prende corpo. La posizione di Stuart Mill, citata da O’Toole, è, in realtà, radicata nei principi originari dell’impresa coloniale britannica, così come li delineavano Sir John Davies, giurista e poeta, nel suo ruolo di Attorney General per l’Irlanda nel fondamentale A Discovery of the True Causes Why Ireland was Never Entirely Subdued del 1612 e, prima di lui, un altro poeta, Edmund Spenser, nel 1596, in A View of the Present State of Ireland. Secondo Davies, gli Irlandesi dovevano essere costretti a diventare liberi sotto la legge dopo una guerra che ne avesse “spezzato la spirito”, ecco la fonte della locuzione di Stuart Mill. Alla sottomissione dovevano seguire gli insediamenti coloniali e un governo efficace. Spenser, l’autore della Fairy Queen, in Irlanda come funzionario del governo, fu fautore di una politica di “terra bruciata” in cui anche la carestia poteva essere utile per decimare i nativi che così descrive:
“Uscivano da ogni angolo del bosco e della valle procedendo carponi, perché le gambe non li sostenevano. Sembravano anatomie della morte, parlavano come spettri, si cibavano di carogne e dei cadaveri stessi tratti dalle sepolture. In pochissimo tempo ne rimasero pochissimi, uccisi non tanto dalla spade ma dalle condizioni estreme provocate dalla carestia di cui erano stessi responsabili”.
E’ interessante notare la descrizione dei nativi come animali e, come popolo, responsabili della distruzione in cui sono incorsi per essersi ribellati.
Le categorie che hanno sotteso e giustificato tutta la storia del colonialismo sono state più volte usate, avverte O’Toole, nel corso della storia anche contro il popolo ebraico. Durante gli anni del Mandato (1923-1948) soprattutto in seguito agli atti di terrorismo commessi dalle bande armate dell’Irgun e del Lehi, tutta la comunità ebraica, non solo in Israele ma anche in Gran Bretagna, venne identificata con i terroristi e quindi con le forze barbariche e come tale trattata, meritevole delle punizioni più crudeli cui furono sottoposti anche donne e bambini, poiché si comportavano, secondo le forze dell’ordine, come ”folli bestie selvatiche”. Bestie umane, così ha definito gli uomini di Hamas il Ministro della Difesa Yoav Gallant. Una frase che Netanyahu aveva usato nel 2014 quando tre giovani israeliani furono trucidati da Hamas.
In Inghilterra ci furono manifestazioni anti ebraiche generate dal “cattivo principio di ritenere gli innocenti responsabili per o quanto i colpevoli”. Principio che discende direttamente dall’idea coloniale “secondo cui i popoli barbari sono colpevoli di crimini proprio in quanto popoli”. Le atrocità individuali devono essere intese come espressione di una mancanza di civiltà collettiva e possono quindi essere punite collettivamente.
“Questa logica consolidata – sostiene O’Toole – continua ad essere applicata in Israele anche adesso. Coloro che commettono crimini terroristici vengono identificati (come desiderano essere) con le persone che affermano di rappresentare. Quel popolo è quindi ridotto alle atrocità commesse in suo nome e deve pagare il prezzo di questi oltraggi”. È una logica secondo la quale i terroristi occupano tutta la scena e i civili diventano invisibili, anzi sono anch’essi inglobati nella categoria dei terroristi. Se ne è avuta riprova di recente nel discorso dello stesso Presidente di Israele Isaac Herzog, che ha definito il popolo di Gaza corresponsabile dei crimini di Hamas.
Quanto al passato coloniale dell’Irlanda, la riflessione su quel retaggio è stata portata avanti soprattutto dagli scrittori della Field Day Theatre Company. Se ne trova una sintesi puntuale nel pamphlet “Civilians and Barbarians” di Seamus Deane del 1983, poi incluso nel suo ultimo libro, Small World . Si tratta di un’analisi compiuta sulla scorta dei lavori di Fanon e Said, in un paese europeo che rispetto agli altri aveva avuto la sventura di essere la prima vittima del colonialismo moderno, esportato poi dagli inglesi in tutto il mondo. Un progetto di dominio fondato su quei principi che già informavano la conquista elisabettiana e che saranno poi aggiornati da una schiera di filosofi, poeti (Coleridge uno di questi) e pensatori di cui Stuart Mill è uno dei più importanti rappresentanti. La riflessione di Deane comporta anche un’impietosa autoanalisi sulle connivenze dei nativi e in particolare delle classi medie e della Chiesa nel mantenimento della dipendenza.
Ma ancora prima di Deane e Friel e dei teorici della lotta anticoloniale, è il più grande scrittore irlandese del Novecento, James Joyce, l’artista che aspirava a “creare la coscienza increata della sua gente”, il primo ad avviare la riflessione, individuando e denunciando, all’inizio del secolo scorso, le due colonne della dipendenza irlandese: la dominazione inglese e quella della Chiesa cattolica. Egli fa dell’ebreo diasporico Leopold Bloom, il protagonista del suo capolavoro, Ulysses, un romanzo, pubblicato nel 1922, che è sia una denuncia del nazionalismo sia dell’antisemitismo. Tutto il romanzo ne è costellato, ma in particolare il dodicesimo capitolo dell’Ulisse, intitolato “Ciclope” sulla base dello schema omerico di Joyce. Pungolato dal Cittadino nazionalista e razzista, il Ciclope appunto, Bloom rivendica il suo essere ebreo e allo stesso tempo irlandese. Alla domanda qual è la tua nazione?, risponde: “L’Irlanda. Sono nato qui”. Ma Bloom dichiara anche di appartenere a una “razza, che è odiata e perseguitata”. E al Ciclope che lo sbeffeggia: “Stai parlando della nuova Gerusalemme?” Risponde: “Parlo di ingiustizia”. Il capitolo ambientato in un pub è, tra le moltissime altre cose, un prontuario di storia ed educazione civica. Contiene un’esposizione dei danni del colonialismo e allo stesso tempo di quelli di un nazionalismo di reazione, suprematista, antisemita e xenofobo, che tanti danni avrebbe provocato in tutta Europa di lì a poco. Una difesa, senza distinzione, degli oppressi, una denuncia della violenza generata dall’odio. E a chi gli consiglia di battersi contro l’ingiustizia, Bloom risponde: “E’ inutile (…) La forza, l’odio, la storia (..) Non è una vita per uomini e donne, l’insulto e l’odio”. La vera vita, dice Bloom dovrebbe essere basata sull’amore, ”il contrario dell’odio”.
La lezione di Joyce tra gli scrittori contemporanei è ancora viva. Come è viva la fede nel potere terapeutico della letteratura e della poesia. A proposito dell’aspirazione alla pace anche in circostanze all’apparenza impossibili, va detto che moltissimi irlandesi conoscono a memoria la poesia “Ceasefire” di Michael Longley pubblicata qualche giorno dopo la firma dell’accordo del Venerdì Santo che avviava il processo di riconciliazione tra le comunità in conflitto nell’Ulster. Compressa nei 14 versi di un sonetto è la vicenda di Priamo che si reca da Achille per richiedergli il corpo del figlio, Ettore, ucciso dal Pelide. Mentre a confermare la solidarietà diffusa verso la Palestina, c’è l’esempio offerto da Sally Rooney. La scrittrice non ha ceduto i diritti per la traduzione in ebraico del suo romanzo Beautiful World a un editore israeliano che non accettava le sue condizioni, vale a dire “prendere le distanze dall’apartheid e sostenere i diritti, riconosciuti dall’ONU, del popolo palestinese”.
La vicinanza irlandese al popolo palestinese, infine, sarà ancora più marcata se, alle prossime elezioni politiche, lo Sinn Fein – da sempre, esplicitamente filo-palestinese, sostenitore sin dall’inizio del movimento BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) – diverrà, secondo le previsioni, il primo partito. Il profilo Twitter/X della leader del partito, Mary Lou McDonald, non presenta una bandiera irlandese, ma una palestinese.
FONTE:https://gliasinirivista.org/la-palestina-e-lanomalia-irlandese/
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